Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2393 del 29/01/2019

Cassazione civile sez. trib., 29/01/2019, (ud. 06/11/2018, dep. 29/01/2019), n.2393

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi C. G. – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. D’OVIDIO Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16544-2013 proposto da:

L.G., LE.FR., domiciliati in ROMA P.ZZA CAVOUR

presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e

difesi dall’Avvocato CANIGLIA PIERFRANCESCO (avviso postale ex art.

135) giusta delega in calce;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI GASSINO TORINESE SETTORE TRIBUTI in persona del Sindaco pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LIVORNO 51, presso lo

studio dell’avvocato PERFETTI PAOLO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MASSIMILIANO GENCO, giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 35/2013 della COMM. TRIB. REG. di TORINO,

depositata il 19/03/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/11/2018 dal Consigliere Dott. PAOLA D’OVIDIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’STEFANO che ha concluso per l’accoglimento del 4° motivo del

ricorso, assorbito il 6 motivo, rigetto dei restanti motivi;

udito per i ricorrenti l’Avvocato CANIGLIA che si riporta agli atti;

udito per il controricorrente l’Avvocato PERFETTI che si riporta agli

atti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con separati ricorsi, LE.Fr. e L.G. impugnavano dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Torino quattro distinti avvisi di accertamento, emessi dal Comune di Gassino Torinese, riguardanti l’imposta comunale sugli immobili (ICI) per gli anni 2003-2004-2005 e 2006, deducendone l’illegittimità sotto vari profili e chiedendone il conseguente annullamento.

Nel costituirsi in giudizio il Comune resistente contestava le avverse argomentazione chiedendo il rigetto dei ricorsi.

2. Con sentenza n. 27/15/11, la CTP di Torino respingeva i ricorsi, previamente riuniti, e condannava la parte ricorrente al pagamento delle spese di giudizio

3. Avverso tale sentenza proponevano appello i contribuenti deducendo l’omessa pronuncia su alcuni aspetti della domanda dagli stessi avanzata, nonchè l’errata motivazione in ordine a vari profili e, in particolare: alla violazione degli obblighi di allegazione; alla decadenza del Comune dal potere di chiedere l’imposta e gli interessi nonchè di irrogare le sanzioni per l’anno 2003; alla illegittimità delle sanzioni a seguito dell’abolizione dell’obbligo di presentazione della dichiarazione ICI; alla illegittimità delle sanzioni a seguito dell’omessa notificazione della rettifica dell’Agenzia del territorio dell’anno 2000; alla indebita moltiplicazione delle sanzioni; alla prescrizione degli interessi degli anni 2003 e 2004.

Il Comune appellato si costituiva insistendo per il rigetto dei motivi di gravame ex adverso formulati.

4. Con sentenza n. 35/14/13, depositata il 19.3.2013, la Commissione tributaria Regionale del Piemonte, respingeva l’appello compensando le spese.

5. Avverso tale sentenza LE.Fr. e L.G. propongono ricorso per cassazione articolato in otto motivi. Il Comune di di Gassino Torinese resiste con controricorso, illustrato da memoria depositata ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la “nullità della sentenza 35114/ 13 ex art. 112 c.p.c. per violandone del principio di corriJponden.za tra il chiesto e il pronunciato e per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per assenza della ragione di diritto posta alla base della reiezione del terzo motivo (decadenza del Comune dal potere di richiedere l’imposta egli interessi per l’anno 2003) ed ottavo motivo (prescrizione degli interessi relativi alle annualità 2003-2004) di appello”.

