Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23872 del 29/10/2020

Cassazione civile sez. trib., 29/10/2020, (ud. 13/02/2020, dep. 29/10/2020), n.23872

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 7273/2013 R.G. proposto da:

Kartell spa, in persona del legale rappresentante rappresentata e

difesa dall’Avv. Guglielmo Maisto, eletto presso lo studio del

difensore medesimo in Roma, Piazza d’Aracoeli, n,1;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente-

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 108/26/12 del 20 giugno 2012, depositata il 7 settembre

2012.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13 febbraio 2020

dal Consigliere Enrico Manzon;

uditi gli Avv. Michele Toccaceli in sostituzione dell’avv. Maisto e

Francesco Meloncelli dell’Avvocatura dello Stato;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Mastroberardino Paola, che ha concluso chiedendo in via

principale dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, in subordine

il rigetto dello stesso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 108/26/12 del 20 giugno 2012, depositata il 7 settembre 2012 la Commissione tributaria regionale della Lombardia respingeva l’appello proposto da Kartell spa avverso la sentenza n. 458/02/10 della Commissione tributaria provinciale di Milano che ne aveva respinto il ricorso contro l’avviso di accertamento per II.DD. ed IVA 2005.

La CTR osservava in particolare:

– in via preliminare, che l’appello, peraltro limitatamente devolutivo (ripresa fiscale per indeducibilità degli interessi passivi su prestito obbligazionario), non corrispondeva alle previsioni di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, non essendo basato su “specifici motivi” di impugnazione, poichè l’appellante aveva meramente riproposto le doglianze di cui al ricorso introduttivo della lite;

– nel merito, che non erano fondate le eccezioni della società contribuente rispetto alla ripresa fiscale oggetto della limitata impugnazione, posto che il prestito obbligazionario de quo doveva considerarsi “operazione abusiva” volta ad ottenere un indebito vantaggio fiscale in assenza di una giustificata ragione economica, non riconoscendo tale qualità a quelle indicate dalla società contribuente.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione la Kartell spa deducendo due motivi, poi illustrati con memoria.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Va affrontata in via preliminare l’eccezione di inammissibilità del ricorso prospettata dall’agenzia fiscale controricorrente.

Sostiene l’Agenzia delle entrate:

– che essendo due, distinte ed autonome, le rationes decidendi della sentenza impugnata – l’una, in rito, sull’a-specificità dei motivi di appello, contenente una almeno implicita pronuncia di inammissibilità dello stesso, l’altra riguardante la natura abusiva del comportamento oggetto della ripresa fiscale tuttora in contesto e quindi il meritum causae – posto che la ricorrente censurato soltanto la seconda, il suo ricorso risulterebbe appunto inammissibile per difetto di interesse, poichè l’omessa impugnazione della prima ha come conseguenza la definitività della pronuncia in rito del giudice tributario di appello e perciò comporta il passaggio in giudicato della sentenza della CTP;

– che in ogni caso essendosi la CTR espressa preliminarmente in termini di inammissibilità del gravame, con ciò si era spogliata della, potestas judicandi sullo stesso, assumendo quindi le sue considerazioni meritali il valore di obiter dictum, sicchè le censure proposte ne risultavano inammissibili per difetto di interesse ad impugnare.

L’eccezione è infondata.

Va infatti ribadito che “E’ inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per cassazione con il quale si contesti esclusivamente l’avvenuto rilievo in motivazione, da parte del giudice di appello, dell’inammissibilità dei motivi di impugnazione per difetto di specificità, ove tale rilievo sia avvenuto “ad abundantiam” e costituisca un mero “obiter dictum”, che non ha influito sul dispositivo della decisione, la cui “ratio decidendi” è, in realtà, rappresentata dal rigetto nel merito del gravame per infondatezza delle censure” (Cass., n. 30354 del 18/12/2017, Rv. 647172 – 01; successive conformi, ex pluribus, Cass. nn. 29305/2018, 32736/2019).

