Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23986 del 26/09/2019

Cassazione civile sez. III, 26/09/2019, (ud. 11/07/2019, dep. 26/09/2019), n.23986

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 18655/2017 R.G. proposto da:

Bar dell’Angolo di B. e C. s.n.c., rappresentata e difesa

dall’Avv. Mauro Di Natale, con domicilio eletto in Roma, via Antonio

Gallonio, n. 18, presso lo studio dell’Avv. Francesca Giardina;

– ricorrente –

contro

R.F.S. e Ri.Ni.Ca., rappresentati e

difesi dall’Avv. Giuseppe Gioia, con domicilio eletto in Roma, via

Piazza Margana, n. 29, presso lo studio dell’Avv. Antonino Barletta;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 7/2016 del Tribunale di Enna, depositata il

14/03/2016;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 11 luglio 2019

dal Consigliere Emilio Iannello;

udito l’Avvocato Mauro Di Natale;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. Patrone Ignazio, che ha concluso chiedendo il rigetto

del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto notificato in data 26/9/2013 R.F.S. e Ri.Ni.Ca. intimarono alla società Caffè Agorà di B.S. & C. s.n.c. sfratto per morosità in relazione all’immobile ad essa concesso in locazione, ad uso commerciale, con contratto del 1/7/2003, deducendo il mancato pagamento del canone relativo ai mesi da maggio a settembre 2013 per un complessivo importo di Euro 6.330.

La società intimata vi si oppose, negando la morosità.

Eccepì infatti la nullità, L. 27 luglio 1978, n. 392, ex art. 79:

a) della determinazione del canone – ai sensi dell’art. 5 del contratto – in misura crescente nel tempo, per violazione dell’art. 32 cit. legge;

b) della clausola di cui all’art. 20 dello stesso contratto che, in violazione dell’art. 8 L. cit., attribuiva al conduttore per intero l’onere del pagamento delle imposte di registro.

Chiese pertanto, in via riconvenzionale, la condanna dei locatori al pagamento delle somme indebitamente versate per dette causali per un complessivo importo di Euro 4.053,23, al netto dei canoni dovuti per i mesi di agosto, settembre e ottobre 2013.

Transitata la causa alla fase a cognizione piena, con sentenza del 14/3/2016 il Tribunale di Enna, ritenuta la validità di entrambe le clausole contrattuali, dichiarò risolto il contratto di locazione per grave inadempimento della società conduttrice che condannò anche al pagamento della somma di Euro 10.803,08, oltre che al rilascio dell’immobile.

2. Con ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. la Corte d’appello di Caltanissetta ha dichiarato inammissibile il gravame interposto dalla società soccombente.

3. Con ricorso ex art. 348-ter c.p.c., comma 3, affidato a quattro motivi e illustrato da memoria, quest’ultima impugna la sentenza del tribunale.

Vi resistono gli intimati, depositando controricorso.

All’esito dell’adunanza camerale del 3/12/2018 il Collegio, con ordinanza depositata in data 1/4/2019, ha disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo perchè fosse trattata in pubblica udienza.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 115 c.p.c.; violazione ed omessa applicazione della L. n. 392 del 1978, artt. 32 e 79 in riferimento alla nullità della clausola n. 5 del contratto di locazione; violazione degli artt. 1362 e 1363 “c.p.c.” (recte: c.c.) in relazione all’interpretazione della clausola n. 5 del contratto di locazione con conseguente violazione del combinato disposto dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c.; violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. per illegittima inversione dell’onere della prova in riferimento alla determinazione di un aumento dei canoni maggiore rispetto a quello di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 32″.

Lamenta che erroneamente il Tribunale ha ritenuto non contestata la sussistenza della morosità, mentre questa era stata ripetutamente contestata negli scritti difensivi (memoria di costituzione con domanda riconvenzionale; note autorizzate del 7/11/2013; memoria integrativa del 14/4/2014; conclusioni di cui alle note autorizzate 25/6/2015).

Deduce che il Tribunale è inoltre incorso in errore “in punto di fatto e (di) diritto” nell’interpretazione della clausola contrattuale n. 5, facendo erroneo riferimento all’orientamento giurisprudenziale espresso dal precedente citato di Cass. n. 5349 del 05/03/2009.

Sostiene infatti che:

– dalla lettura della clausola predetta (secondo il cui tenore letterale “le parti espressamente dichiarano che, qualora il contratto non venga disdettato alla scadenza, il canone già aggiornato per tale anno sarà aumentato nella misura del 10% ferma restando per le annualità successive l’applicazione dell’aggiornamento Istat secondo le norme di legge”), alla luce di tutte le altre e, segnatamente, di quella di cui all’art. 3 (a mente della quale “il canone di locazione verrà aggiornato di anno in anno nei modi e nei termini previsti dalla L. n. 392 del 1978, art. 32 e successive modifiche ed integrazioni, riservandosi i locatori di precisarne l’ammontare”: enfasi aggiunta in ricorso), si evince la chiara volontà dei locatori di eludere il divieto di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 32;

– la previsione di un canone di locazione superiore al 10% rispetto a quello risultante dovuto al sesto anno di locazione (2009), già nel frattempo aggiornato a seguito degli aumenti ISTAT annuali, serviva ai locatori esclusivamente per introdurre un meccanismo diretto ad aumentare, al di là dei limiti di legge, il canone di locazione;

– la richiamata interpretazione giurisprudenziale ammette bensì la possibilità per le parti del contratto di locazione ad uso non abitativo di concordare il canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, ma pur sempre all’imprescindibile condizione che tale misura sia ancorata ad elementi predeterminati nel contratto, idonei a regolamentare l’equilibrio economico del rapporto, senza incidere sulla – o eludere la – disciplina delle variazioni annue del potere di acquisto della moneta; elementi questi la cui prova – rimarca – incombeva esclusivamente ai locatori.

