Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23900 del 23/11/2016


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Cassazione civile sez. II, 23/11/2016, (ud. 21/09/2016, dep. 23/11/2016), n.23900

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15786-2012 proposto da:

W.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TACITO 41,

presso lo studio dell’avvocato SALVATORE LUCIO PATTI, che la

rappresenta e difende giusta procura speciale notarile per notaio

G. di (OMISSIS) in atti;

– ricorrente –

e contro

P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TUSCOLANA

687, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO VACCA, che lo

rappresenta e difende giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso il provvedimento n. 529/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 31/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/09/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Maurizio Morganti per delega dell’Avvocato Patti per

la ricorrente e l’Avvocato Vacca per il controricorrente;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL

CORE Sergio, che ha concluso per l’inammissibilità del rigetto del

ricorso principale, e, ove ritenuto sussistente, inammissibilità

del ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 19 marzo 1998 W.E. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma P.G. affinchè, previo accertamento della totale incapacità di intendere di volere della de cuius D.M.G. alla data del testamento olografo del 12 luglio 1992, con il quale era stato istituito erede universale il P., fosse pronunziato l’annullamento del testamento, con la conseguente devoluzione dell’eredità all’intestato in favore dell’attrice.

Si costituiva il convenuto che si opponeva alla domanda, ed in via riconvenzionale chiedeva la condanna dell’attrice alla restituzione di tutti i beni facenti parte dell’asse ereditario e dei quali l’attrice si era indebitamente impossessata contanti e beni custoditi in tre cassette di sicurezza).

Con separato atto di citazione Paladino Giorgio conveniva innanzi al medesimo Tribunale la W. chiedendo la condanna alla restituzione dei beni appartenenti alla de cuius, previa convalida del sequestro giudiziario emesso ante causam in danno della convenuta, che a sua volta n via riconvenzionale reiterava domanda di annullamento del testamento per incapacità della testatrice.

Riuniti i giudizi, all’esito dell’istruttoria, il Tribunale adito con la sentenza n. 11045 del 2005 rigettava la domanda della W., ed in accoglimento della riconvenzionale, condannava l’attrice alla restituzione di tutti i beni ereditari dalla medesima appresi costituiti da titoli e somme per un controvalore di Lire 768.772.507 oltre interessi legali dall’apprensione, nonchè alla restituzione del contenuto delle tre cassette di sicurezza, di cui al verbale di inventario del 6 luglio 1994 e denunzia di successione del 27 gennaio 1998, ovvero, subordinatamente, ed in caso di mancata restituzione di tutto quanto sopra indicato, al pagamento della somma di Euro 600.000,00 all’attualità oltre interessi legali dalla sentenza al saldo.

Avverso tale sentenza proponeva appello la W., e la Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 529 del 31 gennaio 2012 rigettava il gravame, confermando per l’effetto la decisione impugnata. Osservavano i giudici di appello che appariva condivisibile la conclusione cui era pervenuto il Tribunale circa l’accertamento dell’infermità della de cuius alla data del testamento.

Infatti, come emergeva dall’accertamento tecnico d’ufficio, la sindrome demenziale si era manifestata nell’aprile del 1993, potendosi per l’appunto ritenere che, atteso il decorso lento ed ingravescente della malattia, fosse ancora nella fase iniziale alla data cui risaliva la redazione della scheda testamentaria.

Le critiche alle conclusioni del CTU formulate dall’appellante, avvalendosi anche del contenuto delle relazioni redatte dagli stessi periti in occasione di altri procedimenti giudiziari che avevano visto il coinvolgimento della defunta, non consentivano tuttavia di evidenziare la pretesa contraddittorietà insanabile con quanto asserito nella relazione d’ufficio, predisposta proprio in relazione alla causa di impugnativa testamentaria.

Le perizie svolte in precedenza erano tutte successive alla data del testamento, così come la visita personale della perizianda, ed avevano permesso di accertare l’incapacità della de cuius alla data della visita, sicchè, in assenza di più puntuali riferimenti sia di natura diagnostica che di carattere probatorio (informazioni di familiari o persone vicine sulla D.M.) non era dato stabilire con precisione quale fosse stato il decorso della malattia, e soprattutto se la defunta fosse già incapace alla data dell’atto.

Peraltro emergeva un punto fermo costituito dalla sicura capacità della defunta alla data del (OMISSIS), come confermato anche dal notaio che aveva rogato la procura rilasciata in favore del P. della defunta.

Quindi dopo avere riepilogato il contenuto delle deposizioni rese dagli altri testi, che non fornivano una tesi univoca nè riferimenti certi per la ricostruzione dell’effettiva condizione mentale della de cuius, riteneva che anche la prova per tesa articolata dall’appellante, e non ammessa sulla base di una lettura restrittiva dell’art. 184 c.p.c. operata dal giudice dì primo grado, non era rilevante, in quanto vedeva come testi soggetti già sentiti sui capi articolati dal P., e che avevano fornito in tale occasione risposte non pertinenti e comunque non convincenti, venendo le prove de quibus in ogni caso su circostanze che ben potevano essere ricavare nel loro nucleo essenziale dalle precedenti deposizioni.

Passando ad esaminare l’ulteriore doglianza relativa alla determinazione della somma al cui pagamento era stata condannata la W., rilevava la sentenza della Corte romana che la censura era generica nella parte in cui intendeva contestare il valore di beni di cui alle cassette di sicurezza, avendo il Tribunale fatto puntuale riferimento a quanto emergeva, oltre che dalla documentazione bancaria in atti, anche dal contenuto dei verbali di inventario, attestanti il contenuto delle tre cassette di sicurezza intestate alla de cuius.

La censura mossa al valore probatorio di tali verbali, sollevata solo in comparsa conclusionale, risultava del tutto generica e non inficiava la bontà della decisione appellata, posto che in ogni caso la convenuta, in alternativa al versamento della somma di Euro 600.000,00 avrebbe potuto restituire i beni, comprensivi di somme e titoli, già in precedenza appresi.

W.E. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi illustrato con memorie.

Il P. ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente occorre rilevare che sebbene il P. abbia dichiarato, anche nel corpo del proprio atto processuale la volontà di proporre ricorso incidentale, tuttavia, in disparte evidenti profili di ammissibilità dello stesso ove lo si ritenga effettivamente proposto, attesa la carenza del requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, in effetti si è limitato alla sola presentazione del controricorso, non avendo formulato alcuna richiesta di riforma, ancorchè condizionata della pronunzia gravata, la quale lo ha visto totalmente vittorioso, ed essendosi limitato, anche nelle conclusioni rese in questo grado, a richiedere la sola declaratoria di inammissibilità o comunque l’infondatezza del ricorso principale con il suo conseguente rigetto.

2. Con il primo motivo di ricorso si denunzia l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo relativamente all’accertamento della capacità di intendere e di volere della testatrice, nonchè la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 181 c.p.c. e art. 2697 c.c..

Osserva la ricorrente che il punto centrale della controversia era appunto costituito dalla verifica della capacità di restare della D.M. alla data cui risale l’atto di ultima volontà.

Sebbene non si contesti che l’onere della relativa prova incomba sulla W., si sostiene che il rigetto della richiesta di prova testimoniale ha precluso tale possibilità.

Inoltre il quadro probatorio era in ogni caso idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda.

I consulenti tecnici di ufficio, in occasione della redazione di precedenti elaborati peritali che avevano riguardato la capacità della de cuius in altri procedimenti giudiziari che l’avevano vista coinvolta come parte, erano pervenuti all’affermazione che la sua incapacità risalisse già al 1991, sicchè appariva del tutto illogica la conclusione cui era pervenuta la Corre distrettuale nel ritenere non significativa la pregressa indagine dei periti.

La contraddittorietà emergerebbe anche in ragione del fatto che secondo la Corte d’Appello, pur essendo certa l’incapacità della de cuius nel (OMISSIS), e pur essendosi riferito di una malattia che aveva avuto inizio pacificamente alcuni anni prima, in quanto destinata ad un progressivo peggioramento, poichè rutti gli accertamenti diagnostici erano avvenuti in epoca successiva alla data del testamento, non sarebbe in alcun modo stato possibile affermare con certezza l’incapacità anche dalla data di tale atto.

Inoltre, a fronte di un quadro probatorio ritenuto come carente, la motivazione della sentenza impugnata contraddittoria e carente laddove non si ritiene rilevante la prova testimoniale richiesta dalla ricorrente, ed illegittimamente denegata dal giudice di primo grado.

Con il secondo motivo si denunzia l’insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia e precisamente in merito al valore dei beni contenuti nelle cassette di sicurezza, nonchè la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e la violazione dell’art. 181 c.p.c.

A fronte della deduzione sviluppata con il terzo motivo di appello circa l’abnorme quantificazione della somma alla quale era stata condannata come controvalore dei beni ereditari appresi la sentenza di appello aveva confermato la valutazione del giudice di primo grado, senza indicare le fonti del proprio convincimento, non apparendo comprensibili le ragioni che hanno portato a quantificare il valore degli oggetti custoditi nelle cassette nel rilevante importo di circa Euro 200.000,00.

Inoltre si sarebbe data rilevanza al valore probatorio del verbale di inventario, la cui contestazione, avvenuta con la comparsa conclusionale, sarebbe stata ritenuta inammissibile in ragione di una lettura restrittiva della previsione di cui all’art. 184 c.p.c..

3. Il primo motivo è infondato e deve essere disatteso, atteso che lo stesso mira in sostanza a sollecitare unicamente una non consentita rivalutazione degli accertamenti in fatto, così come compiuti dal giudice di merito.

Inoltre deve essere ricondotta alla denunzia di un vizio motivazionale anche la dedotta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. per avere la corte di merito privilegiato gli elementi probatori ricavabili dall’accertamento peritale a discapito delle emergenze della prova testimoniale ovvero delle precedenti indagini tecniche, posto che secondo la costante giurisprudenza della Corte (cfr. ex multis Cass. n. 21603/2013) la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili per il doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione è rimessa all’apprezzamento discrezionale, ancorchè motivato, del giudice di merito, ed è censurabile, quindi, in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione e non della violazione di legge.

Sempre in tale prospettiva, costituisce orientamento altrettanto consolidato quello per il quale (cfr. Cass. n. 17097/2010) l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.

E peraltro, come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Corte di cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici del merito (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 3267 del 12/02/2008), dovendo invece la Corre di legittimità limitarsi a controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il ragionamento probatorio, da essi reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che, come dianzi detto, nel caso di specie è dato riscontrare.

Si è reiteratamente affermato (Cass. 1.3.2014, n. 4980) che, qualora con il ricorso per cassazione venga dedotta l’incongruità o illogicità della motivazione della sentenza impugnata per l’asserita mancata valutazione delle risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi – mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso la risultanza che egli asserisce decisiva non valutata o non sufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti di causa, di delibare la decisività della risultanza stessa. La motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Sez. L, Sentenza n. 21118 del 2.5/10/2013).

Per quanto concerne la valutazione della c.t.u. valga il richiamo a Cass. 13845/07; Cass. 7392/94; Cass. 16368/14, dalle cui affermazioni si ricava la regola per la quale, ove il giudice di merito riconosca convincenti le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, poichè l’obbligo della motivazione è assolto già con l’indicazione delle fonti dell’apprezzamento espresso, dalle quali possa desumersi che le contrarie deduzioni delle parti siano state implicitamente rigettate; pertanto la parte che deduce un vizio di motivazione od un’erronea valutazione dei dati ha l’onere di indicare in modo specifico le deduzioni formulate nel giudizio di merito, delle quali il giudice non si sia dato carico, non essendo in proposito sufficiente il mero e generico rinvio agli atti del pregresso giudizio (cfr. Cass. n. 5229/2011; coni. Cass. 19475/2005). Non incorre quindi nel vizio di carenza di motivazione la sentenza che recepisca per relationem le conclusioni e i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui dichiari di condividere il merito; pertanto, per infirmare, sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, tale motivazione e necessario che la parte alleghi le critiche mosse alla consulenza tecnica d’ufficio già dinanzi al giudice a quo, la loro rilevanza ai fini della decisione e l’omesso esame in sede di decisione; al contrario, una mera disamina, corredata da notazioni critiche, dei vari passaggi dell’elaborato peritale richiamato in sentenza, si risolve nella mera prospettazione di un sindacato di merito, inammissibile in sede di legittimità (Sez. 1, Sentenza n. 10222 del 04/05/2009).

Il richiamo ai suesposti principi, che costituiscono in sostanza il diritto vivente della Corre in tema di valutazione delle doglianze circa la sindacabilità della motivazione del giudice di merito in ordine agli accertamenti fattuali, consente di pervenire in maniera rassicurante al rigetto del motivo.

La Corte distrettuale ha in realtà, ed in punto di diritto, fatto corretta applicazione della regola generale posta dall’art. 591 c.c. per la quale e colui che chiede l’accertamento dell’invalidità del testamento a dover dimostrare l’incapacità della de cuius al momento della confezione dell’atto (regola sulla cui vabilità concorda anche parte ricorrente), ritenendo che tale prova non fosse stata fornita.

Ed è proprio sull’idoneità del materiale probatorio in atti come idoneo a documentare la capacità o meno della de cuius alla data del testamento che si appunta sostanzialmente la critica della ricorrente, confermando in tal modo come il motivo sia in sostanza una indebita sollecitazione ad una rivisitazione del merito della controversia.

La lettura delle motivazioni della sentenza impugnata, lungi dall’evidenziare una acritica adesione alle conclusioni della CTU evidenziano come i giudici di appello si siano dati carico della confutazione delle critiche mosse dall’appellante alle stesse conclusioni dei periti di ufficio.

In particolare è stato congruamente e ampiamente argomentato sul perchè non sussistessero le contraddittorietà denunziate tra gli accertamenti compiuti dagli stessi professionisti in precedenti giudizi che li avevano impegnati nell’accertamento delle condizioni di salute psichica della de mins, e quello invece svolto nel giudizio in esame, specificandosi come tutti i diversi accertamenti fossero stati compiuti in epoca successiva al luglio del 1992, e che pur dovendosi concordare circa il fatto che la patologia fosse già esistente a tale ultima data, non era dato però apprezzare quale fosse il decorso clinico e soprattutto se avesse effettivamente pregiudicato in maniera totale la capacità di intendere e di volere della testatrice.

Alle pagg. 3 e ss. della sentenza si procede ad una puntuale disamina delle valutazioni compiute dai periti di ufficio in altra sede, evidenziandosi la non contraddittorietà con quanto invece sostenuto nella CTU, dandosi anche contezza dell’apparente contrasto con quanto dichiarato dal dott. De.Ve. all’udienza del 9 ottobre 1996, fornendosi però una logica chiave di lettura di tali dichiarazioni, in ragione della impossibilità di poter verificare in concreto quale sia stato l’effettivo decorso della malattia, escludendosi quindi una insanabile contraddizione.

L’impossibilità di poter affermare con certezza che la de cuius fosse incapace alla data del testamento viene poi supportata sul piano argomentativi) dal richiamo ad elementi probatori che attestavano la piena capacità, quanto meno al mese di (OMISSIS) (dichiarazioni del notaio dinanzi al quale era stata rilasciata la procura in favore del P.), aggiungendosi altresì che anche le altre deposizioni testimoniali raccolte non permettevano di poter far risalire al 1992 la condizione di demenza senile totalmente invalidante della D.M..

Ed invero, costituisce principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza della Corte, ed al quale mostra essersi conformata anche la sentenza gravata, quello per il quale (Cass. n. 27351/2011) in tenia di annullamento del testamento, l’incapacità naturale del testatore postilla la esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del “de cuius”, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; peraltro, poichè lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo clic il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo (conf ex multis Cass. n. 9081/2010; Cass. n. 9058/2005). Ne consegue che, una volta esclusa, anche in ragione delle argomentate, e condivise dal giudici di merito, conclusioni del collegio peritale l’affermazione dello stato di incapacità della de cuius alla data dell’atto testamentario, non essendo dimostrata la condizione di permanente incapacità psichica, debba trovare piena applicazione il principio generale dell’onere della prova che impone a colui che invoca l’invalidità dell’atto di dover provare che lo stesso venne redatto in presenza delle condizioni che ex art. 591 c.c. ne determinano l’annullamento.

In realtà, e con più ampio riferimento alla cotica alle motivazioni della sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto di condividere le valutazioni degli ausiliari, propendendo quindi per la mancata dimostrazione dell’esistenza di una patologia invalidante di carattere permanente già all’epoca del testamento, si è affermato che (Cass. n. 2407/1981) quando un giudizio deve necessariamente risultare dall’esame coordinato di numerosi elementi, conte nel caso di giudizio sulla capacità di intendere e di volere della persona defunta (al fine di riconoscere o meno la sua capacità di testate), il problema se il giudice del merito abbia o meno motivato adeguatamente va esaminato con riferimento all’insieme dì tali elementi e con riguardo al complesso delle difese rispettivamente dedotte dalle parti contrapposte. L’eventuale silenzio della motivazione su taluni degli elementi citati non può essere considerato omesso esame di punti decisivi qualora, nel suo complesso, il giudizio risulti adeguatamente e concretamente giustificato nè si possa affermare che senza quel silenzio la decisione avrebbe potuto essere diversa (in termini si veda anche Cass. n. 162/1981, per la quale l’apprezzamento del giudice del merito circa l’incapacita d’intendere e di volere, prevista dall’art. 591 c.c., n. 3, al fine di dedurre l’incapacità di disporre per testamento, costituisce indagine dì fatto e valutazione di merito, non censurabile in sede di legittimità, se fondata su congrua motivazione, immune da vizi logici ed errori di diritto; (conf. Cass. n. 1851/1980; Cass. n. 1454/1969).

Orbene se l’accertamento circa la capacità della de cuius costituisce tipico apprezzamento in fatto, appare quindi evidente che la valutazione compiuta sul punto è incensurabile in sede di legittimità, e che nella fattispecie tale incensurabilità risulti vieppiù confermata in ragione dell’ampia ed articolata motivazione del giudice di merito che ha argomentatamente evidenziato le ragioni per le quali, facendo proprie le conclusioni del CTU, non poteva affermarsi che alla data cui risale il testamento, la defunta fosse incapace di intendere e di volere nel senso richiesto dalla previsione di cui all’art. 591 c.c.

Le complessive censure di cui al motivo in esame si risolvono nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto si come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, cosi mostrando di andare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dal giudice di appello non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consone ai propri desiderala, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa potessero ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità.

Quanto infine alla mancata ammissione dei mezzi istruttori deve del pari escludersi la fondatezza del motivo.

Erroneo appare infatti il richiamo alla violazione dell’art. 184 c.p.c., dovendo anche tale doglianza essere correttamente riportata nell’ambito della denunzia di un vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Invero se effettivamente la mancata ammissione della prova da parte del giudice di primo grado, come riconosciuto anche dalla Corte distrettuale risultava fondata su di un’interpretazione restrittiva della previsione di cui all’art. 184 c.p.c., fatta propria da alcuni giudici di merito, e che imponeva di articolare le richieste istruttorie già con gli atti introduttivi del giudizio, potendosi introdurre delle nuove richieste nelle memorie di cui all’allora vigente art. 184 c.p.c., solo nel caso di innovazioni del thema decidendum avvenute nei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 5 (interpretazione questa sconfessata dalla giurisprudenza di questa Corte con la pronunzia n. 16571/2002 e dalle successive n. 13733/2009 e n. 15691/2011), in effetti la decisione del giudice di appello di non dare ingresso alle richieste di prova testimoniale di parte ricorrente cui capitoli risultano peraltro riportati anche in ricorso), risulta giustificata non già per l’applicazione della previsione di cui all’art. 184 c.p.c., quanto sulla scorta di una valutazione di non rilevanza della prova medesima.

Infatti, la sentenza impugnata, dopo avere ricordato che i testi indicati dalla W. già erano stati escussi sui capitoli di prova richiesti dal P., ha affermato che le circostanze dedotte tendevano solo a dimostrare ulteriori particolari che già potevano essere ricavati nel loro nucleo essenziale con le precedenti deposizioni, e che le dichiarazioni rese non avevano fornito alcun apporto, avendo i primi due testi risposto in maniera non convincente e non pertinente, ed avendo gli ultimi due testi ( S. e M.) dichiarato di non essere a conoscenza dei fatti.

Ne consegue che anche la censura in ordine alla mancata ammissione della prova in esame appare suscettibile di essere denunziata in sede di legittimità esclusivamente sotto il profilo dell’inidoneità della motivazione, ma a tal fine la lettura del motivo non denota alcuna specifica critica argomentativo con il quale il giudice di merito ha ritenuto di disattendere la richiesta istruttoria della parte, avendo la W. limitato la censura alla sola sussistenza di un error in procedendo, per la dedotta violazione dell’art. 184 c.p.c..

In ogni caso, essendo il giudizio formulato dalla sentenza impugnata fondato su una valutazione di irrilevanza della prova, anche in considerazione di quanto già riferito dagli stessi testi in occasione della)oro precedente escussione, in ossequio al principio di autosufficienza e per evidenziare la carenza del ragionamento ovvero l’illogicità o contraddittorietà delle ragioni manifestate dal giudice di appello, sarebbe stato necessario riprodurre in ricorso anche il contenuto delle deposizioni già rese, onde potere effettivamente apprezzare la correttezza della decisione resa sul punto.

4. Parimenti privo di fondamento deve ritenersi il secondo motivo dì ricorso.

Ed, invero lo stesso risulta evidentemente carente del requisito dell’autosufficienza.

Il Tribunale prima, e la Corte d’Appello poi, hanno ritenuta legittima la quantificazione delle somme corrispondenti al valore dei beni indebitamente sottratti dalla ricorrente, avvalendosi, quanto ai beni mobili presenti nelle cassette di sicurezza, del contenuto del verbale di inventario del 6 luglio 1994.

Assume la W. con il motivo di ricorso in esame, che così come il primo si sostanzia unicamente in una sollecitazione ad un diverso apprezzamento dei fatti di causa, che la motivazione sarebbe del tutto insufficiente e generica, non apparendo a tal fine sufficiente il mero richiamo al verbale de quo.

Tuttavia, sebbene tale verbale abbia costituito il fondamento della decisione da parte del giudice di merito, la ricorrente omette di riprodurne il contenuto in ricorso, onde consentire a questa Corte di poter apprezzare, sulla scorta della lettura dello stesso ricorso, se effettivamente si palesi la carenza della motivazione della sentenza gravata, in ragione della stessa carenza del contenuto del verbale e della sua idoneità a sopportare la quantificazione operata.

Quanto poi alla dedotta violazione dell’art. 181 c.p.c., sebbene non appaia chiaro il riferimento a questa norma, nella parte in cui si denunzia che la Corte d’Appello avrebbe ritenuto inammissibile la contestazione del valore probatorio del verbale di inventario, il motivo e del pari privo del requisito dell’autosufficienza.

In effetti la sentenza in esame lungi dal ritenere inammissibile, la contestazione del verbale operata dalla parte appellante in ragione della sua tardività, appunta la propria valutazione di inammissibilità sulla genericità della contestazione stessa.

La ricorrente, quindi, al fine di sollecitare la verifica della correttezza della motivazione resa sul punto dalla Corte distrettuale, avrebbe dovuto pertanto riprodurre in ricorso la parte della comparsa conclusionale relativa alla contestazione della valenza probatoria del verbale di inventano, di guisa che tale omissione preclude la possibilità di poter accogliere il motivo.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese che liquida in Euro 7.200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 21 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2016

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