Tale principio di diritto ben si attaglia alla sentenza impugnata, posto che nella medesima la CTR lombarda in esordio di motivazione si riferisce appunto al difetto di specificità delle censure dell’appellante società contribuente, ma non solo non ne ha tratto la conseguente statuizione di inammissibilità del gravame, del tutto assente nella motivazione e nel dispositivo della sentenza medesima, meramente confermativo della sentenza appellata, ma anzi è entrata direttamente nel merito dell’appello, argomentandone e statuendone l’infondatezza.

Da ciò dunque deriva che il punto della decisione di appello riguardante la forma dell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado contiene una ratio decidendi meramente apparente, mentre in realtà è un obiter dictum e la vera, unica, ratio decidendi, che è poi quella censurata dalla ricorrente, riguarda le eccezioni di infondatezza dell’avviso di accertamento nella parte originariamente impugnata, sì come devolute in sede di gravame. Non è pertanto applicabile alla presente fattispecie il principio dettato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 3840 del 20/02/2007 (secondo cui “qualora il giudice dopo una statuizione di inammissibilità, con la quale si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere nè l’interesse ad impugnarle; conseguentemente è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata”), in quanto tale principio, valido per il caso in cui la Corte territoriale abbia dichiarato inammissibile l’appello ed abbia altresì in motivazione ritenuto l’appello anche non fondato, con argomentazioni ad abundantiam, non vale nel caso opposto, qui ricorrente, in cui la Corte del gravame abbia rigettato l’appello, nel merito, per infondatezza dei motivi ed abbia altresì nella motivazione svolto argomenti ad abundantiam circa l’inammissibilità dell’impugnazione (nella specie, per difetto di specificità dei motivi); deve invero ritenersi che, nel caso in cui il giudice di appello, dopo aver rilevato – nella motivazione della sentenza – che l’appello sarebbe inammissibile per difetto di specificità dei motivi, abbia cionondimeno esaminato i motivi stessi nel merito ritenendone l’infondatezza (con ciò, peraltro, cadendo in contraddizione e smentendo, nei fatti, la propria precedente affermazione circa il difetto di specificità delle censure), il giudice del gravame non ha inteso spogliarsi della propria potestas iudicandi, ma – piuttosto – ha inteso rafforzare la propria decisione di mancato accoglimento del gravame con una ragione alternativa ad abundantiam, che tuttavia è rimasta fuori dalla decisione finale di rigetto, nel merito, dell’impugnazione (cfr. negli stessi termini, Cass. n. 22782/2018).

Ciò considerato in limine, va poi rilevato che:

– con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (versione precedente alla novella del D.L. n. 83 del 2012, applicabile ratione temporis) – la ricorrente lamenta l’omessa ovvero l’insufficiente motivazione circa uno o più fatti controversi per il giudizio, poichè la CTR non ha dato adeguato conto del proprio convincimento della sussistenza di una fattispecie di “abuso del diritto” quale fondamento dell’atto impositivo impugnato (in parte qua), con specifico riguardo alla ripresa relativa alla deducibilità degli interessi passivi connessi ad un prestito obbligazionario ed alla correlativa affermazione dell’insussistenza di “valide ragioni economiche” giustificanti “a monte” la stessa emissione del prestito stesso;

– con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la ricorrente si duole della violazione/falsa applicazione del principio di “divieto di abuso del diritto”, poichè la CTR ha completamente omesso di valutare l’applicabilità al caso di specie della regula legis specifica di cui all’art. 109 TUIR, comma 5, ed avendo quindi falsamente applicato (disapplicato) detto principio generale, non potendosi sussumere la fattispecie concreta oggetto del giudizio nella sfera attuativa del medesimo; comunque censurandone, in alternativa, la concreta applicazione, in particolare contestando detta affermazione di insussistenza di giustificazioni economiche dell’emissione del prestito obbligazionario ingenerante gli oneri la cui deduzione è in contestazione.

Le censure, che per stretta connessione è opportuno esaminare congiuntamente, sono per certi versi inammissibili e comunque sono infondate.

