Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23854 del 11/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 11/10/2017, (ud. 16/05/2017, dep.11/10/2017),  n. 23854

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18683-2012 proposto da:

ITALTRANS S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE REGINA MARGHERITA 290,

presso lo studio dell’avvocato CARLO PONZANO, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato GIANFRANCO CECI;

– ricorrenti –

e contro

S.S.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1202/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 20/01/2012 R.G.N. 1120/2008;

ORDINANZA pronunciata in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c..

Fatto

FATTO E DIRITTO

LA CORTE:

ESAMINATI gli atti e sentito il consigliere relatore dr. Federico De Gregorio;

RILEVATO che ITALTRANS S.p.a. con ricorso notificato il 19 luglio 2012 ha impugnato la sentenza n. 1202 in data 27 ottobre 2011 – 20 gennaio 2012, con la quale la Corte d’Appello di MILANO aveva accolto, per quanto di ragione, il gravame interposto dall’attore S.S., autista alle dipendenze della società, condannando per l’effetto quest’ultima al pagamento della somma di 2302,04 Euro, oltre accessori, dalle singole scadenze mensili (da novembre 2002 a maggio 2004), a titolo di lavoro straordinario, certamente non retribuito, perchè non incluso nell’indennità dí trasferta erogata solo per le eccedenze di orario riconosciuto dalla società e posta quindi già in busta paga, in relazione, all’attività di carico – scaríco merci, specificamente dedotta e ritenuta provata in base alle indicate testimonianze, nelle sedi di destinazione del trasporto, in particolare in altri supermercati BENNET come anche presso la sede di (OMISSIS), centro di distribuzione della BENNET, abituale posto di lavoro dello S., attività supplementare da considerarsi svolta comunque in eccedenza rispetto all’orario di lavoro normale;

che quest’ultimo risulta intimato;

che il ricorso per cassazione di ITALTRANS è affidato ai seguenti tre motivi:

a) omessa o insufficiente motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione alle argomentazioni svolte dalla Corte di merito circa la ritenuta prova del suddetto lavoro straordinario, con riferimento però soprattutto ad alcuni testi giudicati attendibili piuttosto che altri;

b) violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in merito all’interesse ad agire ed art. 100 c.p.c. e all’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. a carico del lavoratore, tanto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 1 – avendo il lavoratore meramente chiesto il pagamento dell’attività di carico – scarico, vietata e non retribuita, utilizzando quale parametro l’importo relativo alla retribuzione oraria prevista dal c.c.n.l., applicabile allo S. – e non ad un facchino, certamente inferiore – quando in realtà il predetto era stato già retribuito per tale attività (non rientrante nel lavoro straordinario), trattandosi di rapporto di lavoro discontinuo ex art. 11 bis del c.c.n.l. e senza aver provato alcun danno ulteriore o chiesto la liquidazione di un indennizzo, con conseguente difetto d’interesse ad agire, così come già sul punto riconosciuto in prime cure, allorchè, all’esito di c.t.u., era emerso che la retribuzione dovuta per straordinari ammontava pressochè allo stesso importo dell’indennità di trasferta, la quale però comportava un risultato più favorevole al lavoratore, in quanto non soggetta alle trattenute di legge fino ad un massimo di 46,48 Euro, donde la mancanza d’interesse ad agire, laddove poi pur ammettendo la prestazione come continua ex art. 11 c.c.n.l. e computando le ore di straordinario a norma dell’art. 18 dello stesso contratto collettivo, le relative prestazioni sarebbero state comunque retribuite in misura non superiore a quella già percepita dal lavoratore, calcolata con il sistema forfettario dell’indennità di trasferta, come dimostrato dal ctu richiamandosi la sentenza di primo grado; d’altro canto, risultava violato l’art. 2697 c.c., laddove occorreva perciò dimostrare il numero delle ore effettivamente svolte, senza che eventuali, ma non decisive ammissioni di parte datoriale, comportassero l’inversione dell’onere probatorio, trattandosi di lavoro discontinuo. L’attore, peraltro, non aveva fornito quella prova richiesta dalla giurisprudenza (citandosi Cass. lav. n. 4886/2000), volta a dimostrare i tempi di lavoro effettivo, o meglio la precisa scansione temporale delle attività e delle pause, tra cui quelli dedicati all’attività di carico/scarico;

c) violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in merito all’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, atteso che l’attore aveva espressamente qualificato come “compenso” la richiesta di pagamento per l’asserita attività di carico/scarico, però non indicandola quale indennità o risarcimento da usura psicofisica o in altro modo ancora; ne derivava il vizio di ultrapetizione da parte della Corte distrettuale, che invece aveva riconosciuto la pretesa in via equitativa determinando l’anzidetta attività supplementare in ragione di 45 minuti al giorno senza l’utilizzo di criteri oggettivi e senza distinguere in alcun modo la presenza o meno di cooperative di facchinaggio destinate alla suddetta attività presso i luoghi di destinazione del trasporto, piuttosto che la portata dell’automezzo condotto ed il conseguente tempo necessario per il compimento di tale attività.

VISTI gli avvisi comunicati alle parti, nonchè al P.M. in sede per l’odierna udienza e rilevato che non risultano, rispettivamente, depositate memorie nè requisitoria.

CONSIDERATO:

che le anzidette doglianze vanno disattese in forza delle seguenti considerazioni;

che, in particolare, con il primo motivo la ricorrente tende in effetti a sovvertire, inammissibilmente in questa sede di legittimità, quanto motivatamente acclarato e ritenuto in punto di fatto dal giudice di merito, circa l’avvenuto riconoscimento di prestazione lavorativa ulteriore, rispetto a quella dovuta, che però non trovava riscontro in alcun specifico corrispettivo, donde il diritto alla correlativa retribuzione;

che, invero, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza, impugnata con ricorso per cassazione, conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. sez. un. civ. n. 13045 del 27/12/1997). In particolare, alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (Cass. 3 civ. n. 20322 del 20/10/2005, conformi Cass. n. 2222 e n. 12467 del 2003, n. 7073 del 28/03/2006, n. 12362 del 24/05/2006, n. 11039 del 12/05/2006, n. 6264 del 21/03/2006, n. 4001 del 23/02/2006, n. 1120 del 20/01/2006, nonchè n. 15805 del 28/07/2005, n. 11936 del 2003 e n. 15693 del 2004.

V. in senso analogo inoltre Cass. 1 civ. n. 1754 del 26/01/2007, Cass. lav. n. 15489 del g. 11/07/2007 conformi Cass. n. 91 del 07/01/2014, n. 5024 del 2012, n. 18119 del 02/07/2008, n. 23929 del 19/11/2007 – Cass. lav. n. 6288 del 18/03/2011, Cass. sez. un. civ. n. 24148 del 25/10/2013, Cass. 3 civ. n. 17037 del 20/08/2015, nonchè Cass. lav. n. 25608 del 14/11/2013 conforme Cass. n. 14973/2006);

che il motivo appare in parte oscuro per la sua poco chiara esposizione (contrariamente alla completezza, ancorchè sintetica, richiesta a pena d’inammissibilità ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6) ed in parte inconferente, atteso che l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c. va comunque considerato in astratto con riferimento alla pretesa vantata da chi agisce in giudizio, perciò indipendentemente dal risultato concreto raggiungibile, mentre, quanto all’art. 2697 c.c., tale norma disciplina unicamente l’onere probatorio, secondo le regole ivi fissate, e non già il merito della valutazione operata dal giudice adito all’esito degli elementi probatori, una volta comunque acquisiti al processo, perciò anche a prescindere dalla loro provenienza (v. Cass. lav. n. 13485 del 13/06/2014: l’accertamento dell’interesse ad agire, inteso quale esigenza di provocare l’intervento degli organi giurisdizionali per conseguire la tutela di un diritto o di una situazione giuridica, deve compiersi con riguardo all’utilità del provvedimento giudiziale richiesto rispetto alla lesione denunziata, prescindendo da ogni indagine sul merito della controversia e dal suo prevedibile esito. Conformi Cass. 2 civ. n. 3060 del 04/03/2002, nonchè Cass. nn. 7709 e 11319 del 1990, 7319 e 10708 del 1993. Cfr. altresì Cass. lav. n. 10036 del 15/05/2015, secondo cui la valutazione dell’interesse ad agire deve essere effettuata con riguardo all’utilità del provvedimento richiesto rispetto alla lesione denunciata, non rilevando la valutazione delle diverse, ed eventualmente maggiori, utilità di cui l’attore potrebbe beneficiare in forza di posizioni giuridiche soggettive alternative a quella fatta valere.

