Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23984 del 24/11/2016


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Cassazione civile sez. trib., 24/11/2016, (ud. 27/07/2016, dep. 24/11/2016), n.23984

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14390-2014 proposto da:

C.P., elettivamente domiciliata in ROMA VIA DI VILLA

SEVERINI 54, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE TINELLI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO DE LORENZI

giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimato –

Nonchè da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

C.P., elettivamente domiciliata in ROMA VIA DI VILLA

SEVERINI 54, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE TINELLI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO DE LORENZI

giusta delega a margine;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 120/2013 della COMM.TRIB.REG. di FIRENZE,

depositata il 26/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/04/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato DE LORENZI che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato MADDALO che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL

CORE Sergio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

principale, rigetto di quello incidentale.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

La ricorrente è un’artista che effettua sovente esibizioni canore all’estero.

Nel 2004 ha percepito redditi in Francia, provento di tale sua attività, che però non ha dichiarato in Italia, e che l’Agenzia delle Entrate, a seguito di verifiche incrociate, ha individuato e sottoposto a tassazione.

La ricorrente ha fatto presente di avere dichiarato quei guadagni in Francia, dove ha anche pagato le imposte, documentando tale circostanza a seguito di relativa richiesta da parte dell’Agenzia.

Il Fisco, tuttavia, ha ritenuto di dover applicare al caso l’art. 17 Convenzione con la Francia, in base al quale, secondo l’interpretazione data dall’Amministrazione, il fatto che l’artista abbia versato le imposte in quel Paese non impedisce all’Italia di poter considerare comunque imponibile il reddito estero, salva la dichiarazione del credito di imposta.

La Commissione provinciale ha accolto il ricorso, mentre quella regionale, su appello dell’Agenzia, ha ritenuto doversi applicare la regola del concorso, ai fini lrpef, delle potestà impositive dei due paesi. Tuttavia, riconoscendo la buona fede della contribuente, la CTR ha annullato l’avviso di accertamento quanto alle sanzioni applicate.

Ricorre la contribuente denunciando nullità della sentenza e violazione di legge, e propone ricorso incidentale anche l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia nullità della sentenza.

Sostiene che il giudice di appello ha pronunciato anche sulla esistenza del potere impositivo del Fisco italiano, ai sensi dell’art. 17 Convenzione, anche se tale questione, decisa in primo grado, non era stata riproposta in appello in modo specifico, come impone il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53.

In sostanza, i giudici di primo grado avevano ritenuto che, ai sensi dell’art. 17 Trattato con la Francia, l’Italia non avesse potere impositivo per i redditi degli artisti prodotti nello stato estero. Tale punto di sentenza non era stato impugnato esplicitamente e dunque doveva ritenersi formalmente giudicato. Invece, in violazione sia del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 che dell’art. 329 c.p.c., i giudici di secondo grado hanno comunque affrontato la questione, nonostante non riproposta, ribaltandone la soluzione.

Il motivo è infondato. Infatti, “nel processo tributario, ove l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni e argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato, è da ritenersi assolto l’onere d’impugnazione specifica previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, secondo il quale il ricorso in appello deve contenere “i motivi specifici dell’impugnazione” e non già “nuovi motivi”, atteso il carattere devolutivo pieno dell’appello, che è un mezzo di impugnazione non limitato al controllo di vizi specifici della sentenza di primo grado, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito” (Cass. n. 3064 del 2012, in termini analoghi Cass. ord. n. 1200 del 2016).

L’Agenzia, invero, aveva riproposto in appello la questione della legittimità dell’avviso di accertamento, ribadendo le ragioni poste a fondamento della legittimità del suo operato, ragioni che la commissione di secondo grado conseguentemente ha preso analiticamente in considerazione.

2.- Con il secondo e terzo motivo, la ricorrente fa valere violazione sia dell’art. 17 Trattato con la Francia, che degli artt. 3 e 165 TUIR sotto due profili connessi.

Secondo la contribuente, infatti, la Commissione avrebbe errato nel ritenere applicabili le norme del testo unico, ed a farle prevalere su quelle del Trattato. Ed inoltre avrebbe erroneamente inteso quest’ultimo, poichè avrebbe ritenuto erroneamente che l’articolo 17 non prevede l’esclusiva potestà impositiva dello stato estero (nella fattispecie la Francia). Più in particolare, la sentenza impugnata, sulla scorta di una circolare ministeriale, ha ritenuto che l’Italia rinuncia alla sua potestà impositiva quando questa è attribuita in via esclusiva allo Stato estero, mentre quando ciò non è espressamente previsto (come avverrebbe nel caso in questione), l’Italia mantiene la sua potestà impositiva ed il pericolo della doppia tassazione è evitato concedendo al contribuente, che abbia pagato all’estero, un credito di imposta in Italia.