In ordine alla prima censura va anzitutto ribadito che “La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione” (Cass., n. 19547 del 04/08/2017, Rv. 645292 – 01).

In ordine alla seconda censura va poi anche dato seguito al principio di diritto che “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. n. 9097 del 07/04/2017). Con ciò chiariti i limiti della cognizione della Corte, peraltro ben noti in virtù della consolidata giurisprudenza citata, se ne rilevano anzitutto in generale i profili di inammissibilità delle prospettate censure, in quanto entrambe miranti ad una sostanziale revisione del giudizio di merito, conformemente, espresso nei due gradi in ordine alla, affermata, fondatezza della pretese fiscale de qua.

Peraltro e, come detto, comunque i mezzi stessi sono infondati.

In primo luogo non è sussistente il denunciato vizio motivazionale, posto che la CTR lombarda, pur sinteticamente, ha in modo chiaro esposto la ragione della sua decisione di conferma della sentenza appellata e quindi di rigetto del ricorso introduttivo della lite.

Nella parte motiva della sentenza impugnata infatti è analizzata la questione, essenziale oggetto del giudizio (v. più diffusamente infra), della natura abusiva dell’emissione obbligazionaria in esame e conseguentemente della correlativa non deducibilità degli oneri per interessi passivi dalla medesima ingenerati.

In particolare il giudice tributario di appello ha escluso che tale prestito si correlasse all’attività dell’impresa societaria della Kartell spa e ne trovasse la giustificazione economica, rilevando che l’operazione finanziaria stessa fosse stata invece determinata da esclusive finalità fiscali (di risparmio fiscale) dei soci della società contribuente e domini del gruppo societario cui la stessa faceva parte.

Inoltre la CTR lombarda ha specificamente valutato le allegazioni difensive su questo punto di fatto e le ha, insindacabilmente, in quanto giudizio di merito sulle prove, considerate “insufficienti ed inconferenti, quindi, inidonee”.

Solo apparentemente il non molto ampio apparato motivazionale della sentenza impugnata si può prestare alla critica in esame.

Le pur “essenziali” argomentazioni del giudice tributario di appello vanno infatti integrate con quelle della sentenza di primo grado, espressamente richiamata e puntualmente sintetizzata, ed altresì con le notazioni relative alle posizioni delle parti, queste si più diffusamente esposte nella parte narrativa della sentenza impugnata stessa.

In particolare l’affermazione contenuta nella motivazione dell’assenza di giustificazione economico imprenditoriale del prestito obbligazionario e dell’inefficacia delle correlative difese della società contribuente, trovano evidente integrazione logico argomentativa nelle esposte contestazioni dell’agenzia fiscale.

Risulta infatti univocamente dalla lettura della sentenza impugnata che dette sue affermazioni si correlano con le premesse fattuali e giuridiche della ripresa fiscale (operazioni tutte effettuate all’interno di un gruppo societario interamente posseduto dalla famiglia L.) e con le conclusioni ossia il fine di indebito vantaggio fiscale costituito, per la Kartell spa, dalla deduzione degli interessi passivi derivanti dal prestito obbligazionario emesso per l’acquisto di una delle società del gruppo (partecipazione totalitaria in Kartell spa venduta da Felofin spa alla Design International srl, subito dopo fusa in Kartell spa, che quindi doveva pagare l’acquisto di sè medesima alla Felofin), per i L., dalla tassazione agevolata (cedolare secca del 12,50%) degli interessi attivi percepiti su detto prestito obbligazionario in quanto cedutogli da Felofin per l’acquisto di azioni proprie detenute dai L. stessi.

Nessuna “insufficienza motivazionale” è dunque ascrivibile alla decisione del giudice tributario di appello.

Passando ad esaminare la seconda censura, in disparte ad una sua potenziale inammissibilità, va rilevato che sostanzialmente la medesima si articola in due, distinti, profili.