1.1 II motivo è inammissibile per carenza del requisito richiesto dall’art. 366 c.p.c., n. 6, atteso che i ricorrenti, nel lamentare la violazione da parte del giudice del gravame del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nonchè dell’obbligo di esporre le ragioni di diritto ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, si sono limitati a richiamare sinteticamente le difese dagli stessi svolte in sede di gravame (quanto al terzo motivo di appello) e nel ricorso introduttivo (quanto all’ottavo motivo di appello), senza trascriverle, e ad affermare che su tali questioni la sentenza non avrebbe esposto le ragioni di fatto e di diritto poste a base della decisione, ovvero risulterebbe del tutto mancate la pronuncia sul punto; ciò, tuttavia, senza indicare specificamente l’atto processuale in cui tali conclusioni erano state formulate in primo grado, omettendo altresì di riprodurre direttamente o indirettamente (precisando in questo secondo caso la parte dell’atto in cui l’indiretta riproduzione troverebbe corrispondenza) il contenuto sia della sentenza di primo grado che dell’atto appello su tali questioni (al fine di individuare se, e in caso positivo in che modo, erano state decise), e, inoltre, senza neppure precisare che le medesime conclusioni erano state mantenute nel giudizio di gravame fino al momento della precisazione delle conclusioni.

Così formulato, il motivo non consente alla Corte di verificare i contenuti effettivi, la ritualità e la tempestività della domanda sulla quale si lamenta l’omessa pronuncia e, dunque, di percepire quanto costituisce espressione dell’attività di articolazione del motivo di impugnazione con l’identificazione del contenuto da verificare attraverso l’esame dei relativi atti processuali idoneamente localizzati (come esige l’art. 366 c.p.c, n. 6, secondo consolidata, esegesi), sicchè questa Corte dovrebbe procedere di sua iniziativa, supplendo all’attività assertiva propria del motivo, prima alla ricerca dei detti atti e, quindi, in essi del contenuto che potrebbe in ipotesi corrispondere alla non esplicitata attività spettante a parte ricorrente.

In proposito è sufficiente richiamare i precedenti di questa Corte, ai quali il Collegio intende dare continuità, che hanno affermato l’inammissibilità del ricorso per cassazione col quale si lamenti la omessa pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame o, comunque, su una conclusione formulata nell’atto di appello, se tali motivi (o tale conclusione) non siano stati compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso (Cass., sez. 2, 20/8/2015, n. 17049, Rv. 636133 – 01), ovvero non sia stata fornita l’indicazione specifica dell’atto difensivo o del verbale di udienza nei quali erano stati proposti (Cass., sez. 6 – 5, 4/3/2013, n. 5344, Rv. 625408 – 01) o, ancora, non sía stato espressamente precisato che il motivo o la conclusione oggetto dell’asserita omissione erano stati mantenuti nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni (Cass., sez. 3, 3/3/2010, n. 5087, Rv. 611679 01).

Nè in senso contrario rileva la qualificazione giuridica del vizio dedotto come error in procedendo (trattandosi di censura riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, ancorchè tale norma non sia stata esplicitamente richiamata dai ricorrenti), in relazione al quale la Corte è anche “giudice del fatto”, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito: come è stato ripetutamente affermato, infatti, anche in tal caso si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (cfr., ex multis, Cass., sez. 3, 13/03/2018, n. 6014, Rv. 648411 – 01; Cass., sez. 5, 20/07/2012, n. 12665,Rv. 623401 – 01).

Peraltro, è appena il caso di aggiungere che, come rilevato dal controricorrente, la sentenza impugnata contiene una specifica motivazione su entrambe le doglianze riferite ai motivi nn. 3 e 8 dell’atto di appello.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia la “violazione e falsa applicazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 162, della L. n. 212 del 2000, art. 7 e della L. n. 241 del 1990, art. 3, in relazione all’art. 24 Cost. in materia di nullità degli avvisi di accertamento per omessa allegazione dei documenti richiamati nella motivazione.”.

In particolare, i ricorrenti lamentano la violazione delle norme di legge relative agli obblighi di allegazione gravanti sulla amministrazione finanziaria, atteso che gli avvisi di accertamento oggetto di impugnazione si limitavano a fare riferimento ad atti e provvedimenti endoprocedimentali non allegati agli stessi.

2.1. La censura è infondata.

Come si evince dalla sentenza della CTR, gli atti in relazione ai quali i ricorrenti hanno eccepito la violazione dell’obbligo di allegazione sono quattro, e precisamente: il regolamento comunale in materia di ICI; la delibera comunale che ha nominato il dott. D.C. responsabile del provvedimento; la rettifica dell’Agenzia del Territorio dell’anno 2000; la dichiarazione ICI dell’anno 2003.