Lamenta infine che il tribunale, osservando che il conduttore “avrebbe potuto valutare anche in ragione dell’avviamento, la possibilità di recedere dal contratto o rinnovarlo”, oltre a incorrere in violazione dell’art. 115 c.p.c. (trattandosi di argomento mai sostenuto dai locatori, nè da essi provato in giudizio), legittima l’utilizzo della clausola per aggirare la norma di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 28 che prevede sostanzialmente un rinnovo automatico, alla prima scadenza, per ulteriori sei anni del contratto di locazione ad uso diverso.

2. Le diverse, ancorchè connesse, censure nelle quali si articola il complesso motivo sono in parte inammissibili, in altra parte infondate.

2.1. E’ palesemente fuori segno, e deve dunque ritenersi inammissibile per aspecificità, la censura di erronea applicazione, da parte del giudice a quo, del principio di non contestazione.

E’ evidente infatti, alla luce della chiara e univoca ratio decidendi posta a fondamento della sentenza impugnata, che la ivi affermata non contestazione della morosità (pag. 2, rigo 27) va in realtà riferita al mancato pagamento dei canoni nella misura pretesa dai locatori, non anche alla fondatezza dell’intimato sfratto, essendo subito evidenziato, nell’ambito della stessa frase, il contenuto delle difese svolte dalla società intimata, tese a contestare la dovutezza delle maggiori somme pretese, per l’affermata nullità della clausola in tema di determinazione crescente del canone.

Che questo poi, effettivamente, fosse il contenuto delle difese proposte dall’intimata è chiaramente confermato anche da quelle svolte nel prosieguo del giudizio e dal contenuto dello stesso odierno ricorso, mentre, per converso, è altrettanto evidente che a fondamento della decisione impugnata non è certo posta la valutazione di non contestazione del fondamento della pretesa dei locatori, quanto piuttosto quella di infondatezza delle eccezioni opposte circa la nullità delle clausole in questione.

2.2. Il motivo è poi infondato nella parte, centrale, in cui con esso si contesta per l’appunto la correttezza, in iure, della valutazione espressa dal tribunale circa la validità della clausola contrattuale relativa alla determinazione crescente del canone.

2.2.1. Sul punto il tribunale ha richiamato la massima di Cass. 05/03/2009, n. 5349, secondo la quale “per effetto del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, risulta legittima la clausola con cui si convenga una determinazione del canone in misura differenziata, crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, ancorata, infine, ad elementi predeterminati (idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale e del tutto indipendenti dalle eventuali variazioni annuali del potere di acquisto della moneta), a meno che non risulti una sottostante volontà delle parti volta, in realtà, a perseguire surrettiziamente lo scopo di neutralizzare esclusivamente gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo, così, i limiti quantitativi posti dall’art. 32 Legge cosiddetta “sull’equo canone” (sia nella formulazione originaria che in quella novellata dalla L. n. 118 del 1985, art. 1, comma 9 sexies), ed incorrendo, conseguentemente, nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79 Legge predetta”.

Ha quindi rilevato che “nel caso che ci occupa, la clausola contrattuale appare rispondente ai criteri indicati dalla Suprema Corte poichè predeterminata al momento della conclusione del primo contratto di locazione e operante a seguito del primo rinnovo contrattuale, ossia in un momento in cui l’attività commerciale avrebbe potuto valutare, anche in ragione dell’avviamento, la possibilità di recedere dal contratto o rinnovarlo. Nè è stato provato (onere probatorio gravante sul conduttore in base a quanto riferito dalla Suprema Corte) che il contratto sia predisposto unilateralmente dal locatore o (che) la clausola sia stata prevista ai fini di eludere il divieto di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 32”.

2.2.2. La ricorrente muove anch’essa, dichiaratamente, dal principio sopra richiamato, ma sostiene che di esso nella specie il giudice di merito avrebbe fatto erronea applicazione.

Ciò sulla base del rilievo che:

– in base a tale principio un aumento del canone oltre i limiti previsti dalla L. n. 392 del 1978, art. 32 deve necessariamente essere ancorato ad elementi predeterminati nel contratto;

– la prova di tali elementi e quindi delle ragioni economiche funzionali che hanno condotto alla determinazione differenziata del canone incombeva ai locatori;

– tale prova non è stata offerta, nè la condizione emerge dal contratto, ove correttamente interpretato ai sensi del combinato disposto degli artt. 1362-1363 c.c..

2.2.3. In realtà, l’assunto secondo cui la determinazione del canone in misura crescente nel tempo può considerarsi valida a condizione che l’aumento c.d. “a scaletta” sia espressamente riferibile a elementi oggettivi e predeterminati, diversi e autonomi dalla svalutazione monetaria e idonei, come tali, a influire sull’equilibrio economico del rapporto contrattuale, non trova conferma nel precedente richiamato di Cass. n. 5349 del 2009.

