Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23849 del 02/09/2021

Cassazione civile sez. III, 02/09/2021, (ud. 14/07/2021, dep. 02/09/2021), n.23849

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GAETANO Raffaele – Presidente –

Dott. FRASCA Antonio – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Conigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso principale 22772-2018 proposto da:

REPUBBLICA ITALIANA, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

D.P.A., + ALTRI OMESSI;

– intimati –

Nonché sul ricorso incidentale proposto dagli intimati:

D.P.A., + ALTRI OMESSI, e, nella qualità di eredi di

N.A.G., da A.F., N.A.A.,

N.R. e N.R.E., tutti elettivamente domiciliati

in ROMA, VIA VALADIER 43, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI

ROMANO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato EGIDIO

LIZZA;

– ricorrenti incidentali –

contro

REPUBBLICA ITALIANA e PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, come

sopra rappresentati;

– intimati –

avverso la sentenza n. 411/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/07/2021 dal Consigliere Dott. CRICENTI GIUSEPPE;

dato atto che all’esito della discussione il Presidente ha designato

se stesso alla stesura della presente a norma dell’art. 276 c.p.c.,

u.c.;

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

1. La Repubblica Italiana, rappresentata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, ricorre avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma, emessa il 20.1.2018 con cui è stato riconosciuto l’indennizzo per il periodo di specializzazione ai medici intimati, all’epoca specializzandi, che, con citazione del 2011, avevano agito in giudizio per il riconoscimento di tale diritto.

1.1. La vicenda dei medici contro i quali è proposto il ricorso ricorrenti si e’, più in particolare, così sviluppata:

a) essi adivano dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, con ricorso del 19 febbraio 1992, il Ministero della Sanità, il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica, il Ministero del tesoro, la Presidenza del Consiglio dei ministri, l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici, chiedendo l’annullamento del D.M. Ministero della Sanità 17 dicembre 1991, emesso di concerto con il Ministero dell’Università e quello del Tesoro, con cui era stato determinato il numero dei medici specializzandi destinatari del nuovo regime giuridico emergente dalla L. n. 428 del 190 e dal D.Lgs. n. 257 del 1991, dispositivi della tardiva attuazione delle direttive n. 75/363/CEE; b) del decreto del Ministero per la Ricerca Scientifica e Tecnologica 28 dicembre 1991, con cui si era provveduto all’assegnazione dei posti nelle scuole di specializzazione della Repubblica Italiana; c) di ogni altro atto lesivo emanato nell’adempimento della normativa comunitaria;

b) a sostegno del ricorso i medici facevano valere il fatto che la tardiva disciplina attuativa della normativa comunitaria li aveva esclusi dai benefici previsti nonostante che essi avessero frequentato i corsi di specializzazione in condizioni simili a quelle dei colleghi per cui essi operavano;

c) con sentenza n. 601 del 1993 il t.a.r. accoglieva il ricorso, rilevando che la normativa comunitaria tardivamente attuata non consentiva di distinguere i medici che avevano frequentato al momento del tardivo adempimento e quelli frequentanti dopo di esso, con conseguente illegittimità dei decreti interministeriali impugnati che al D.Lgs. n. 257 del 1991 avevano dato esecuzione;

d) il Consiglio di Stato, con sentenza n. 735 del 1994 rigettava l’appello contro la sentenza del t.a.r. e le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 7140 del 1996 rigettavano il ricorso per motivi di giurisdizione contro la sentenza del Consiglio di Stato;

e) al dichiarato scopo di dare attuazione al giudicato così formatosi sulla sentenza del t.a.r. e su altre sentenze similari dello stesso t.a.r. Lazio indicate nominatim, lo Stato Italiano emanava la L. n. 370 del 1999, art. 11, dettando in esso le disposizioni che dai medici destinatari dei giudicati favorevoli dovevano osservarsi per chiedere l’attuazione del giudicato, prevedendo una serie di presupposti e un termine decadenziale per attivarsi da fissarsi con decreto ministeriale, che veniva poi emanato in data 14 febbraio 2000;