Con una prima argomentazione la società ricorrente evoca un errore di sussunzione della fattispecie impositiva concreta nel principio generale antiabuso, ritenendo invece applicabile alla medesima la disposizione specifica di cui all’art. 109 TUIR, comma, 5, secondo la quale “Le spese e gli altri componenti negativi (del reddito, ndr) diversi dagli interessi passivi… sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.

Si tratta della regola normativa generale di inerenza degli oneri deducibili, che viene specificamente evocata per l’esclusione espressa degli “interessi passivi”, oneri che appunto secondo la società contribuente sono sempre deducibili, a prescindere dalla inerenza della loro fonte generatrice. Il che toglierebbe ab imis fondamento giuridico alla ripresa fiscale ed alle statuizioni confermative dei due giudici di merito.

Il Collegio è ben consapevole che nella giurisprudenza di legittimità è da ritenersi consolidato il principio di diritto che “Ai fini della determinazione del reddito d’impresa, gli interessi passivi, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 5, ed a differenza della precedente normativa contenuta nel D.P.R. 20 settembre 1973, n. 597, art. 74, sono sempre deducibili, anche se nei limiti di cui al detto D.P.R. n. 917 del 1986, art. 63, (ora art. 96) che indica misura e modalità del calcolo degli interessi passivi deducibili in via generale, senza che sia necessario operare alcun giudizio di inerenza” (Cass., n. 10501 del 14/05/2014, Rv. 630816 – 01; precedenti conformi, n. 9380/2009 e n. 22034/2006) ed è peraltro proprio su questa giurisprudenza che si basa la censura in parte qua.

Tuttavia l’assolutezza di questo arresto giurisprudenziale è sicuramente temperata dall’ulteriore principio di diritto secondo il quale “Ai fini della determinazione del reddito d’impresa, resta precluso tanto all’imprenditore quanto all’Amministrazione finanziaria dimostrare che gli interessi passivi riguardano finanziamenti contratti per la produzione di specifici ricavi, dovendo, invece, essere correlati all’intera attività dell’impresa esercitata. Gli interessi passivi, infatti, sono oneri generati dalla funzione finanziaria che afferiscono all’impresa nel suo essere e progredire, e, dunque, non possono essere specificamente riferiti ad una particolare gestione aziendale o ritenuti accessori ad un particolare costo” (Cass., n. 10501 del 14/05/2014, Rv. 630817 01, che è -significativamente- la stessa sentenza da cui è tratta la massima di cui appena sopra).

Ciò spiega quindi che, in realtà, la citata disposizione del TUIR, non può essere intesa nel senso che essa fissa una presunzione legale assoluta di inerenza degli interessi passivi, ma, più semplicemente e limitatamente, nel senso che li affranca da una correlazione diretta con i componenti attivi del reddito di impresa, certamente e comunque rilevandone il vincolo con l’attività dell’impresa nel suo complesso.

D’altro canto ciò è anche spiegato, sia pure rispetto a particolare casistica, dalla giurisprudenza evocata dalla difesa erariale, secondo la quale “In tema di I.R.P.E.F., l’imprenditore che conceda in affitto la sua unica azienda perde la qualifica di imprenditore, e non può pertanto più avvalersi dei criteri di deducibilità previsti per il reddito d’impresa rispetto ad un reddito costituito dai canoni d’affitto dell’azienda, i quali, in difetto di qualsiasi atto di residuata gestione, non possono considerarsi come conseguiti nell’esercizio dell’originaria impresa, cessata con il subentro del terzo: pertanto, poichè ai sensi degli artt. 63 e 75 T.U.I.R., occorre sempre e comunque un collegamento tra reddito imprenditoriale e componente negativo deducibile – che non può riferirsi ad un reddito “ontologicamente” diverso, perchè estraneo alla stessa attività d’impresa -, la deducibilità degli interessi passivi, legittima ove essi siano sostenuti in presenza ed in funzione dell’esercizio dell’attività d’impresa, intesa come organizzazione di uomini e mezzi, va esclusa, per il venir meno della “ratio” della previsione, quando tale attività sia, a tutti gli effetti, esercitata da un altro soggetto” (Cass., n. 19430 del 20/07/2018, Rv. 649779 – 02; conforme a Cass. n. 7292/2006, citata dall’agenzia fiscale).