E’ utile al riguardo rimarcare come, nella motivazione della sentenza richiamata, la questione viene collocata entro un quadro sistematico ricostruito in termini ben più “liberali” di quanto invece riesca a restituire la massima sopra enunciata.

Si muove infatti dal rilievo che “nelle locazioni non abitative, le parti sono libere di determinare il canone, pur non potendolo “aggiornare” nel corso del rapporto, se non nei limiti di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 32″ e si osserva quindi che “una tale libertà comporta anche il diritto di predeterminare l’importo del canone in misura variabile, e se del caso crescente, di anno in anno, purchè ciò avvenga in sede di conclusione del contratto; non per effetto di nuovi accordi stipulati nel corso del rapporto, allorchè la posizione del conduttore è indubbiamente più debole rispetto a quella del locatore, a causa degli oneri e delle diseconomie normalmente inerenti all’esigenza di spostare la sede dell’attività (per effetto di un’eventuale incombente disdetta o per altro).

“Ed invero – si prosegue – la legge presuppone che nelle locazioni ad uso non abitativo non operino, quanto meno all’atto della conclusione del contratto, le esigenze di tutela del conduttore che sole giustificano l’imposizione di limiti alla facoltà del proprietario di richiedere il canone ritenuto più remunerativo. E ciò trova spiegazione nel fatto che la situazione del mercato in questo settore, e la natura commerciale o professionale degli interessi perseguiti dal conduttore, fanno sì che le parti si vengano a trovare in posizione di sufficiente parità di forze e siano entrambe in grado di difendere adeguatamente i propri interessi, scegliendo liberamente se concludere o non concludere il contratto, in relazione ai sacrifici ed ai vantaggi che ne conseguono.

“Nè – si osserva ancora – vi sono indicazioni normative o principi di logica interpretativa che inducano a ritenere che una tale libertà di contrattazione sia limitata alla fissazione del canone relativo al primo anno di durata del rapporto, impedendo di pattuirne la variazione, ed in particolare l’aumento, per gli anni successivi (salvo l’adeguamento Istat).

“La limitazione risulterebbe priva di giustificazione, ove si consideri che il locatore potrebbe chiedere fin dall’inizio il canone massimo (nella specie, quello fissato per l’ultimo anno di durata del rapporto) e che non v’è ragione di ritenergli precluso di chiedere, per gli anni successivi al primo, la stessa somma che potrebbe chiedere immediatamente.

“E’ comunque decisivo il fatto che la L. n. 392 del 1978, art. 32, sull’equo canone, non impone affatto la limitazione agli aumenti del canone….

“Nel consentire infatti l’aggiornamento del canone solo nella misura corrispondente al 75% degli incrementi dell’indice dei prezzi al consumo, si riferisce appunto solo all’aggiornamento legato alle variazioni del potere di acquisto della moneta ed, atteso il suo carattere eccezionale, non può essere estesa per via di interpretazione analogica al di fuori del predetto settore e con riferimento ad altre clausole contrattuali che, conformemente alla comune volontà delle parti, siano volte ad incrementare il corrispettivo della locazione in relazione ad eventi diversi dalla svalutazione monetaria (Cass. 03/08/1987, n. 6695, in motivazione)”.

Appare evidente come, in siffatto argomentare, non trovi spazio alcuno la necessità di dimostrare, con rilievo condizionante, il collegamento del previsto aumento nel tempo del canone a elementi oggettivi e predeterminati idonei a incidere sul sinallagma.

La Suprema Corte, anzi, si fa carico espressamente dell’obiezione in tal senso svolta anche in quella sede dalla parte locatrice, ma chiaramente la respinge osservando come essa “(manifesti), in realtà, la propensione ad estendere agli aspetti della locazione che la legge ha voluto lasciare affidati alla libera contrattazione (determinazione del canone in sede di conclusione del contratto) la logica e i criteri interpretativi propri della legislazione vincolistica, che tuttora informano la disciplina del rapporto”.

Rileva infatti che anche per le locazioni non abitative “indubbiamente valgono… una serie di limiti all’autonomia privata a tutela del conduttore (durata minima obbligatoria, obbligo di rinnovo alla prima scadenza, immutabilità del canone salvo l’adeguamento Istat, ecc), in considerazione degli oneri a cui si è accennato, che deriverebbero al conduttore dalla necessità di spostare la sede dell’attività, per effetto del mancato rinnovo di un rapporto in corso, prima del termine di durata garantito dalla legge. Ma, all’atto dell’accordo iniziale, la pattuizione per le locazioni ad uso non abitativo di un canone variabile, ed anche crescente, di anno in anno, è da ritenere legittima (cfr. Cass. 23/02/2007, n. 4210; Cass. 24/08/2007, n. 17964; Cass. 08/05/2006, n. 10500, che eccettuano i casi in cui la pattuizione costituisca un mero espediente per eludere le norme della L. n. 392 del 1978, art. 32 circa l’adeguamento del canone nel corso del rapporto)”.

Solo alla stregua di una motivazione aggiuntiva, nel precedente richiamato, la Suprema Corte rileva che, comunque, nel caso al suo esame, “la Corte di merito ha motivato la sua soluzione anche con riferimento al fatto che i progressivi aumenti sono stati convenuti allo scopo di adeguare il corrispettivo della locazione al prevedibile incremento degli utili e dell’avviamento derivanti dall’attività svolta nell’immobile dal conduttore. Essa ha confermato l’accertamento del giudice di primo grado, secondo cui le parti avevano voluto da un lato agevolare la società conduttrice per il periodo iniziale, e dall’altro lato garantire alla locatrice, per il periodo successivo, la percezione di un canone corrispondente al valore reale della propria prestazione, trattandosi di un appartamento di pregio, situato nel centro di (OMISSIS)”.

Ciò per rilevare che, in quel caso, il previsto aumento del canone andava considerato valido “anche” alla luce della “giurisprudenza più restrittiva… (Cass. 23/02/2007, n. 4210; Cass. 08/05/2006, n. 10500; Cass. 24/06/1997, n. 5632)”: giurisprudenza che comunque, evidentemente, sia per quanto sopra detto sia per la stessa classificazione usata, quel collegio mostra di non condividere.

2.2.4. Detto questo con riferimento al precedente di Cass. n. 5349 del 2009, devesi comunque dare atto che, in effetti, la soluzione meno liberale della questione – per la quale la libera determinazione del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo consente bensì di concordare il canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, a condizione però che la misura, Legge sull’equo canone, ex art. 32 sia ancorata ad elementi predeterminati nel contratto, idonei a incidere sull’equilibrio economico del rapporto – trova riscontro in numerosi precedenti di questa Corte, anche recenti (v. ex aliis Cass. 14/03/2017, n. 6474; 28/07/2014, n. 17061; 23/06/2011, n. 13887; 17/05/2011, n. 10834; 06/10/2005, n. 19475; 21/07/2003, n. 11320;12/07/2000, n. 9227;01/02/2000, n. 1070; 24/06/1997, n. 5632; 22/11/1994, n. 9878; 15/04/1993, n. 4474; 08/03/1993, n. 2770). Reputa però questo Collegio che tale più restrittiva impostazione non trovi giustificazione logico sistematica ma anzi sia frutto di una distorta lettura, tralaticiamente tramandatasi nel tempo, della massima tratta da uno dei primi arresti che si sono occupati del problema, risolvendolo chiaramente nei termini più liberali sopra visti: Cass. 03/08/1987, n. 6695.

Come infatti evidenziato in uno dei più recenti pronunciamenti in argomento di questa Corte (Cass. 10/11/2016, n. 22909) Cass. n. 6695 del 1987 aveva appuntato la propria attenzione sulla necessità di non confondere “tra i concetti di aumento del canone (di locazione dello stesso immobile secondo contratti succedentisi nel tempo, anche per via di rinnovazione); di determinazione differenziata del canone (correlativamente a periodi compresi nella durata del medesimo rapporto contrattuale) e di aggiornamento del canone (in dipendenza della perdita del potere di acquisto della moneta verificatasi durante la pendenza del medesimo rapporto contrattuale)”.

In una prospettiva storica aveva rimarcato che “che la larga diffusione assunta, nella pratica del commercio delle locazioni in tempi di crescente inflazione, dalle clausole di adeguamento dei canoni (così dette clausole ISTAT), costrinse il legislatore ad occuparsene a salvaguardia del regime di blocco dei canoni stessi, allora vigente (cfr. D.L. 24 luglio 1973, n. 426, art. 1).

“Ma già con riferimento alla legislazione vincolistica la giurisprudenza di questa Corte non mancò di segnalare la non confondibilità – concettuale e di regolamento normativo – tra clausole di adeguamento ISTAT e patti di aumento del canone: in quanto “l’aumento” implica un accrescimento non solo dell’espressione monetaria ma anche del valore reale del corrispettivo, dovuto dal conduttore, mentre “l’adeguamento” importa soltanto una variazione della quantità monetaria, fermo rimanendo il suo valore effettivo (cfr. tra le altre Cass. n. 6574 e n. 4958 del 1979 e, segnatamente, Cass. n. 2758 del 1976). Successivamente, introdotta con la L. n. 392 del 1978 la predeterminazione legale del livello massimo del canone di locazione per gli immobili adibiti ad uso abitativo, secondo parametri oggettivi, rimase viva l’esigenza di salvaguardare l’equilibrio economico effettivo tra prestazione e controprestazione a fronte nella sopravvenienza, in pendenza del rapporto a durata vincolata, di elementi influenti su detto equilibrio, e si ebbe cura di distinguere “l’aggiornamento” (art. 24) da “l’adeguamento” del canone (art. 25) a seconda che il mutamento avesse inciso sul potere di acquisto della moneta, e cioè sul valore reale della prestazione del conduttore, oppure su parametri e coefficienti correttivi ex artt. 13 e 15, e cioè sul valore reale della prestazione del locatore.

“In materia di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, meno pressante si profila la esigenza di disciplinare “l’aggiornamento” del canone – vale a dire la validità o meno delle c.d. clausole ISTAT – una volta rimessa all’incontro della libera volontà delle parti, secondo le leggi di mercato, la determinazione convenzionale del canone.

“Ma sia per amore di simmetria, sia in considerazione dei problemi connaturati alla notevole durata del rapporto locatizio, venne introdotto l’art. 32 – poi sostituito dal D.L. 7 febbraio 1985, n. 12, art. 1, comma 9-sexies, convertito con modificazioni dalla L. 5 aprile 1985, n. 118, di portata assai più liberale.