f) avverso di esso i medici qui intimati proponevano distinti ricorsi al t.a.r. Lazio in data 25 e 26 maggio 2000, iscritti ai nn. 9581 e 9589 del 2000, deducendo: fi) l’illegittimità del D.M. per avere previsto un termine decadenziale di appena 90 giorni per far valere i diritti di derivazione comunitaria, là dove il termine operante sarebbe stato prescrizionale e di dieci anni a sensi dell’art. 2946 c.c.; f2) la violazione del giudicato e la violazione dei diritti nascenti direttamente dall’obbligo della retribuzione alle direttive comunitarie, nonché delle disposizioni costituzionali degli artt. 3 e 97 e dell’art. 1223 c.c., in quanto, non avendo i ricorrenti all’epoca della specializzazione alcun sussidio economico, il condizionamento del riconoscimento di quanto previsto dalla legge al fatto di non lavorare altrimenti, non considerava che essi non avrebbero potuto mantenersi agli studi se non lavorando seppure part-time e determinava una disparità di trattamento rispetto a chi si trovava in condizioni economiche favorevoli rispetto a chi non poteva mantenersi agli studi senza lavorare; f3) la violazione dell’art. 1223 c.c., anche in ragione della determinazione in lire 13 milioni per anno del dovuto anziché nell’importo corrispondente a ciò che aveva invece riconosciuto il D.Lgs. n. 257 del 1991;

g) nel corso dei due giudizi amministrativi il Tar emetteva due ordinanze, l’una in data 12 gennaio e l’altra in data 22 Marzo 2004, con le quali riteneva: g1) infondato il primo motivo di gravame non apparendo né esiguo né illegittimo il termine decadenziale previsto per la presentazione della documentazione delle domande di corresponsione della borsa di studio; g2) infondato il secondo motivo perché la L. n. 370 del 1999, art. 11 attuativo dei giudicati favorevoli ottenuti dai medici specializzanti aveva correttamente stabilito per l’accesso alla borsa di studio le medesime condizioni generali previste dal D.Lgs. n. 257 del 1991, ivi compresa quella dell’inibizione del riconoscimento della somma prevista nel caso di svolgimento di qualsiasi attività libero professionale; g3) infondate le censure circa l’importo della borsa di studio in Lire 13.000.000;

h) nel contempo il Tar Lazio disponeva con dette ordinanze la rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della L. n. 370 del 1999, art. 11, in relazione alla mancata assegnazione del punteggio attribuito ai titoli di specializzazione precomunitari;

i) la Corte costituzionale, con ordinanza n. 269 del 2005 dichiarava inammissibile la questione e i ricorrenti, in assenza della fissazione di udienza da parte del giudice amministrativo, formulavano al Tar del Lazio nuove istanze di fissazione di udienza in data 21 novembre 2007, ma i ricorsi erano dichiarati estinti per perenzione con i Decreti n. 29.617 e n. 29.806 del 2010: per quello che si evince dal tenore dei decreti, prodotti dalle Amministrazioni, l’estinzione risulta, peraltro, dichiarata ai sensi della L. n. 205 del 2000, art. 9, cioè per mancata proposizione dell’istanza di fissazione di udienza a norma del comma 2 di quella norma e senza alcun riferimento all’istanza del novembre 2007;

l) a seguito del ricordato complessivo svolgimento della vicenda, i medici qui intimati, anche in esito alla sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite numero 9147 del 2009, che qualificava la fattispecie occorsa come responsabilità dello Stato per mancata tempestiva trasposizione di direttive comunitarie da far valere dinanzi al giudice civile per il ristoro dei danni in conseguenza subiti da soggetti cui le direttive avessero riconosciuto una posizione giuridica soggettiva tutelabile, introducevano l’azione di cui è processo, che veniva decisa dal Tribunale di Roma con sentenza n. 18820 del 2014, la quale, accertata la responsabilità dello Stato italiano per il risarcimento per il ritardata attuazione delle direttive comunitarie e riconosceva il diritto al risarcimento del danno patito, ragguagliandolo a quanto previsto dalla L. n. 370 del 1999 e condannando al pagamento in favore degli attori della somma di 6.714,00 per ogni anno del corso di specializzazione;

m) i medici proponevano appello sul quantum e il G. anche con riferimento al mancato riconoscimento di una somma per una specializzazione, mentre l’Amministrazione proponeva separato appello chiedendo la declaratoria della prescrizione.

2. La corte territoriale, riuniti i separati appelli, ha rigettato l’appello dell’Amministrazione, disattendendo l’eccezione di prescrizione ed ha accolto parzialmente quello dei medici, peraltro ravvisando la legittimazione sostanziale della sola Repubblica Italiana in persona della Presidenza del Consiglio dei ministri.

