Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23871 del 29/10/2020

Cassazione civile sez. trib., 29/10/2020, (ud. 05/02/2020, dep. 29/10/2020), n.23871

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11071-2015 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

M.C.S., R.H.,

M.C.G., M.C.C., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA DEGLI SCIALOJA 18, presso lo studio dell’avvocato PERSICO

GIUSEPPE, che li rappresenta e difende giusta delega a margine;

– controricorrenti –

e contro

EQUITALIA SUD SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 6373/2014 della COMM. TRIB. REG. di ROMA,

depositata il 24/10/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/02/2020 dal Consigliere Dott. FASANO ANNA MARIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

MATTEIS STANISLAO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato TIDORE che si riporta e insiste

per l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato PERSICO che si riporta agli

atti.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

A seguito di decesso di S.E., l’Agenzia delle Entrate liquidava l’imposta principale di successione e notificava agli eredi ( M.C.S., Ma.Ca.Ca., M.C.F., Ma.Ca.Fl. e M.C.A.) un avviso di liquidazione. L’avviso veniva impugnato, con distinti ricorsi, dai coeredi M.C.S., Ma.Ca.Ca. ed M.C.A. innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma che, con sentenza n. 46/41/05, riuniva i ricorsi presentati da M.C.S. e Ma.Ca.Ca., accogliendoli parzialmente, ritenendo dovute le imposte catastali ed ipotecarie in misura fissa con riferimento ad alcuni immobili siti nel Comune di Pozzaglia Sabina e Pozzaglia Orvinio, ed annullando l’atto impugnato per la parte relativa alla irrogazione di sanzioni per tardiva presentazione della denuncia di successione. Il ricorso proposto dal coerede M.C.A. veniva, invece, accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma, con sentenza n. 291/43/05, demandandosi all’Agenzia delle Entrate di riliquidare l’imposta tenendo conto delle passività documentate e della documentazione relativa alla proroga dell’inventario. M.C.S. e Ma.Ca.Ca. impugnavano la decisione n. 46/41/05 dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio che, con sentenza n. 254/1/06, accoglieva il gravame, riconoscendo passività per complessive lire 278.938.538.

L’Agenzia delle entrate proponeva appello avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale n. 291/43/05, che veniva accolto parzialmente con sentenza n. 46/01/07. Sulla base delle suddette pronunce, l’Ufficio provvedeva all’iscrizione a ruolo di un’ imposta di Euro 166.869,77, irrogando una sanzione pari al 30h dell’imposta (Euro 50.060,93) e relativi interessi. La cartella veniva impugnata da M.C.S., M.C.G. e M.C.C. e R.H., in qualità di eredi di Ma.Ca.Ca., con distinti ricorsi. La Comissione Tributaria Provinciale di Roma, con sentenza n. 313/33/13, previa riunione, rigettava le impugnazioni. I contribuenti appellavano la pronuncia innanzi alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio che, con sentenza n. 6373/35/14, accoglieva parzialmente il gravame limitatamente alle sanzioni pecuniarie. L’Agenzia delle entrate ricorre per la cassazione della pronuncia, svolgendo un solo motivo. M.C.S., M.C.G., R.H. e M.C.C. si sono costituiti con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 346, art. 40, comma 1, e del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto la Commissione Tributaria Regionale non avrebbe compreso l’effettiva natura e il titolo giustificativo della sanzione applicata in sede di iscrizione a ruolo dell’imposta di successione, riliquidata a seguito di passaggio in giudicato delle sentenze relative all’avviso di liquidazione, nonostante quanto prospettato e chiarito dall’Agenzia delle entrate in sede di costituzione in giudizio di primo grado e ribadito con controdeduzioni in appello. La cartella di pagamento avrebbe per oggetto l’iscrizione a ruolo dell’imposta principale di successione, sanzioni ed interessi riliquidati, tenuto conto di quanto disposto dalla Commissione Tributaria Regionale, con le sentenze n. 254/01/06 e 46/01/07. L’Ufficio ricorrente deduce che, trattandosi del recupero di imposta principale di successione, non rileverebbe nè l’eventuale presentazione di ricorso avverso l’avviso di liquidazione nè la normativa sulla riscossione frazionata dei tributi, quindi, l’applicazione della sanzione per omesso e/o tardivo versamento, pari al 30h dell’imposta riliquidata, sarebbe legittima.

1.1.Non è contestato, per essere stato precisato anche dal giudice di appello nella motivazione della sentenza impugnata, che la cartella di pagamento ha per oggetto l’iscrizione a ruolo di un credito tributario già accertato con due sentenze passate in giudicato, e quantificato dall’Amministrazione finanziaria sottraendo dall’asse ereditario indicato dai coeredi nella dichiarazione di successione la maggiore passività, come determinata dal giudice tributario.