Secondo la ricorrente, invece, è l’art. 17 Trattato con la Francia a doversi applicare, in quanto norma di diritto internazionale che deroga alle disposizioni interne. Queste ultime, che prevedono l’imponibilità del reddito anche se conseguito all’estero, si applicano solo ove non ci sia una norma pattizia con lo Stato interessato che disponga diversamente.

Con il quarto motivo la ricorrente fa valere una questione conseguente a quella posta con il secondo ed il terzo. Infatti l’Agenzia delle Entrate, per dare dell’art. 17 Convenzione, e del suo rapporto con le norme interne, l’interpretazione che poi ha dato, ha fatto altresì leva sull’art. 24 Convenzione stessa. Dal significato di tale norma ha tratto conferma che l’art. 17 consente la concorrente potestà impositiva dell’Italia. Ciò in quanto prevede meccanismi, interni, di eliminazione degli effetti della doppia imposizione.

Secondo la ricorrente si tratterebbe però di una interpretazione sbagliata, proprio perchè fatta a prescindere dal confronto con le altre norme della Convenzione, e segnatamente con lo stesso art. 17.

I motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono infondati.

In materia di imposte sui redditi, l’obbligazione tributaria grava, in linea di principio, su tutti i possessori di reddito (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 1 TUIR: presupposto oggettivo) residenti o meno nel territorio dello Stato (art. 2 T.U.I.R.: soggetti passivi). I primi vengono incisi in base al criterio soggettivo dell'”utile mondiale” (nel senso che “l’imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto, formato per i residenti da tutti i redditi 5E194E9 posseduti” come precisa l’art. 3, par. 1 TUIR) mentre per i soggetti non residenti il prelievo fiscale avviene in base al criterio oggettivo di “territorialità” della fonte del reddito (nel senso che il reddito complessivo imponibile per i non residenti è formato soltanto da quelli prodotti nel territorio dello Stato). L’adozione del doppio criterio di prelievo (inteso ad escludere “zone franche” della imposizione), in base all'”utile mondiale” del soggetto e alla territorialità della fonte del reddito, espressione della sovranità dello Stato sui cittadini e sul territorio, implica il rischio di doppie imposizioni rispetto a quei Paesi che utilizzano gli stessi criteri. Di qui l’esigenza di adottare appositi accordi tra gli Stati, che prevalgano sulla normativa interna, prevalenza che deriva altresì da espressa disposizione di legge (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 75: “nell’applicazione,,,delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia”) (così Cass. n. 12595/04 ed in senso conforme Cass. n. 29455/08; id. n. 3556/09; da ultimo Cass. n. 14474 del 2016).

Invero, sia l’art. 3 TUIR, il quale fissa il principio dell’utile mondiale, sia l’art. 165 TUIR che impone regole interne per evitare l’eventualità della doppia imposizione, entrambe invocate dall’Agenzia, si applicano solo in assenza di norme pattizie di segno contrario. Non si applicano dunque quando la questione sia regolata da apposita Convenzione.

In relazione al Trattato con l’Irlanda, ma l’argomento vale, mutatis mutandis anche nel caso in esame, questa Corte ha infatti affermato che la “Convenzione tra l’Italia e l’Irlanda conclusa a Dublino l’11 giugno 1971, ratificata e resa esecutiva con L. 9 ottobre 1974, n. 583,…. per il carattere di specialità del suo ambito di formazione, così come le altre norme internazionali pattizie – prevale sulle corrispondenti norme nazionali, dovendo la potestà legislativa essere esercitata nei vincoli derivanti, tra l’altro, dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost., comma 1, nel testo di cui alla L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, art. 3).” (Cass. n. 1138 del 2009) e che “le convenzioni bilaterali in materia di doppia imposizione hanno la funzione di dettare norme internazionali di conflitto, le quali eliminino la sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali perchè, diversamente, i contribuenti dovrebbero subire, in relazione al reddito percepito all’estero, un maggior carico fiscale, con conseguente ostacolo all’attività economica internazionale. Tale scopo viene perseguito mediante l’attribuzione del potere d’imposizione fiscale ad uno Stato contraente e, corrispondentemente, con la rinuncia all’esercizio di tale potere da parte dell’altro Stato. In alcuni casi viene prevista una potestà impositiva concorrente dello Stato fonte. Deve, pertanto, considerarsi coerente con tali finalità la sola esistenza del potere impositivo principale di uno Stato contraente, indipendentemente dall’effettivo pagamento dell’imposta in tale Paese” (Cass. 29 gennaio 2001 n. 1231; Cass. 21 febbraio 2001 n. 2532).

Ciò posto, la questione diventa quella di come la Convenzione con la Francia, ratificata e resa esecutiva dalla L. 7 gennaio 1992, n. 20, ripartisce la potestà impositiva, quanto ai redditi degli artisti, tra i due sistemi fiscali.

Di regola le Convenzioni, che sfruttano modelli predisposti dall’OCSE, prevedono o una potestà esclusiva dello Stato estero, o una potestà concorrente dei due Stati. In questa ultima ipotesi il rischio della doppia imposizione è evitato concedendo al contribuente, che abbia pagato le imposte all’estero, un credito di imposta in Italia.

Per stabilire a quale delle due ipotesi faccia riferimento l’art. 17 relativo agli artisti, non è senza importanza il dato letterale. La norma infatti prevede che “i redditi sono imponibili in detto altro Stato” con riferimento appunto a quello in cui i redditi degli artisti sono prodotti. Non dice la norma che sono imponibili “soltanto” nello Stato in cui sono prodotti, lasciando dunque intendere che le due potestà impositive concorrono. La stessa Convenzione, infatti, sia all’art. 18, relativo alle pensioni percepite in Francia, che all’art. 19, relativo a remunerazioni da pubblico impiego diverse da pensioni, prevede che la tassazione avvenga soltanto in Francia. Cosi è anche per alcune ipotesi di lavoro subordinato privato (art. 15), rispetto alle quali la norma distingue tra casi in cui la tassazione è soltanto francese e casi in cui non lo è.

All’interno della medesima Convenzione, quindi, alcuni redditi sono espressamente assoggettati alla potestà impositiva esclusiva dello Stato fonte, ed altri invece no.

Non solo, ma lo stesso art. 17, accanto alla ipotesi che ci occupa, nella quale non è usata l’espressione “soltanto” a significare l’esclusiva potestà di uno Stato, nei commi successivi (terzo e quarto) invece usa l’avverbio in questione per affermare quella esclusività se per i compensi dell’artista vengano usati fondi pubblici. Ed è significativo che, all’interno della stessa norma, per un’ipotesi si dica che la potestà è soltanto dello Stato di residenza (uso di fondi pubblici) e per altra ipotesi (compensi senza contributo pubblico) invece no.

Cosi che nel sistema della Convenzione, assume importanza la differenza tra le ipotesi in cui espressamente è detto che la potestà impositiva è soltanto francese e quelle in cui l’avverbio è omesso.

Va evidenziato tra l’altro come l’interpretazione letterale delle Convenzioni sia il criterio ermeneutico prima facie, come la stessa Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei Trattati internazionali (art. 31) prevede nell’ambito di una ermeneutica più rivolta al testo della Convenzione che al contesto in cui è stata adottata. Il senso ordinario delle parole ha dunque un peso ermeneutico legalmente imposto.

Sulla scorta di tale norma è opinione dominante che il ricorso a metodi diversi dall’interpretazione letterale è consentita unicamente nei casi in cui quest’ultima conduca a conclusioni oscure o in conflitto con altre regole del sistema.

Nella fattispecie l’esito della interpretazione letterale (che dunque fa leva sulla mancata espressa attribuzione della potestà esclusiva allo Stato fonte) rispetto agli artisti ha peraltro una giustificazione fondata, non di certo oscura o in conflitto con altri significati del sistema. La prestazione degli artisti, infatti, ha caratteri particolari in ragione della ridotta permanenza dell’interessato nel territorio dello Stato estero, circoscritta al tempo necessario alla rappresentazione, ed al fatto che gli artisti non dispongono all’estero di una base fissa, a differenza di quanto può accadere per altri prestatori d’opera.

Ciò può comportare che lo Stato in cui è eseguita la prestazione e prodotto il reddito relativo non sempre è in grado di registrare fiscalmente l’avvenimento, che può essere particolarmente fugace, cosi che è lasciata sempre la possibilità che sia lo Stato di residenza, dove normalmente l’artista fa la dichiarazione, a potere effettuare l’imposizione mancata nello Stato fonte. Se invece, in quest’ultimo, il reddito è stato regolarmente tassato, il rischio della doppia imposizione è evitato con il riporto a credito da parte dell’artista nello Stato di residenza.

Indicazione in tal senso può trarsi dal Commentario al Modello OCSE (versione 2014), che al par. 9 e al par. 12 espressamente prevede il sistema del credito di imposta quale criterio per eliminare il rischio di doppia imposizione, che dunque deve ritenersi conseguente alla doppia potestà impositiva dei due paesi.

E’ vero che il Commentario non è fonte di diritto, e che esso, come precisato da questa Corte “non ha valore normativo e costituisce, al più, una raccomandazione diretta ai paesi aderenti all’Ocse e su di esso il Governo italiano ha espresso una riserva facendo salva l’interpretazione dei giudici nazionalì (Sez. 5, n. 17206 del 2006), ma è anche vero che l’affermazione di questa regola pretende troppo.

Non si tratta infatti di attribuire al Commentario un ruolo di fonte, ma di considerarlo come elemento di conferma di una interpretazione assunta prima facie in base al testo: la stessa Convenzione di Vienna, che, come detto, privilegia l’approccio testuale, prevede il ricorso ad elementi contestuali per corroborare un’interpretazione assunta in base al significato proprio del testo.

In tal senso la giurisprudenza di questa Corte è ricca di richiami al Commentario in funzione interpretativa, ossia per arricchire di argomenti una tesi assunta in base al dato testuale (Sez. 5, n. 3367 e 3368 del 2002, sul caso Philip Morris, innanzitutto, ma anche Sez. 5 ord. n. 7851 del 2004; Sez. 5 n. 9942 del 2000).

Nessuna indicazione specifica peraltro, in senso contrario, può venire dal precedente in termini di questa Corte nella quale si legge che: “è evidente l’intento delle parti contraenti di sottoporre sempre ed in ogni caso i compensi per prestazioni di artisti e sportivi ad imposizione nello stato in cui le prestazioni stesse sono eseguite” (Cass. n. 18974 del 2007). Infatti, in tale decisione, non è per niente affermata la regola della potestà esclusiva della Francia, ma è solo detto che i redditi percepiti, sono anche lì tassati.

A conferma della salvezza del potere impositivo italiano sta l’art. 24 Convenzione, il quale prevede che “se un residente dell’Italia possiede elementi di reddito che sono imponibili in Francia, l’Italia, nel calcolare le proprie imposte sul reddito… può includere nella base imponibile di tali imposte detti elementi di reddito”, espressione da cui si ricava una concorrente potestà impositiva italiana, “a meno che espresse disposizioni della presente Convenzione non vi si oppongano”.

La norma sta a significare che nei casi in cui il concorso di potestà non è espressamente escluso (e l’art. 17, come abbiamo visto, non lo fa), si ricorre al meccanismo del credito d’imposta.

3.- Va poi altresì rigettato il motivo di ricorso incidentale. L’Agenzia delle entrate censura la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di appello infatti, pur ritenendo dovuta la dichiarazione dei redditi in Italia, ed accertata quindi l’illegittimità della sua omissione, ha ritenuto non applicabili le sanzioni imposte dall’Agenzia per obiettiva incertezza normativa.

In realtà quando il comportamento della contribuente è stato posto in essere non v’erano pronunce sulla portata dell’art. 17 della Convenzione.

La giurisprudenza di questa Corte ha più volte riconosciuto la buona fede del contribuente in caso di obiettiva incertezza della norma, tale da avere indotto il contribuente in errore, quando, come nel caso presente, l’errore di interpretazione non sia meramente soggettivo o dipeso da condizioni proprie del contribuente, ma generato dalla obiettiva incertezza di significato (Sez. 5 n. 7308 del 2006; Sez. 5 n. 13076 del 2015).

Inoltre a formare la convinzione della contribuente deponeva una circolare fiscale, sulla quale la ricorrente ha fatto affidamento, e che l’ha indotta a non dichiarare in Italia un credito d’imposta, non già un reddito imponibile.

Le spese, in ragione della soccombenza reciproca, possono compensarsi.

Sussistono, infine, i presupposti per dare atto, ai sensi del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

E’, invece, inapplicabile la norma citata con riguardo all’Agenzia delle entrate (Cass. sez. U. n. 9938/14).

PQM

La Corte, rigetta entrambi i ricorsi e compensa le spese.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2016

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