Orbene, per quanto riguarda in particolare i regolamenti e le delibere comunali, va ribadito che non sussiste alcun obbligo di allegazione di tali documenti all’atto impositivo o di riproduzione al suo interno, atteso che in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), l’obbligo di allegazione all’avviso di accertamento, ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, degli atti cui si faccia riferimento nella motivazione riguarda necessariamente, come precisato dal D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, art. 1, gli atti non conosciuti e non altrimenti conoscibili dal contribuente, ma non gli atti generali come le delibere del consiglio comunale, che essendo soggette a pubblicità legale, si presumono conoscibili (Cass., sez. 5, 17/10/2008, n. 25371, Rv. 605430 – 01; Cass., sez. 5, 13/06/2012, n. 9601, Rv. 622998 – 01; Cass., sez. 5, 25/07/2012, n. 13105, Rv. 623846 – 01).

Con riferimento, invece, all’avviso di rettifica dell’Agenzia del Territorio dell’anno 2000 (che i ricorrenti sostengono non essere mai stato notificato loro), e alla dichiarazione ICI dell’anno 1993, deve in primo luogo ribadirsi il principio secondo il quale l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone la L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, comma 3: il contribuente ha, infatti, diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare tale motivazione, ma non il diritto di conoscere il contenuto di tutti quegli atti cui si faccia rinvio nell’atto impositivo e sol perchè ad essi si operi un riferimento, ove la motivazione sia già sufficiente, oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (almeno nella parte rilevante ai fini della motivazione dell’atto impositivo) sia già riportato nell’atto noto. Pertanto, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta che il contribuente dimostri l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui l’atto impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’atto impositivo, sia necessaria ad integrarne la motivazione (Cass., sez. 5, 18/12/2009, n. 26683, Rv. 610991 -01).

Inoltre, l’onere dell’Ufficio di mettere in grado il contribuente di conoscere le ragioni della pretesa deve ritenersi assolto anche con motivazione per relationem, qualora il documento richiamato faccia a sua volta riferimento a documenti in possesso o comunque conosciuti o agevolmente conoscibili dal contribuente (cfr. Cass. sez. 5, 24/11/2017, n. 28060, Rv. 646225 – 01, in tema di motivazione della cartella esattoriale), e, comunque, deve escludersi che la mancata allegazione dell’atto richiamato possa dar luogo a nullità dell’atto impositivo allorchè quest’ultimo sia stato impugnato dal contribuente, il quale abbia dimostrato, in tal modo, di avere piena conoscenza dei presupposti dell’imposizione, per averli puntualmente contestati (v. Cass. sez. 5, 31/1/2013, n. 2373, Rv. 625187 – 01, in tema di cartella esattoriale).

Nel caso in esame, i ricorrenti, non solo non hanno neppure allegato che qualche parte del contenuto degli atti richiamati fosse necessaria ad integrare la motivazione degli avvisi di accertamento impugnati, nè che gli elementi essenziali di quegli atti non fossero stati riprodotti negli avvisi, ma hanno anche dimostrato con le loro difese di averne piena contezza; a ciò deve aggiungersi che si trattava di atti conosciuti o quantomeno conoscibili, perchè provenienti dalle stesse parti o rinvenibili presso gli Uffici competenti.

La CTR, ha correttamente applicato tali principi, richiamando la giurisprudenza di legittimità sopra citata (ed in particolare Cass. n. 25371/2008) con riferimento alla delibera ed al regolamento comunali, e rilevando, in relazione agli altri documenti, che i contribuenti avevano svolto le loro difese “confermando la sufficienza degli elementi forniti per le dovute contestazioni, e non contestando la diversa classificazione”, così implicitamente attestando di esserne informati.

3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti segnatamente il motivo relativo alla decadenza del Comune di Gassino del potere di richiedere l’imposta per l’anno 2003”.

