Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23980 del 26/09/2019

Cassazione civile sez. III, 26/09/2019, (ud. 29/05/2019, dep. 26/09/2019), n.23980

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9565/2018 proposto da:

RETI TELEVISIVE ITALIANE SPA, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POMPEO MAGNO

2/B, presso lo studio dell’avvocato FABIO LEPRI, che la rappresenta

e difende;

– ricorrente –

contro

R.M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZA B.

CAIROLI 6, presso lo studio dell’avvocato PIERO GUIDO ALPA, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5962/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 26/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

29/05/2019 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI.

Fatto

RILEVATO

che:

il Tribunale di Roma condannò la R.T.I. s.p.a. al risarcimento dei danni (liquidati in 30.000,00 Euro) in favore della giornalista R.M.L., che ritenne vittima di diffamazione in relazione a due trasmissioni del programma televisivo “(OMISSIS)” in cui la stessa era stata definita “pappona”;

la Corte di Appello ha rigettato sia il gravame principale della R.T.I. (escludendo che ricorresse l’esimente del diritto critica o di satira) che quello incidentale della R. (ritenendo congrua la liquidazione del danno effettuata dal primo giudice);

ha proposto ricorso per cassazione la Reti Televisive Italiane s.p.a., affidandosi a due motivi; ha resistito la R. con controricorso;

entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

col primo motivo (che denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 51 c.p., art. 2043 c.c. e art. 21 Cost.), la ricorrente assume che la Corte d’Appello ha “adottato un erroneo parametro legale di giudizio per verificare il superamento o meno dei limiti del diritto di critica e di satira”, non avendo considerato se le espressioni usate fossero “talmente assurde da apparire a chiunque come inverosimili, enormi e quindi spiritose”, così da lasciare intendere la loro valenza satirica e da essere percepite dal telespettatore come tali;

la Corte di merito ha escluso la possibilità di applicare l’esimente del diritto di satira rilevando che “l’impiego di espressioni gratuite e volgari (pappona) non necessarie al contesto polemico-satirico in cui erano usate (…) si è tradotta in una forma di inaccettabile “dileggio”” e rimarcando come esista una “enorme differenza tra ironia e insulto libero”;

la censura – già di per sè inammissibile per essere volta a sollecitare un diverso apprezzamento di merito sulla valenza satirica e non meramente offensiva dell’espressione “pappona” – è infondata, non emergendo dall’illustrazione del motivo che l’espressione si collocasse in un contesto di inverosimiglianza, paradosso o metafora surreale che valesse a sminuirne l’oggettiva portata offensiva;

il secondo motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., sul rilievo che i danni liquidati alla R. “non erano stati allegati e, dunque, non potevano esser riconosciuti nel corso del giudizio”;

il motivo è infondato, in quanto:

la ricorrente erra nel sovrapporre il profilo dell’esistenza della domanda – pacificamente proposta (per l’importo di 300.000,00 Euro) – con quello dell’allegazione del danno che, tuttavia, non rileva in relazione all’art. 112 c.p.c., ma sotto il diverso profilo della possibilità della liquidazione del danno non patrimoniale (che, per poter essere apprezzato in via equitativa, necessita di una preventiva allegazione/descrizione);

peraltro, neppure in relazione al dedotto difetto di allegazione la censura coglie nel segno: infatti, per quanto emerge dagli stessi stralci dell’atto di citazione trascritti in ricorso, la R. aveva adeguatamente allegato il “grave nocumento” derivatole dalla vicenda per essere stata “additata al pubblico ludibrio sull’erroneo presupposto di avere espresso convinzioni del tutto contrastanti con quelle da lei a più riprese manifestate” e per essere stata presentata come “portatrice di una doppia morale con conseguente imbarazzo tra tutti i colleghi di lavoro” (oltre che tra tutti coloro che avevano avuto occasione di ascoltare una sua precedente intervista) che nei giorni successivi avevano “manifestato stupore e chiesto chiarimenti”; si tratta, all’evidenza, di allegazioni che descrivevano efficacemente i pregiudizi derivati dagli episodi diffamatori e che ne consentivano pertanto una liquidazione equitativa;

le spese di lite seguono la soccombenza;

sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 29 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019

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