“Quale che fosse il grado della sua pratica realizzabilità, la finalità perseguita dalla citata norma, nella originaria e nella novellata formulazione, sembra potersi individuare in quella di dissuadere i contraenti da una spesso arbitraria previsione a lungo termine circa la flessione del potere di acquisto della lira nell’arco dell’intera durata del rapporto, neutralizzandone in partenza gli effetti futuri attraverso una lievitazione del livello del corrispettivo preteso per concedere il godimento dell’immobile (ma così anticipando all’attualità la incidenza negativa sul costo medio della vita di un evento temuto quale l’inflazione nel futuro); dissuasione suggerita concedendo alle parti di convenire (coevamente alla stipulazione del contratto o successivamente) la variazione del canone secondo una percentuale ancorata all’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati.

“Si resta comunque e sempre, nel campo del vero e proprio aggiornamento del canone che, con costante precisione terminologica, il legislatore utilizza per individuare il fenomeno del mantenimento (almeno tendenziale) del valore reale della prestazione del conduttore – incidente sull’equilibrio del sinallagma – nonostante la variabilità della sua espressione monetaria in dipendenza della flessione nel tempo del potere di acquisto della lira”.

Tale lunga premessa servì in quella occasione alla Corte per rimarcare che “questa revisione riequilibriatrice, ed i limiti della sua operatività, nulla hanno a vedere con il diverso campo della incondizionata facoltà per le parti, secondo la loro libera valutazione espressa al momento della stipulazione del contratto di locazione di immobile adibito ad uso non abitativo, di assicurare al locatore un corrispettivo maggiore, in termini di valore reale e non nominalistica, rispetto a quello goduto in occasione di un precedente rapporto contrattuale (e cioè un aumento del canone in senso proprio); oppure di assicurare al locatore un corrispettivo crescente – sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto sia prevedendo il pagamento di rate quantitativamente differenziate, sia prevedendo il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi, a ciascuno dei quali corrisponda un canone possibile di maggiorazione in difetto dell’incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati ed influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma (ipotesi di canone differenziato).

“E’ invero di agevole intuizione che il valore locativo dello stesso immobile urbano adibito ad uso commerciale possa – durare la non breve e non riducibile durata legale minima del rapporto locatizio -subire variazione in dipendenza dello sviluppo urbano, della dotazione di maggiori servizi nella zona, della concentrazione di immobili destinabili ad uso concorrenziale, o di altri infiniti fattori estrinsechi.

“Di essi non può essere interdetto ai contraenti di tenere il debito conto ai fini dell’accordo sul corrispettivo, nel senso di rendere compartecipe il locatore dell’incremento nel tempo della redditività da posizione dell’immobile locato, attraverso meccanismi o formule di accrescimento del valore reale del canone ancorati a parametri certi e determinati (non escluso quello rappresentato dal volume degli affari del commerciante conduttore).

“Controindicazioni a quanto ora affermato non possono essere desunte dall’art. 32: e non tanto perchè nel testo originario di quella norma la previsione che il canone fosse dovuto secondo “misure” (al plurale) contrattualmente stabilite lasciasse sottintendere che le misure stesse fossero anche differenziate nel loro importo; quanto e soprattutto perchè il principio generale ed immanente della libera determinazione convenzionale del canone locatizio (per immobili destinati ad uso non abitativo) soffre, attraverso quella disposizione, di una deroga eccezionale limitatamente alla valenza delle clausole di aggiornamento per eventuali variazioni del potere di acquisto della lire, o clausole ISTAT, la quale mai potrebbe essere estesa, per via di interpretazione analogica, al di fuori del predetto settore e con riferimento ad altre clausole contrattuali volte ad incrementare – giusta la comune intenzione delle parti – il valore reale del corrispettivo per diverse e successive frazioni di durata del medesimo rapporto”.

Giunta a questo punto del suo argomentare Cass. n. 6695 del 1987 ha avvertito la necessità di precisare che “ragionando in termini di realismo economico, un accrescimento del valore effettivo del corrispettivo mai potrebbe essere conseguito dal locatore se non previa depurazione dal suo importo monetario di una quota corrispondente alla compensazione del decremento, nel tempo, del potere di acquisto della lira.

“Si pone pertanto, in sede di interpretazione del contratto, il problema di stabilire se mediante la formula adottata a determinazioni di canoni differenziati e crescenti per frazioni di tempo, le parti abbiano in realtà perseguito lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti negativi della svalutazione monetaria (con eventuale surrettizia elusione, sanzionabile ai sensi dell’art. 79, dei limiti quantitativi posti dall’art. 32 in esame) oppure abbiano di comune accordo inteso riconoscere al locatore, in misura dinamica, una maggiore fruttuosità in termini reali, del ceduto godimento dell’immobile.

“Ma trattasi di problema di accertamento della volontà delle parti contraenti e dello scopo comune verso cui esse dirigono, affidato al potere discrezionale del giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo della inadeguatezza della motivazione o della violazione delle regole di ermeneutica”.