3.1 Il motivo è inammissibile, e ciò indipendentemente dalla sua non chiara riconducibilità all’una o all’altra delle diverse fattispecie previste dall’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5.

Invero, qualora il vizio denunciato debba intendersi dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (come sembrerebbe doversi desumere dall’intitolazione del motivo), esso sarebbe inammissibile perchè l’omessa pronuncia su un motivo di appello integra la violazione dell’art. 112 c.p.c. e non già l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello (Cass. 6 – 3, 16/3/2017, n. 6835, Rv. 643679 – 01).

Qualora invece la censura debba intendersi proposta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 (come potrebbe desumersi in ragione dell’espressa menzione di tale norma nella parte dedicata all’illustrazione del motivo), l’inammissibilità dovrebbe essere dichiarata per le stesse ragioni già illustrate in relazione al primo motivo, che risulterebbe qui riproposto con le stesse motivazioni.

4. Con il quarto motivo di denuncia la “errata motivazione circa l’illegittimità delle sanzioni per falsa applicazione e/ o violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 2, a seguito dell’abolizione dell’obbligo di presentazione della dichiarazione ICI in forza della L. n. 248 del 2006, art. 37, comma 53”. In particolare, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che l’abolizione dell’obbligo di presentazione della dichiarazione ICI, disposta dalla L. n. 248 del 2006, art. 37, comma 53, riguardi solo le annualità dal 2007 in avanti e non quelle pregresse, così violando il D.Lgs n. 472 del 1997, art. 3, comma 2, a mente del quale “salvo diversa disposizione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato”.

4.1 Il motivo è infondato.

Preliminarmente, va rilevato che la censura, ancorchè evochi una vizio di motivazione, in realtà prospetta vizi della decisione attinenti alla violazione di legge, e dunque riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Tale erronea qualificazione, tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte controricorrente, non preclude l’ammissibilità del ricorso, non costituendo condizione necessaria la corretta menzione dell’ipotesi appropriata, tra quelle in cui è consentito adire il giudice di legittimità (Cass., sez. 5, 6/10/2017, n. 233381, Rv. 645638 – 01; Cass., sez. 2, 21/01/2013, n. 1370, Rv. 624977 – 01; Cass., sez. 1, 14/11/2011, n. 23794, Rv. 620425 – 01).

Nel merito, si osserva che la L. n. 248 del 2006, art. 37, comma 53, non ha affatto introdotto un nuovo principio in tema di inosservanza dell’obbligo di presentazione della dichiarazione ICI (o della comunicazione prevista dal D.Lgs n. 446 del 1997, art. 59, comma 1, lettera l), n. 1). In particolare, non ha affermato che tale inosservanza costituisce una violazione non (più) punibile, ma ha disposto solo che l’obbligo in questione è soppresso “a decorrere dall’anno 2007”: dal tenore della norma si evince con chiarezza che non è la punibilità della violazione ad essere venuta meno, quanto piuttosto l’esistenza stessa dell’obbligo, e ciò solo da un preciso momento in poi, fermi restando, pertanto, sia l’obbligo che la sua punibilità per i periodi pregressi.

Tale scelta legislativa, del resto, risponde ad una precisa ratio, che è quella di eliminare la duplicazione degli adempimenti posti a carico dei contribuenti ai fini della dichiarazione dei dati relativi ai propri immobili, duplicazione che si realizzerebbe ogni qualvolta sia possibile l’utilizzo in via telematica dei dati catastali da parte dei sistemi informatici delle altre amministrazioni pubbliche.

Ed è proprio in tale prospettiva che il comma 53 dell’articolo in esame rinviava l’efficacia della soppressione dell’obbligo alla data di “effettiva operatività” del sistema di circolazione e fruizione dei dati catastali, “da accertare” con provvedimento del direttore dell’Agenzia del territorio, al fine di consentire ai Comuni di avere a disposizione le informazioni necessarie per l’effettuazione dei controlli relativi all’ICI, diversamente reperibili solamente nella dichiarazione/comunicazione ICI.