Cfr. inoltre, quanto al cit. art. 2697, Cass. 3 civ. n. 15107 del 17/06/2013, secondo cui mentre la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., configurabile soltanto nell’ipotesi in il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma, integra motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la censura che investe la valutazione -attività regolata, invece, dagli artt. 115 e 116 c.p.c. – può essere fatta valere ai sensi del numero 5 del medesimo art. 360 – peraltro nei limiti consentiti dalla c.d. critica vincolata ammessa dallo stesso art. 360, richiamandosi sul punto quanto già osservato a proposito del disatteso primo motivo.

V. altresì Cass. lav. n. 21909 del 25/09/2013: il principio di acquisizione probatoria – che comporta l’impossibilità per le parti di disporre degli effetti delle prove ritualmente assunte, le quali possono giovare o nuocere all’una o all’altra parte indipendentemente da chi le abbia dedotte – trova fondamento nel principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. e riscontro in disposizioni del codice di rito, quale l’art. 245 c.p.c., comma 2.

Il principio generale di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. deve essere contemperato con il principio di acquisizione probatoria, che trova fondamento nella costituzionalizzazione del principio del giusto processo, con la conseguenza che anche il principio dispositivo delle prove – in forza del quale ogni parte è libera di ritirare il proprio fascicolo e di omettere la restituzione del medesimo – va inteso in modo differente, traducendosi nel dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito – da qualunque parte processuale provenga con una valutazione non atomistica ma globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica, suscettibile di sindacato, in sede di legittimità, per vizi di motivazione e, ove ne ricorrano gli estremi, per scorretta applicazione delle norme riguardanti l’acquisizione della prova);

che appare inoltre del tutto inammissibile il terzo motivo, irritualmente formulato a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3, laddove, trattandosi della denuncia di un error in procedendo, la censura andava correttamente dedotta ex art. 360 c.p.c., n. 4, con riferimento all’ipotizzata violazione dell’art. 112 stesso codice, univocamente quindi allegando la nullità della impugnata pronuncia, con la precisazione altresì che il potere di qualificazione del petitum compete unicamente all’organo giudicante e non già alla parte che si limita a proporre la domanda individuando nel suo complesso il bene richiesto (arg. ex Cass. sez. un. civ. n. 17931 del 24/07/2013, secondo cui il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi, ne deriva che qualora si lamenti la violazione dei principi fissati dall’art. 112 medesimo codice, pur non essendo indispensabile che si faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 cit., il motivo tuttavia deve recare univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa violazione, dovendosi quindi dichiarare inammissibile l’impugnazione allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge.

Cfr. inoltre Cass. 6 civ. – 1, n. 118 del 07/01/2016, secondo cui il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale. Conforme Cass. 1 civ. n. 23794 del 14/11/2011. Analogamente Cass. n. 19331 del 2007 e n. 3012 del 2010.

Cfr. altresì Cass. sez. un. civ. n. 27 del 21/02/2000, secondo cui nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice di merito non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo egli tener conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del medesimo, nonchè del provvedimento in concreto richiesto. In senso conforme Cass. n. 10493 del 1999.

V. pure, analogamente, Cass. lav. n. 6226 del 18/03/2014, secondo cui in tema di interpretazione della domanda giudiziale, il giudice non è condizionato dalle formali parole utilizzate dalla parte, ma deve tener conto della situazione dedotta in causa e della volontà effettiva, nonchè delle finalità che la parte intende perseguire. Parimenti, v. tra le altre Cass. 1 civ. n. 19670 del 13/09/2006, 3 civ. n. 20322 del 20/10/2005, 2 civ. n. 7783 08/06/2001, id. n. 8879 del 03/07/2000), laddove ad ogni modo nel caso di specie qui in esame non è ravvisabile alcuna effettiva ultrapetizione nella pronuncia emessa dalla Corte territoriale, in particolare rispetto alla somma richiesta di Euro 13.868,40 a titolo di compenso per i carichi e scarichi eseguiti, sia in primo che in secondo grado;

che, pertanto, il ricorso va respinto, però senza alcun provvedimento sulle relative spese, nonostante la soccombenza, stante la mancata costituzione dello S., qui rimasto intimato senza svolgere alcuna difesa in suo favore.

PQM

 

la Corte RIGETTA il ricorso.

Così deciso in Roma, il 16 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2017

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