Il giudice di appello ha accolto il gravame, affermando testualmente che: “relativamente alla voce sanzione pecuniaria imposta di registro di Euro 50.060,93, di cui non si riesce a comprendere l’effettiva natura e il titolo giustificativo, tenuto presente che gli avvisi di accertamento in materia di successione contenevano la sola sanzione di Euro 39.712,58, che, definita genericamente quale “sanz. Pecun. Imp. Succ.”, rappresenta va evidentemente quella sanzione per ritardata presentazione della denuncia che era stata dichiarata illegittima già dalla sentenza di primo grado nel giudizio di impugnazione degli stessi avvisi”.

1.2. Ciò premesso, il motivo è inammissibile sotto vari profili. Le doglianze sono inammissibili in quanto non colgono la “ratio decidendi ” della sentenza impugnata, che dichiara non dovute le sanzioni in ragione del difetto di motivazione della cartella, dalla quale non è dato comprendere la natura del titolo giustificativo, e non in relazione a questioni di diritto che involgono la natura principale dell’imposta o la presentazione del ricorso avverso l’avviso di liquidazione.

Il motivo è, altresì, inammissibile per carenza di autosufficienza. Il ricorrente per cassazione ha l’onere di indicare specificamente e singolarmente i fatti, le circostanze e le ragioni che si assumono trascurati, insufficientemente o illogicamente valutati dal giudice di merito, e tale onere non può ritenersi assolto mediante il mero generico richiamo agli atti o risultanze di causa, dovendo il ricorso contenere in sè tutti gli elementi che consentano alla Corte di Cassazione di controllare la deci-sività dei punti controversi e la correttezza e sufficienza della motivazione e della decisione rispetto ad essi, senza che sia possibile integrare aliunde le censure con esso formulate. I requisiti di contenuto – forma previsti, a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, “dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producando in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi ed in quale fase processuale sia stato depositato”(Cass. n. 29093 del 2018).

Ne consegue che il ricorrente è tenuto, in ossequio al principio di autosufficienza ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, all’integrale trascrizione degli atti del giudizio di merito, che si assumomo rilevanti ai fini della decisione, con riferimento alle singole censure illustrate in ricorso o ad indicare esattamente nel ricorso in quale fascicolo è possibile rinvenire tali atti, ed in quale fase del giudizio di merito siano stati depositati.

Con specifico riferimento alle denunce riferite al difetto di motivazione dell’atto impositivo, questa Corte, con indirizzo condiviso, ha affermato che nel giudizio tributario, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un atto impositivo (avviso di accertamento, cartella di pagamento ecc.), è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso ne riporti “testualmente” i passi che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica “esclusivamente” in base al ricorso medesimo, essendo il predetto avviso non un atto processuale, bensì amministrativo, la cui legittimità è necessariamente integrata dalla motivazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche poste a suo fondamento (Cass. n. 8312 del 2013; Cass. n. 9536 del 2013; Cass. n. 3289 del 2014; Cass. n. 16147 del 2017). A tale onere processuale il ricorrente non risulta avere ottemperato, così impedendo al giudice di legittimità ogni valutazione (Cass. n. 2928 del 2015).

1.3. Nella fattispecie, al fine della valutazione delle censure, sarebbe stato necessario esaminare il contenuto dell’atto impugnato, a fronte dell’accertamento in fatto operato dal giudice del merito, il quale con riferimento alla voce iscritta a ruolo “sanzione pecuniaria imposta di registro”, ne ha rilevato il difetto di motivazione, evidenziando una ingiustificata discrasia tra la quantificazione della somma in esso indicata, e quella liquidata con precedente avviso di accertamento presupposto.

A tale fine, in ossequio al principio di autosufficienza, il ricorrente era tenuto a riportare in ricorso il contenuto di tale avviso di accertamento, oltre a quello della cartella di pagamento, proprio per consentire a questa Corte di valutare la corrispondenza del contenuto dell’atto impugnato a quanto asserito nel presente ricorso.

Sempre in tema di autosufficienza, questa Corte ha, altresì, precisato che: “l’adempimento dell’obbligo di specifica indicazione degli atti e dei documenti posti a fondamento del ricorso di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, previsto a pena di inammissibilità, impone quanto meno che gli stessi risultino da una elencazione contenuta nell’atto, non essendo a tale fine sufficiente la presenza di un indice nel fascicolo di parte” (Cass. n. 23452 del 2017). Orbene, non risulta neppure che nella elencazione contenuta in calce al ricorso siano stati indicati, come allegato, gli atti impositivi necessari per la valutazione delle censure proposte.

3. In definitiva, il ricorso va rigettato in ragione dell’inammissibilità del motivo. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte soccombente al rimborso delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 4.100,00 per compensi, oltre spese forfetarie ed accessori di egge. Ai sensi del D.P.R. n. 1151 del 1992, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il ver-amento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo i contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto. (Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).

Così deciso, in Roma, il 5 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2020

 

 

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