Sempre nella stessa direzione si è orientata la successiva modifica operata dalla Legge finanziaria 2007, L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. unico, comma 174, che ha limitato l’abolizione dell’obbligo dichiarativo in discorso ai casi in cui gli elementi rilevanti ai fini dell’imposta ICI dipendessero da atti per i quali fossero applicabili le procedure telematiche dell’Adempimento Unico Informatico (previste dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 463, art. 3-bis).

In questa ipotesi, infatti, le variazioni dei dati catastali derivanti dagli atti per cui è utilizzabile la procedura telematica del modello unico informatico, rilevanti ai fini della determinazione dell’imposta, sono (a partire dal 18 dicembre 2007) direttamente fruibili da parte dei Comuni.

Dal quadro normativo così sinteticamente delineato, emerge l’inconferenza del richiamo operato dai ricorrenti al D.Lgs n. 472 del 1997, art. 3, comma 2, in quanto nella specie non è stata emanata alcuna “legge posteriore” che abbia escluso la punibilità del “fatto” costituito dall’inadempimento dell’obbligo della dichiarazione ICI, ben diversi essendo il contenuto e la finalità della L. n. 248 del 2006, art. 37, comma 53.

La sentenza impugnata, dunque, ha correttamente applicato tali principi, laddove ha respinto l’eccezione degli appellanti sul rilievo che, essendo la controversia relativa ad accertamenti degli anni 2003-2006, non rilevasse la L. n. 248 del 2006, art. 53, che aveva abolito l’obbligo di presentazione della dichiarazione ICI solo a decorrere dall’anno 2007.

5. Con il quinto motivo i ricorrenti lamentano la “errata, contraddittoria motivazione in relazione alla dedotta illegittimità delle pretese sanzionatone del Comune di Gassino Torinese a seguito dell’omessa notificazione della rettifica dell’Agenzia del territorio dell’anno 2000; violazione e falsa applicazione della L. n. 342 del 2000, art. 74”.

In proposito si assume che la sentenza della CTR avrebbe dato una risposta “ultronea ed inconferente” al quinto motivo di appello, con il quale i ricorrenti avevano denunciato la erroneità della decisione di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto tardiva la “difesa relativa alla illegittimità delle pretese sanzionatone”. In particolare, pur essendo stata contestata sin dal ricorso introduttivo la totale assenza di notifica del provvedimento di variazione del classamento, la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che i ricorrenti avessero contestato solo la omessa allegazione all’accertamento dell’avviso di rettifica dell’Agenzia del Territorio e non l’omessa notifica di quest’ultimo, così violando la L. n. 342 del 2000, art. 74, che conferisce efficacia agli atti di variazione della rendita solo a decorrere dalla loro notifica.

5.2 Il motivo è inammissibile.

In primo luogo si osserva che la censura, pur non richiamando espressamente alcuna delle specifiche e tassative ragioni di impugnazione previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, evoca le due ipotesi rispettivamente previste al n. 3 (violazione e falsa applicazione di legge) ed al n. 5 (nel testo modificato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito nella L. n. 34 del 2012, applicabile ratione temporis, relativo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti) della citata disposizione, come si evince sia dall’intitolazione che dall’illustrazione del motivo.

Così articolato, il motivo è inammissibile in quanto caratterizzato dalla mescolanza e dalla sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in tal modo prospettando la medesima questione sotto profili incompatibili (Cass., sez. 1, 23/09/2011, n. 19443, Rv. 619790 – 01).

Inoltre, anche ove si potesse procedere alla separata valutazione dei due profili di impugnazione proposti con il primo motivo, emergono ulteriori ragioni di inammissibilità per ciascuno di essi.