Tali considerazioni, di per sè, evidenziano l’inconsistenza di questo profilo della censura, il quale peraltro risulta più in generale infondato proprio a causa della specifica contestazione utilizzata dall’agenzia fiscale nell’avviso di accertamento impugnato, che ha ripreso a tassazione la posta passiva in questione in applicazione del principio generale del divieto di abuso del diritto (v. per tutte, Cass. SU. n. 30055/2008).

Trattandosi di un clausola generale e residuale, chiaro è che, in ogni caso, la specifica disposizione del TUIR deve necessariamente appunto pregiudizialmente scontare l’insussistenza del contestato abuso, inteso come presupposto intrinseco di correttezza di ogni condotta autodichiarativa dei contribuenti e quindi di qualsiasi attività di rettifica dell’Ente impositore.

In altri più chiari termini va affermato che l’inerenza degli interessi passivi, sia pure “generica” secondo una corretta interpretazione dell’art. 109 TUIR, comma 5, e nel solco della relativa giurisprudenza di questa Corte, necessariamente implica che l’operazione che ha ingenerato tale componente negativa non sia qualificabile come elusiva ovvero contrastante con il generale divieto dell’abuso del diritto.

Ed è questa la questione di diritto centrale nella causa, così come posta con il secondo profilo del secondo mezzo di ricorso, che va ora preso in esame.

In tal senso bisogna anzitutto ricordare che gli interessi passivi di cui si discute nella causa sono i frutti civili di obbligazioni emesse dalla Kartell spa e da questa cedute in, parziale, pagamento alla Felofin spa quale corrispettivo della cessione della sua partecipazione totalitaria nella Kartell spa medesima alla Design International srl, subito dopo incorporata (fusione inversa) nella Kartell spa, che perciò appunto è così subentrata nella posizione debitoria verso la Felofin spa.

Va poi anche ricordato l’ulteriore fatto, pacifico, che i titoli obbligazionari Kartell spa sono stati poi ceduti da Felofin ad i suoi soci consorti L. quale corrispettivo dell’acquisto di azioni proprie da essi possedute.

Ciò posto, asserendo l’assenza di “sostanza economica” in queste operazioni collegate e quindi di finalità extrafiscali, l’Agenzia delle entrate ha fondato la propria pretesa nei confronti di Kartell spa, considerando indebito il vantaggio fiscale derivante dalla deduzione degli oneri per gli interessi passivi generati dalle obbligazioni cedute prima a Felofin, quindi girate ai L. e peraltro suffragando l’asserito intento elusivo ascritto alla società contribuente verificata con l’ulteriore vantaggio derivante ai L. medesimi dalla tassazione agevolata (cedolare secca del 12,50%) sui corrispondenti interessi (attivi) da questi percepiti come obbligazionisti Kartell.

La Kartell si difende anzitutto evocando, in generale, la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale “In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse alla mera aspettativa di quei benefici. Ne consegue che il carattere abusivo di un’operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell’operazione medesima ma possono rispondere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda” (Cass., n. 1372 del 21/01/2011, Rv. 616371 – 01).

Quindi appunto afferma che sono state “esigenze gestionali” a giustificare il complesso delle attività giuridiche nel quale si è innestata l’emissione del prestito obbligazionario de quo, specificamente individuate sin dalla fase dell’istruttoria amministrativa (con memoria difensiva allegata al PVC) nella “..(i) possibilità di redigere un bilancio consolidato relativo alla complessa attività imprenditoriale svolta dal gruppo; (ii) migliore predisposizione della struttura societaria nel quadro del possibile ingresso di nuovi soci o nell’eventualità della cessione dell’intero gruppo a soggetti terzi” (pag. 19, del ricorso) nonchè nella eliminazione di una holding intermedia (Design International srl) e nella postergazione di medio termine del debito “ereditato” da Kartell spa nei confronti di Felofin spa.

