Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23956 del 24/11/2016


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Cassazione civile sez. trib., 24/11/2016, (ud. 16/10/2016, dep. 24/11/2016), n.23956

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI AMATO Sergio – Presidente –

Dott. DI IASILLO Adriano – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9430-2009 proposto da:

PM EUROPE SPA ora IPERCLUB SPA in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA P.L. DA

PALESTRINA 63, presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA CONTALDI, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato VALERIO FICARI

giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 39/2008 della COMM. TRIB. REG. di ROMA,

depositata il 28/03/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/10/2015 dal Consigliere Dott. GRECO ANTONIO;

udito per il ricorrente l’Avvocato FICARI che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’avvocato CASELLI che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La spa IPERCLUB, già PM EUROPE, esercente attività turistico alberghiera, propone ricorso per cassazione, sulla base di due motivi, illustrati con successiva memoria, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio che, rigettandone l’appello, ha confermato la legittimità del diniego di rimborso di quanto versato, secondo la contribuente indebitamente, a seguito del mancato riconoscimento della piena fruizione, per l’anno 2003, del credito d’imposta per gli investimenti nelle aree svantaggiate, come maturato sulla base dell’originaria previsione della L. n. 388 del 2000, art. 8, – laddove l’ufficio aveva fatto applicazione di quanto disposto dalla successiva L. n. 289 del 2002, al correlato D.M. di attuazione del 6 agosto 2006, art. 62, comma 1, lett. a), che avevano previsto la sospensione dell’utilizzazione del detto credito d’imposta per i primi mesi del 2003, e quindi una sua utilizzazione limitata al 49% per il 2003 ed al 6% per gli anni successivi.

Il giudice d’appello ha, in particolare, escluso che la normativa nuova avesse carattere retroattivo e che si ponesse in contrasto con l’art. 3 dello statuto del contribuente.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo del ricorso, con il quale la contribuente lamenta la “falsa applicazione della L. n. 289 del 2002, art. 62, nella parte in cui la CTR Lazio ne ha escluso l’efficacia modificativa in peius della misura dell’agevolazione originariamente stabilità dalla L. n. 388 del 2000, art. 8 (art. 360 c.p.c., n. 3)”, si conclude con il seguente quesito di diritto: “voglia la Corte di cassazione stabilire se la sentenza impugnata sia viziata per falsa applicazione di legge avendo interpretato la L. n. 289 del 2002, art. 62, come norma non avente efficacia modificativa retroattiva della misura dell’agevolazione originariamente fissata nella L. n. 388 del 2000, art. 8”.

Il secondo motivo, con il quale la ricorrente si duole della “violazione dell’art. 11 disp. prel. c.c. e della L. n. 212 del 2000, art. 3, (cd. Statuto del contribuente), che pongono il divieto di applicazione retroattiva della norma tributaria che modifichi in peius un precedente regime fiscale nella parte in cui la CTR Lazio ha applicato le modifiche apportate dalla L. n. 289 del 2002, art. 62, a fattispecie perfezionatesi prima dell’entrata in vigore delle modifiche, violando, altresì, l’affidamento sulla stabilità della disciplina derivante dall’assenza di cause che potessero giustificare una deroga al divieto di retroattività, dalla natura programmatica della L. n. 388 del 2000 il cui art. 8 è stato attuato dalla L. n. 289 del 2002, modificato retroattivamente e dai vincoli derivanti dal diritto comunitario (art. 360 c.p.c., n. 3)”, si conclude con il seguente quesito di diritto: “voglia la Corte di cassazione stabilire se la sentenza impugnata sia viziata per aver applicato in via retroattiva le modifiche apportate dalla L. n. 289 del 2002, art. 62, in violazione del divieto di retroattività della norma tributaria, dell’affidamento sulla stabilità dell’originaria disciplina in ragione della natura agevolativa della norma modificata, della natura programmatica della L. n. 388 del 2000, art. 8, e degli effetti derivanti dalla decisione comunitaria relativa alla compatibilità della misura agevolativa con il diritto comunitario”.

I motivi sono inammissibili per inidoneità dei quesiti di diritto, che si rivelano generici e astratti, risolventisi nella prospettazione di nere questioni giuridiche.

Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, infatti, “ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., il quesito inerente ad una censura in diritto – dovendo assolvere alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale – non può essere meramente generico e teorico, ma deve essere calato nella fattispecie concreta, per mettere la Corte in grado di poter comprendere dalla sua sola lettura, l’errore asseritamene compiuto dal giudice di merito e la regola applicabile. Ne consegue che esso non può consistere in una semplice richiesta di accoglimento del motivo ovvero nel mero interpello della Corte in ordine alla fondatezza della propugnata petizione di principio o della censura così come illustrata nello svolgimento del motivo” (Cass. n. 3530 del 2012); “è inammissibile, per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile “ratione temporis”, il ricorso per cassazione nel quale il quesito di diritto si risolva in una generica istanza di decisione sull’esistenza della violazione di legge denunziata nel motivo” (Cass., sez. un., 23 settembre 2013, n. 21672).

Quanto alla questione di legittimità costituzionale adombrata nel secondo motivo, il Collegio osserva che con riguardo al “ricorso per cassazione, la prospettazione di una questione di costituzionalità, essendo funzionale alla cassazione della sentenza impugnata e postulando la prospettazione di un motivo che giustificherebbe tale effetto una volta accolta la questione medesima, suppone necessariamente che, a conclusione dell’esposizione del motivo così finalizzato, sia indicato il corrispondente quesito di diritto previsto dall’abrogato art. 366 – bis c.p.c. (ove applicabile “ratione temporis”), indipendentemente dalla rilevabilità d’ufficio della questione di costituzionalità e dall’ammissibilità del ricorso che prospetti soltanto un dubbio di costituzionalità” (Cass., sez. un. 24 gennaio 2013, n. 1707).

Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 7.000 per compensi di avvocato, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 16 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2016

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