Sotto il profilo del denunciato vizio di errata e contraddittoria motivazione, il motivo è radicalmente inammissibile perchè fa riferimento ad una nozione di vizio di motivazione non sussumibile nell’ipotesi contemplata dall’art. 360 c.p.c., n. 5, (nella formulazione disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis), atteso che tale mezzo di impugnazione può concernere esclusivamente l’omesso esame di un, atto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti e non anche l’interpreta. ione o Papplicnione di norme giuridiche, che invece ricade nella previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, rispetto alla quale l’eventuale vizio od omissione della motivazione in diritto non ha alcuna rilevanza autonoma, potendo, in presenza di una corretta decisione del giudice di merito della questione sottoposta al suo esame, dar luogo alla correzione della stessa ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2 (ex multis, Cass. 6/8/2003 n. 11883, Rv. 565709 – 01; Cass. sez. L, 8/8/2005, n. 16640, Rv. 582611 – 01).

Sotto il profilo della violazione e falsa applicazione delle norme di legge invocate, il motivo è inammissibile perchè non si rapporta al “decimm” della sentenza impugnata, atteso che non denuncia alcuna specifica violazione delle norme dalla stessa applicate, ed in particolare della L. n. 342 del 2000, art. 74.

Giova ricordare che il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366, comma, n. 4, c.p.c., deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., sez. 3, 28/02/2012, n. 3010, Rv. 621483 – 01; Cass-, sez. 6-3, 26/06/2013, n. 16038, Rv. 626926 – 01).

Orbene, nella specie i ricorrenti, non solo non hanno trascritto, o quantomeno riportato in modo puntuale e completo, alcuna affermazione in diritto della sentenza che potrebbe porsi in contrasto con la norma indicata, ma neppure hanno colto le ragioni della decisione.

Come correttamente rilevato dal controricorrente, infatti, la sentenza impugnata, dopo aver trascritto le difese svolte sul punto dai ricorrenti sia in primo che in secondo grado, osserva che “risulta singolare che non venga eccepito nulla relativamente alla variazione di categoria, ma solamente alla allegazione …”, così sostanzialmente confermando, con ulteriore ed aggiuntiva motivazione, la decisione dei primi giudici, i quali avevano ritenuto non tempestivamente eccepita l’omessa conoscenza della variazione in questione per non essere stata notificata. Di conseguenza, nella specie non è ravvisabile alcuna violazione dell’art. 74 citato, in quanto la decisione impugnata ha ritenuto insussistente a monte il presupposto di fatto necessario per la sua applicazione (i.e.: la omessa notifica della variazione, che nella specie è stata ritenuta questione non ritualmente proposta).

6. Con il sesto motivo di ricorso si lamenta la “errata motivazione in merito all’applicazione del principio della continuazione: violazione falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, comma 5”.

Deducono i ricorrenti che l’amministrazione finanziaria, una volta determinata la sanzione minima secondo i criteri stabiliti dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 14, avrebbe dovuto applicare il principio della continuazione positivizzato dal citato art. 12, comma 5, a mente del quale “se la violazione riguarda più periodi di imposta diversi la sanzione base è aumentata dalla metà al triplo”.

6.1 E motivo è inammissibile per violazione del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, atteso che i ricorrenti, censurando la sentenza impugnata per aver “rigettato l’eccezione relativa all’applicazione del principio di continuazione richiamandosi al D.Lgs. n. 42 del 1997, art. 7 “, non hanno richiamato, e tantomeno trascritto, le difese assunte in primo grado sul punto, nè hanno indicato specificamente l’atto processuale in cui tale eccezione era stata formulata sia in primo grado che in secondo grado, omettendo altresì di riprodurre direttamente o indirettamente il contenuto della sentenza sul punto.

Così formulato, il motivo non consente alla Corte di verificare i contenuti effettivi nè dell’eccezione di parte nè delle ragioni della decisione impugnata e, dunque, di percepire quanto costituisce espressione dell’attività di articolazione del motivo di impugnazione con l’identificazione del contenuto da verificare attraverso l’esame dei relativi atti processuali idoneamente localizzati (come esige l’art. 366 c.p.c, n. 6, secondo consolidata esegesi), sicchè questa Corte dovrebbe procedere di sua iniziativa, supplendo all’attività assertiva propria del motivo, prima alla ricerca dei detti atti e, quindi, in essi del contenuto che potrebbe in ipotesi corrispondere alla non esplicitata attività spettante a parte ricorrente.

In proposito è sufficiente richiamare i precedenti di questa Corte, ai quali il Collegio intende dare continuità, secondo cui il ricorso per cassazione, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366, c.p.c., comma 1, n. 3), deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa. (Cass., sez. 6-3, 3/2/2015, n. 1926, Rv. 634266 – 01; Cass., sez. 1, 31/7/2017, n. 19018, Rv. 645086 – 01).

A ciò deve aggiungersi, per quanto riguarda il profilo della denunciata “errata motivazione” quanto già rilevato nell’esaminare il quinto motivo in relazione ai limiti posti dall’art. 360 c.p.c, n. 5, nel testo applicabile ratione temporis.

7. Con il settimo motivo (indicato in ricorso come “ottavo”), si denuncia 1′ “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra parti segnatamente il motivo di appello relativo alla prescrizione degli interessi per le annualità 2003-2004”.

Si sostiene che la sentenza impugnata avrebbe omesso di esaminare l’eccezione relativa alla prescrizione degli interessi per le annualità 2003-2004 con la quale si lamentava che, pur avendo i ricorrenti formulato tale eccezione invocando l’applicazione dell’art. 2948 c.c., n. 4, la sentenza di primo grado aveva respinto la medesima eccezione ritenendo dovuti gli interessi in forza del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 14, norma ultronea e comunque abrogata.

7.1 II motivo è inammissibile.

I ricorrenti non hanno riprodotto il tenore delle difese svolte dalle parti in primo e secondo grado, nè i motivi delle decisioni della CTP e della CTR sul punto.

Quanto a quest’ultima si sono limitati ad affermare che “sul punto però la Commissione Tributaria Regionale nuovamente è risultata reticente. O meglio il giudice di appello ha respinto l’eccezione senza nemmeno esaminarla e colmando la propria omissione con un infelice quanto inopportuno copia-incolla relativo ad un distinto motivo di appello”.

E’ sufficiente in proposito ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, è inammissibile il motivo di ricorso col quale si lamenti la omessa pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame o, comunque, su una conclusione formulata nell’atto di appello, se tali motivi (o tale conclusione) non siano stati compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso (Cass., sez. 2, 20/8/2015, n. 17049, Rv. 636133 – 01), ovvero non sia stata fornita l’indicazione specifica dell’atto difensivo o del verbale di udienza nei quali erano stati proposti (Cass., sez. 6 – 5, 4/3/2013, n. 5344, Rv. 625408 – 01) o, ancora, non sia stato espressamente precisato che il motivo o la conclusione oggetto dell’asserita omissione erano stati mantenuti nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni (Cass., sez. 3, 3/3/2010, n. 5087, Rv. 611679 – 01).

Sotto ulteriore profilo, va rilevato che il vizio denunciato non è sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c, n. 5 (invero non espressamente richiamata ma chiaramente evocata dal tenore dell’intitolazione del motivo), non essendo l’individuazione della corretta norma giuridica applicabile in tema di prescrizione degli interessi (nella specie, asseritamente, l’art. 2948 c.c., n. 4) “un fatto” decisivo per il giudizio, da intendersi quale preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” le quali, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate. (cfr. Cass., sez. 5, 8/10/2014, n. 21152, Rv. 632989 – 01, riferita al previgente testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c., quale risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 40 del 2006).

Inoltre, nel caso in esame non è comunque ravvisabile una ipotesi di “omesso esame”, atteso che una motivazione sul punto è stata espressa dalla CTR, come esattamente rilevato dal resistente e come del resto ammesso dagli stessi ricorrenti laddove lamentano che la omissione sarebbe stata “colmata” con un “infelice quanto inopportuno copia-incolla ….”.

8. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza. Trattandosi di ricorso notificato (in data 27/6/2013) successivamente al 30 gennaio 2013, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ai sensi dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– condanna la parte ricorrente alle spese della presente fase del giudizio che liquida in complessivi Euro 2.900,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie ed agli accessori di legge.

Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 -bis.

Così deciso in Roma, dalla quinta sezione civile della Corte di cassazione, il 6 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2019

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