Pur con la tecnica motivazionale stringata e per relationem di cui si è detto sopra, il giudice tributario di appello ha tuttavia valutato tali giustificazioni e le ha ritenute “insufficienti ed inconferenti, quindi inidonee”; sul punto tale giudizio meritale non è revisionabile in questa sede, in adesione ai principi di diritto di cui si è dato atto sopra.

Va comunque peraltro osservato che sin dal PVC prodromico all’avviso di accertamento impugnato risulta che successivamente all’attività giuridica di contesto ed all’emissione obbligazionaria in esame nessuna delle ragioni giustificatrici extrafiscali indicate è stata concretamente realizzata (v. motivazione dell’atto impositivo trascritta alla pagina 3 del controricorso).

Ed ancora dalla motivazione dell’avviso di accertamento emerge che la complessa operazione di “ristrutturazione societaria” posta in essere, mediante l’interposizione di Design International (società “veicolo” costituita il 19 luglio 2002) unico Ente estraneo al gruppo, ha consentito di creare le premesse dell’emissione del prestito obbligazionario da parte di Kartell spa, essendo ciò invece inibito da un’ alternativa operazione diretta di cessione di Kartell spa stessa a Kartell SA (società di diritto lussemburghese anch’essa interamente posseduta dai L.), la quale alla fine del piano di ristrutturazione organizzativa ne è appunto divenuta proprietaria al 100%.

L’agenzia fiscale quindi ha allo stesso tempo chiarito (e comprovato) sia l’assenza effettiva di ragioni extrafiscali “non marginali” dell’operazione societaria oggetto della ripresa sia la “strada alternativa” che poteva essere percorsa, secondo il suo onere di allegazione e di prova (cfr. ex multis, Cass., n. 16217 del 20/06/2018, Rv. 649194 – 01).

Dall’analisi fin qui condotta emerge dunque che l’unica o almeno la nettamente prevalente giustificazione sostanziale della sequenza delle attività giuridiche “schermanti” costituenti il contesto in esame sono i vantaggi fiscali rispettivamente conseguiti a Kartel spa (deduzione di interessi passivi) ed ai consorti L. (tassazione agevolata su redditi da capitale), il che in relazione alla prima ne conferma la condotta abusiva/elusiva, secondo i consolidati principi di diritto che “In materia tributaria, configura abuso del diritto l’operazione che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, ossia quella che non abbia una giustificazione economica apprezzabile differente dall’intento di conseguire un risparmio di imposta” (Cass., n. 869 del 16/01/2019, Rv. 652191 – 01) ed ancor più specificamente che “In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, la cui ricorrenza deve essere provata dal contribuente; ne consegue che va esclusa l’abusività quando sia ravvisabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, non identificabili necessariamente in una redditività immediata dell’operazione, potendo rispondere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda. (Fattispecie relativa ad una complessa serie di operazioni di ristrutturazione, sfociate nella fusione per incorporazione di due società, entrambe partecipate dalla capogruppo, dalle quali era risultato un ingente risparmio fiscale: la S.C., in applicazione del principio, ha cassato con rinvio la decisione della C.T.R. che, confermando la sentenza di primo grado, ne aveva escluso il carattere elusivo per ragioni diverse, limitandosi al rilievo che l’operazione complessiva non poteva ritenersi tale soltanto perchè era stata prescelta una modalità fiscalmente più vantaggiosa rispetto a quella alternativa prospettata dall’Amministrazione, omettendo di esaminare in concreto il dato decisivo relativo al finanziamento concesso dalla capogruppo all’incorporante per acquistare il capitale dell’incorporata, alla cui restituzione la stessa capogruppo aveva, poi, rinunciato)” (Cass., n. 31772 del 05/12/2019, Rv. 656457 – 01).

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 11.000 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 13 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2020

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA