Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2390 del 03/02/2021

Cassazione civile sez. III, 03/02/2021, (ud. 06/10/2020, dep. 03/02/2021), n.2390

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28690/2019 proposto da:

H.S., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso

la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato Maria Monica Bassan;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL

RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE VERONA SEZ. PADOVA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1723/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 29/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/10/2020 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. – Con ricorso affidato a cinque motivi, H.S., cittadino del (OMISSIS), ha impugnato la sentenza della Corte di Appello di Venezia, resa pubblica il 29 aprile 2019, che ne rigettava il gravame avverso la decisione di primo grado del Tribunale della medesima Città, che, a sua volta, ne aveva respinto l’opposizione avverso il diniego della competente Commissione territoriale del riconoscimento, in via gradata, dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria.

2. – La Corte territoriale, per quanto in questa sede ancora rileva, osservava che: a) il racconto del richiedente (essere fuggito dal Paese di origine per esser stato, in quanto importante esponente locale del partito (OMISSIS), perseguitato, aggredito e ferito da simpatizzanti del partito (OMISSIS) al potere, nonchè – dopo una rissa nel mese ottobre del 2013, in cui veniva ucciso un simpatizzante uno di detti simpatizzanti – esser stato privato delle proprietà e ricercato dalla polizia) non era credibile in quanto sommario, assistito da documentazione contraffatta (attestazione del ruolo assunto nel partito (OMISSIS)) e privo di qualsiasi riscontro sul fatto di essere ricercato dalla polizia e di avere una pendenza penale per l’uccisione del militante del partito AL, dovendosi ritenere che i motivi dell’emigrazione fossero solo di natura economica; b) non sussistevano i presupposti per la protezione di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), in quanto il richiedente non aveva mai denunciato le gravi lesioni riportate (frattura e ustioni ai piedi) in conseguenza delle aggressioni da parte degli attivisti del partito (OMISSIS), nè chiesto protezione all’autorità di polizia, mancando, pure, di dimostrare che non avrebbe potuto fare affidamento sulle forze dell’ordine; c) non sussistevano i presupposti per il riconoscimento della protezione di cui del citato art. 14, lett. c), in quanto, sulla scorta di quanto risultante dalle COI aggiornate (tra cui, Freedom House dell’aprile 2018; AMNESTY International febbraio 2018, EASO dicembre 2017), la presenza di attentati terroristici e casi di violazione di diritti umani non stava a significare che il Bangladesh (in cui vi era la contrapposizione tra due partiti politici: (OMISSIS) e (OMISSIS)) fosse un paese privo di controllo da parte dell’autorità statale e in situazione di violenza diffusa; d) non sussistevano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, in quanto la storia personale del richiedente era quella di un migrante economico, la situazione geo-politica del Bangladesh era quella già innanzi evidenziata e non era sufficiente la circostanza che il richiedente svolgesse in Italia l’attività di lavoro a tempo determinato di raccoglitore di prodotti agricoli.

3. – Gli intimati Ministero dell’interno e Commissione territoriale di Verona – sezione di Padova non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. – Con il primo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione”, per aver la Corte di appello: a) in violazione del principio della soccombenza, condannato alle spese esso appellante pur avendo avesse riconosciuto che l’ordinanza di inammissibilità dell’opposizione pronunciata dal primo giudice fosse da revocare in quanto erronea; b) omesso di provvedere sulla richiesta istruttoria relativa alla nomina di interprete di lingua inglese.

1. – Il motivo – che è possibile scrutinare nella sostanza (Cass., S.U., n. 17931/2013), come volto a denunciare una violazione di legge – è infondato in tutta la sua articolazione.

Quanto alla censura sub a), con cui si deduce sostanzialmente una violazione dell’art. 91 c.p.c., va evidenziato che la valutazione di soccombenza, ai fini della condanna alle spese, va rapportata all’esito finale della lite, non potendo addossarsi, neppure parzialmente, le spese stesse alla parte totalmente vittoriosa, ossia alla parte che abbia visto accogliere in toto la pretesa di merito azionata o rigettare, in toto, la pretesa di merito azionata dalla controparte, a nulla rilevando che siano state, rispettivamente, accolte o disattese eccezioni a carattere processuale (cfr. in tale prospettiva, tra le tante, Cass. n. 18503/2014).

Quanto alla censura sub b), con cui si deduce sostanzialmente una violazione dell’art. 112 c.p.c., per il vizio di omessa pronuncia, deve rammentarsi che detto vizio è configurabile solo nel caso di mancato esame di questioni di merito, e non anche di eccezioni pregiudiziali di rito (tra le molte, Cass. n. 25154/2018).

2. – Con il secondo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “errata motivazione sulla credibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente”, non avendo la Corte di appello considerato quanto da esso richiedente dichiarato dinanzi alla Commissione territoriale ed esaminato la documentazione ritenuta contraffatta, ovvero quella depositata in atti.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

In tema di protezione internazionale, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, impone al giudice l’obbligo, prima di pronunciare il proprio giudizio sulla sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione, di compiere le valutazioni ivi elencate e, in particolare, di stabilire se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, in forza di un prudente apprezzamento che, in quanto tale, non è sindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti del vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. n. 6897/2020, cfr. anche Cass. n. 27503/2018 e Cass. n. 21142/2019).

La Corte territoriale, nell’apprezzamento della credibilità del richiedente, si è attenuta al principio di procedimentalizzazione legale della decisione avendo operato la propria valutazione (cfr. sintesi nel “Rilevato che”) alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, prendendo in considerazione tutte circostanze dedotte in giudizio, mentre le censure mosse con il ricorso (che non mettono in rilievo ulteriori e decisivi elementi di fatto la cui valutazione sarebbe stata pretermessa dal giudice di secondo grado) sono orientate piuttosto a criticare l’apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, che, come detto, è quaestio facti, censurata (in modo inammissibile) alla luce del paradigma di cui al previgente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in guisa di vizio motivazionale e non di omesso esame di un fatto decisivo e discusso tra le parti.

3. – Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 7 e 8, nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, “per mancato riconoscimento dello status di rifugiato”, avendo la Corte territoriale erroneamente ritenuto non credibile il narrato di esso richiedente, che, invece, era tale da concretare le condizioni per il riconoscimento di detto status.

4. – Con il quarto mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 14, nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, “per mancato riconoscimento della protezione sussidiaria” di cui del citato art. 14, lett. a) e b), non avendo la Corte territoriale valutato “il rischio di persecuzione politica, nè l’elevata corruzione della polizia, nè (l’)effettivo rischio del ricorrente di subire una carcerazione inumana e ingiusta, dal momenti che vi è un mandato di arresto emesso” nei suoi confronti.

4.1. – Il terzo e quarto motivo – da esaminarsi congiuntamente in quanto connessi – sono inammissibili.

All’esito dello scrutinio che precede si è formato giudicato sulla statuizione relativa alla inattendibilità soggettiva del richiedente, con la conseguenza che non potrebbero trovare accoglimento le domande di riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), che presuppongono la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa i fatti che lo esporrebbero a persecuzione, nonchè a rischio grave alla vita o alla persona (tra le altre, Cass. n. 16925/2018).

5. – Con il quinto mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32,D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3), “per mancata/insufficiente valutazione della situazione del Paese di origine del richiedente (Bangladesh) e errata valutazione dei presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari”.

5.1. – Il motivo è fondato.

In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato (Cass., S.U., n. 29459/2019). A tal riguardo, il giudice di merito, nel procedere alla tale comparazione, non potrà riconoscere al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base dell’isolata e astratta considerazione del suo livello di integrazione in Italia, ma dovrà coniugare, quella considerazione, con l’esame del modo in cui l’eventuale rimpatrio (e dunque il contesto di generale compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza) verrebbe a incidere sulla vicenda personale dell’interessato, avuto riguardo alla sua storia di vita e al grado di sviluppo della sua personalità.

Là dove, poi, la ricostruzione della storia di vita del richiedente risulti ostacolata dalla ritenuta non credibilità delle relative dichiarazioni, o dall’irriducibile frammentarietà delle informazioni complessivamente acquisite, il giudice di merito dovrà in ogni caso procedere a verificare se le condizioni sociali, politiche o economiche, obiettivamente riscontrate nel paese di origine non appaiano tali da porsi in evidente contrasto con la misura del rimpatrio, avuto riguardo all’incidenza di dette condizioni con la conservazione, in capo al richiedente, del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità umana, al di là di ogni specifica caratterizzazione che valga a qualificarne l’identità.

A fronte del dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, la valutazione delle condizioni socio-politiche del Paese d’origine del richiedente deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche di cui si dispone pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione, sicchè il giudice del merito non può limitarsi a valutazioni solo generiche ovvero omettere di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, potendo incorrere in tale ipotesi, la pronuncia, ove impugnata, nel vizio di motivazione apparente (Cass. n. 13897/2019; Cass. n. 20335/2020).

Nella specie, la Corte territoriale (cfr. sintesi al “Rilevato che” e pp. 12/13 della sentenza impugnata) ha trascurato di approfondire e circostanziare gli aspetti dell’indispensabile valutazione comparativa tra la situazione personale attuale del richiedente sul territorio italiano e la condizione cui lo stesso verrebbe lasciato in caso di rimpatrio, al fine di attestare – attraverso l’individuazione delle specifiche fonti informative suscettibili di asseverare le conclusioni assunte (che non possono fondarsi, come nella specie, sulla verifica effettuata unicamente ai fini della delibazione delle condizioni di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c)) – che il ritorno del richiedente nel proprio paese non valga piuttosto a esporlo al rischio di un abbandono a condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo dei diritti della persona; e tanto, indipendentemente dalla circostanza che tale rischio possa farsi risalire (o meno) a fattori di natura economica, politica, sociale, culturale, etc. (Cass. n. 20335/2020, citata). La motivazione adottata dal giudice di appello si palesa, dunque, meramente apparente e tale, quindi, da non integrare il c.d. “minimo costituzionale” (Cass., S.U., n. 8053/2014).

6. – Va, dunque, accolto il quinto motivo e rigettato nel resto il ricorso.

La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, che dovrà applicare, nella delibazione del gravame, i principi innanzi enunciati, nonchè provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

accoglie il quinto motivo e rigetta nel resto il ricorso;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2021

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