Sulla scorta di tali premesse, Cass. n. 6695 del 1987 ha ritenuto che, nel caso al suo esame, il giudice di merito avesse “del tutto logicamente… escluso che le clausole contrattuali relative alla determinazione, anno per anno, dell’ammontare differenziato del canone dovuto e del minimo garantito fungessero, in forma mascherata, da clausole di adeguamento ISTAT violatrici dei limiti posti dalla L. n. 392 del 1978, art. 32 dal momento che il valore reale del corrispettivo annuo veniva ancorato a parametri (il costo unitario del biglietto di ingresso alla sala cinematografica ed il numero dei biglietti annualmente venduti) del tutto indipendenti dalla variazione annua del potere di acquisto della lira”.

Da detta complessa sentenza fu tratta la seguente massima: “alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola in cui venga pattuita la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, ancorandola ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della lira (nella specie, con riguardo alla locazione di un immobile ad uso di sala cinematografica, al costo unitario del biglietto d’ingresso ed al numero dei biglietti venduti annualmente), salvo che risulti – a seguito di un accertamento di fatto devoluto esclusivamente al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivato – che le parti abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dalla L. n. 392 del 1978, art. 32 (nella formulazione originaria ed in quella novellata dalla L. n. 118 del 1985, art. 1, comma 9 – sexies) ed incorrendo così nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, comma 1 cit. legge”.

Ebbene, come nota condivisibilmente la menzionata pronuncia di Cass. n. 22909 del 2016, proprio “il riferimento, risultante dalla massima appena trascritta, al c.d. ancoramento della pattuizione del canone ad “elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della lira” sembrerebbe indurre (come, in effetti, ha talora indotto) una lettura del principio sancito dalla Corte nel senso che, in tanto la libertà di determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo potrà esprimersi nella previsione di un canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, in quanto le parti abbiano cura di ancorare la misura del canone “ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta” (salvo poi che non risulti che le parti “abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dalla L. n. 392 del 1978, art. 32.”)”.

In breve, assecondando questa (errata) lettura della massima, si arriverebbe alla conclusione secondo cui le parti di un contratto di locazione a uso diverso da abitazione, là dove vogliano liberamente determinare l’entità del canone in misure differenziate e crescenti per frazioni di tempo, avrebbero l’onere (anche in termini probatori) di allegare necessariamente l’avvenuto ancoramento degli aumenti del canone ai richiamati elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta.

Tale preliminare condizionamento dell’autonomia contrattuale, tuttavia, non appare desumibile da nessuno dei passaggi argomentativi della sentenza richiamata, avendo la Corte viceversa affermato la piena e incondizionata libertà delle parti di assicurare al locatore un corrispettivo crescente – sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto, al riguardo prevedendo tre modalità alternative l’una all’altra e ciascuna pienamente valida e idonea allo scopo, ossia:

a) prevedendo il pagamento di rate quantitativamente differenziate;

b) prevedendo il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione;

c) prevedendo l’ancoraggio del canone a elementi o a fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei contraenti, sull’equilibrio economico del sinallagma.

Non può non discenderne, secondo l’esposto argomentare, che, là dove non emergano elementi o fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma, tali da consentire l’ancoramento automatico ad essi della misura dell’aumento del canone al fine di mantenere costante l’equilibrio economico del sinallagma voluto dai contraenti (come peraltro accaduto nella fattispecie concretamente affrontata dalla Corte, là dove le parti avevano vincolato, la misura del canone di locazione di una sala cinematografica, al costo unitario del biglietto d’ingresso e al numero dei biglietti venduti annualmente), nondimeno le parti conservano comunque la libertà di assicurare al locatore un corrispettivo crescente – sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto, sia prevedendo il pagamento di rate quantitativamente differenziate (ipotesi di cui supra lett. a)), sia prevedendo il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione (ipotesi di cui supra lett. b)); e ciò, salvo che le stesse parti non abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dalla L. n. 392 del 1978, art. 32.

Dunque, diversamente da quanto potrebbe equivocarsi dalla lettura della massima riportata di Cass. n. 6695 del 1987 (Rv. 454914), la Corte – lungi dall’imporre ai contraenti l’onere preliminare (anche in termini probatori) di allegare necessariamente l’avvenuto ancoramento degli aumenti del canone ai richiamati “elementi predeterminati e idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta” – ha piuttosto riaffermato il contrario principio della piena e incondizionata libertà delle parti di assicurare al locatore un corrispettivo crescente (sempre in termini di valore reale) durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto (ciò che costituisce la regola); e ciò, salvo che le stesse parti non abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria (ciò che costituisce l’eccezione): in tal caso, costituisce onere del conduttore (che invoca l’eventuale nullità del patto per violazione del combinato disposto dalla L. n. 392 del 1978, artt. 32 e 75) allegare gli elementi, eventualmente desumibili dal testo del contratto o da elementi extratestuali, idonei a rivelare l’effettivo intento delle parti di eludere il divieto di cui agli artt. 32 e 75 citt..

In difetto di una simile allegazione – o della prova dell’intento elusivo delle parti – il patto di determinazione differenziata del canone per frazioni di tempo successive deve ritenersi comunque valido.

Ritiene in conclusione questo collegio, in piena sintonia con il richiamato precedente di Cass. n. 22909 del 2016, che il riferimento (talora contenuto in talune decisioni della Corte di cassazione) al significato condizionante (in senso, per così dire, sospensivo del pieno esercizio della libertà contrattuale) dei c.d. “elementi predeterminati e idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta” sia da ascrivere a un’incongrua e impropria trasmissione della corretta e lineare ratio interpretativa originariamente fatta propria dalla pronuncia di Cass. n. 6695 del 03/08/1987 (come in precedenza descritta).

All’originario insegnamento di tale ultimo arresto questo Collegio intende tornare a riferirsi, siccome lettura più corretta e coerente del testo legislativo oggetto d’esame, a tal fine ribadendo, come segue, i principi di diritto già affermati da Cass. n. 22909 del 2016:

“Alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola in cui venga pattuita l’iniziale predeterminazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto. A tal fine deve escludersi la necessità di dimostrare, con rilievo condizionante, il collegamento del previsto aumento nel tempo del canone a elementi oggettivi e predeterminati, diversi dalla svalutazione monetaria, idonei a incidere sul sinallagma contrattuale. L’ancoramento a tali elementi costituisce infatti solo una delle possibili modalità attraverso cui può operarsi detta predeterminazione del canone “a scaletta”, in alternativa alla quale questa può altrettanto legittimamente operarsi sia mediante la previsione del pagamento di rate quantitativamente differenziate e predeterminate per ciascuna frazione di tempo; sia mediante il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione.

“La legittimità di tale clausola dev’essere peraltro esclusa là dove risulti – dal testo del contratto o da elementi extratestuali della cui allegazione deve ritenersi onerata la parte che invoca la nullità della clausola – che le parti abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dalla L. n. 392 del 1978, art. 32 (nella formulazione originaria ed in quella novellata dal D.L. 7 febbraio 1985, n. 12, art. 1, comma 9-sexies, convertito con modif. dalla L. 5 aprile 1985, n. 118), così incorrendo nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, comma 1 cit. legge”.

Nel caso di specie, avendo la Corte territoriale testualmente escluso l’esistenza di una volontà delle parti mirata a eludere i limiti normativamente imposti dalla L. n. 392 del 1978, art. 32 (in ogni caso non comprovata dall’odierna società ricorrente), dev’essere altresì escluso il ricorso di alcuna violazione o falsa applicazione di norme di diritto da parte della stessa (tanto sul punto relativo alla validità del patto di “predeterminazione differenziata” del canone per frazioni di tempo nell’arco del medesimo rapporto, quanto in relazione alla corretta distribuzione degli oneri di allegazione probatoria tra le parti in conflitto circa eventuali finalità elusive delle stesse, quanto ancora in punto di interpretazione della clausola contrattuale, censurata in termini del tutto generici e meramente assertivi), con il conseguente rilievo della radicale infondatezza di ciascuno degli ulteriori rilievi critici nei quali si articola il motivo in esame.

3. Il secondo motivo, anch’esso riferito all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è così intitolato in rubrica: “violazione e falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, artt. 8,41 e 79; violazione dell’art. 112 c.p.c. per l’erroneo rigetto della domanda riconvenzionale; violazione e falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, art. 8 in riferimento alla ritenuta natura di norma dispositiva”.

Con esso la ricorrente deduce l’erroneità della ricostruzione normativa accolta dal tribunale secondo cui il legislatore -abrogando, con la L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 14, comma 4, la L. n. 392 del 1978, art. 79 (e, dunque, la sanzione della nullità per violazione dell’art. 8 legge medesima), limitatamente alle locazioni abitative – avrebbe inteso trasformare la suddetta norma da imperativa a dispositiva (derogabile dalle parti) o meramente suppletiva (applicabile in caso di assenza di volontà delle parti), anche per le locazioni non abitative.

4. Il motivo è fondato, nei termini appresso precisati.

Il ragionamento che sul punto è posto a base della decisione impugnata si risolve nel seguente sillogismo:

– l’abrogazione della L. n. 392 del 1978, art. 79 ad opera della L. n. 431 del 1998, art. 14, comma 4, limitatamente alle locazioni abitative, ha eliminato la sanzione di nullità per la violazione dell’art. 8 e ha pertanto trasformato tale norma (che non è stata abrogata) da imperativa a norma dispositiva (derogabile dalle parti) o meramente suppletiva (applicabile in caso di assenza di volontà delle parti);

– la L. n. 392 del 1978, art. 41 nell’operare per le locazioni non abitative un mero rinvio agli artt. 7-11 (e dunque anche all’art. 8) stessa legge, non può averne mantenuto la forza imperativa, ma deve intendersi effettuato alla medesima disposizione per così dire “depotenziata” dalla sua forza imperativa, apparendo “irragionevole supporre che il legislatore abbia rinunciato all’affetto imperativo dell’art. 8 solo nei confronti del conduttore di un immobile ad uso abitativo – parte contrattuale tradizionalmente svantaggiata – e lo abbia mantenuto per tutelare il conduttore di un immobile commerciale che, in ragione della sua particolare qualifica soggettiva, può riservarsi di valutare la economicità e vantaggiosità di tale pattuizione”.

Tale ragionamento non può essere avallato essendo falsa la sua premessa maggiore, ossia l’assunto che, per effetto dell’abrogazione (ancorchè limitata alle sole locazioni abitative) della L. n. 392 del 1978, art. 79 l’art. 8 debba considerarsi divenuta norma derogabile (anche per le locazioni non abitative).

Occorre invero rilevare che a detta abrogazione non può comunque attribuirsi l’effetto di rendere la norma di cui all’art. 8 derogabile per volontà delle parti.

Indipendentemente infatti dalla sanzione di nullità prevista dall’art. 79 L. cit. per “ogni pattuizione diretta (ad attribuire al locatore)… altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della presente legge”, il carattere inderogabile della previsione di cui all’art. 8 deriva dall’essere essa norma di carattere tributario, poichè individua i soggetti passivi dell’imposta di registro dovuta per il contratto di locazione sia nel locatore sia nel conduttore, per pari quote.

Tali essendo la natura e l’oggetto della norma deve comunque considerarsi nulla – ai sensi dell’art. 1418 c.c., comma 1, per contrasto con l’art. 53 Cost., da ritenersi norma imperativa preclusiva di atti negoziali che ne comportino l’elusione – ogni pattuizione con la quale un soggetto, ancorchè senza effetti nei confronti dell’erario, riversi su altro soggetto, pur se diverso dal sostituto, dal responsabile d’imposta e dal cosiddetto contribuente di fatto il peso della propria imposta.

Viene al riguardo in rilievo il principio di recente affermato, in tema di (presupposti e limiti di validità del) patto traslativo d’imposta, da Cass. Sez. U. 08/03/2019, n. 6882, secondo il quale, in buona sostanza, tale nullità può essere esclusa (solo) qualora la clausola “che attribuisca al conduttore l’obbligo di farsi carico di ogni tassa, imposta ed onere relativo ai beni locati ed al contratto, manlevando conseguentemente il locatore, sia stata prevista dalle parti come componente integrante la misura del canone locativo complessivamente dovuto dal conduttore e non implichi che il tributo debba essere pagato da un soggetto diverso dal contribuente, trattandosi in tal caso di pattuizione da ritenersi in via generale consentita in mancanza di una specifica diversa disposizione di legge”.

Nel caso di specie una tale valutazione non risulta nemmeno ipotizzata nella sentenza impugnata, nè emergono elementi obiettivi e univoci che consentano di ricondurre a tale ipotesi salvifica la previsione in questione (contenuta nell’art. 20 del contratto).

5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, ancora ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione degli artt. 1453 e 1455 c.c. in riferimento alla pronunciata risoluzione del contratto di locazione del 1/7/2003 ed alla condanna al pagamento dei canoni scaduti; violazione dell’art. 116 c.p.c. per omessa valutazione delle prove relative all’insussistenza della morosità e del grave inadempimento contrattuale”.

Deduce che, “conclusivamente, alla luce delle risultanze probatorie rilevabili dalla documentazione in atti”, “la pronuncia (di risoluzione, n. d.r.) per grave inadempimento” e la conseguente condanna al pagamento dei canoni non versati, sono state adottate dal tribunale in violazione degli artt. 1453 e 1455 c.c..

Sostiene che il tribunale, avendo valutato legittime le clausole n. 5 e n. 20 del contratto di locazione nonostante la violazione di diverse norme imperative (L. n. 392 del 1978, artt. 8,32,41 e 79), e avendo inoltre “omesso di valutare tutti gli elementi che comprovavano non solo l’insussistenza di una morosità ma anche l’esistenza di una posizione creditoria della Caffè Agorà s.n.c.” è incorso nella violazione dell’art. 116 c.p.c..

6. L’accoglimento del secondo motivo comporta l’accoglimento anche del terzo, limitatamente alla parte in cui con esso si censura la mancata considerazione, quanto meno ai fini della quantificazione delle ragioni creditorie residue in capo ai locatori, del controcredito vantato dalla conduttrice per importi indebitamente pagati a titolo di imposta di registro.

Il motivo, nella restante parte, deve invece considerarsi inammissibile, in quanto generico, ovvero assorbito dal rigetto del primo motivo, nella parte in cui indirettamente si richiamano le medesime censure.

La violazione poi dell’art. 116 c.p.c. non risulta articolata nel modo in cui le Sezioni Unite l’hanno detto deducibile: si rinvia, per evitare ripetizioni, alla lettura dei principi di diritto enunciati al riguardo da Cass., Sez. Un., n. 16598 del 2016, atteso che l’illustrazione della censura si articola proprio nel senso che la sentenza ha detto estraneo alla corretta deduzione della violazione dei paradigmi di cui a detta norma.

7. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c..

Lamenta che il Tribunale “ha illegittimamente accolto la domanda degli odierni resistenti, rigettando le eccezioni e le domande riconvenzionali proposte dalla società ricorrente ed erroneamente ha compensato tra le parti le spese del giudizio”.

Chiede che, in caso di accoglimento del ricorso, questa Corte provveda a cassare il capo relativo alle spese con la condanna dei resistenti alle spese dei precedenti gradi, oltre che del giudizio di legittimità.

8. Il motivo deve considerarsi assorbito dall’accoglimento del secondo e del terzo motivo, nei termini e nei termini sopra indicati sopra precisati, in ragione del quale la sentenza impugnata va cassata, e la causa rinviata, ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma 4, alla Corte d’appello di Caltanissetta, alla quale va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione; rigetta il primo motivo; dichiara assorbito il quarto; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte d’appello di Caltanissetta, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019

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