3. Al ricorso contro la decisione di appello che propone un unico motivo, hanno resistito con controricorso i medici indicati in epigrafe come intimati (e per il N. gli eredi colà indicati), ad eccezione della G. e del M., che non hanno svolto attività difensiva.

Nel controricorso è stato svolto ricorso incidentale condizionato sulla base di due motivi.

3. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 1, e, in vista di essa, i ricorrenti incidentali hanno depositato istanza rivolta al Primo Presidente per la rimessione della decisione alle Sezioni Unite.

Il Primo Presidente, sul rilievo che sulle questioni oggetto del ricorso non sussistevano allo stato contrasti e che era opportuno rimettere la decisione a questa Sezione, ha rigettato l’istanza.

4. In prossimità dell’adunanza i ricorrenti incidentali hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

1. Con l’unico motivo di ricorso si fa valere violazione degli artt. 1173,2043,2934,2935 e 2945,2946 e 2947 c.c..

Per meglio intendere il motivo giova riassumere la ratio decidendi.

2. La Corte di Appello ha escluso la prescrizione del diritto assumendo che se è vero che il giudizio davanti al Tar, la cui pendenza avrebbe potuto sospenderne fino a che è durato il corso della prescrizione, è stato dichiarato perento, e se è vero che in caso di estinzione del giudizio non si produce l’effetto sospensivo (o interruttivo permanente), è pur vero che però sopravvivono, quanto alla incidenza sulla prescrizione, i provvedimenti che definiscono in parte il giudizio (art. 2945 c.c. e art. 310 c.p.c.), ossia: la perenzione del processo travolge l’effetto sospensivo, legato alla sua pendenza, ma non travolge eventuali decisioni emesse nel frattempo, la cui efficacia interruttiva è fatta salva. Nella fattispecie, nel corso del giudizio amministrativo è intervenuta la decisione della Corte Costituzionale che, secondo la corte territoriale, sarebbe equiparabile ad un atto che definisce in parte il giudizio, avendo, per l’appunto, definito una questione incidentale ad esso. Ne deriverebbe la conseguenza che quella ordinanza avrebbe avuto effetto interruttivo della prescrizione, ed essendo stata emessa nel 2005, costituirebbe nuovo dies a quo della prescrizione decennale, non scaduta dunque quando, nel 2011, è stata notificata la citazione davanti all’a.g.o..

2.1. Inoltre, secondo la Corte di Appello, che in tal modo ha enunciato una seconda autonoma motivazione idonea, a suo avviso, al rigetto dell’eccezione di prescrizione, l’atto con cui, nel 2007, i medici hanno fatto istanza di fissazione udienza (cosiddetta istanza di prelievo) sarebbe stato comunque, a sua volta, idoneo ad interrompere la prescrizione, in quanto manifestante la volontà di far valere il diritto, a poco rilevando che non sia stato direttamente rivolto al debitore, ben potendo quest’ultimo averne conoscenza in quanto costituito in giudizio mediante difensore.

2.2. La Presidenza del Consiglio ha contestato queste argomentazioni e sostenuto con il motivo di ricorso che, da un lato, la decisione della Corte Costituzionale non sarebbe sopravvissuta all’estinzione del processo amministrativo non potendo costituire provvedimento che definisce parzialmente il giudizio; per altro verso che l’istanza di prelievo non sarebbe equiparabile ad un atto che interrompe la prescrizione, sia per la sua destinazione che per il contenuto proprio.

3. Con il primo motivo di ricorso incidentale condizionato i resistenti prospettano “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e si dolgono che la corte capitolina avrebbe omesso di considerare la loro prospettazione difensiva contro l’eccezione di prescrizione, basata sull’invocazione delle due ordinanze del t.a.r. decisive di questioni inerenti il merito, cui a loro avviso si doveva attribuire il valore di decisioni parziali, come tali idonee a far decorrere u nuovo termie di prescrizione, anche ove fosse venuto meno l’effetto sospensivo ricollegato all’introduzione del giudizio amministrativo.

Con il secondo motivo si sostiene che, riguardo al diritto fatto valere, il corso della prescrizione non sarebbe mai iniziato, in quanto perdurerebbe l’inadempimento dello Stato Italiano alle note direttive.

4. Ritiene il Collegio che l’esame del primo motivo del ricorso principale, al di là della novità delle due questioni che esso pone, quella sulla non riconducibilità della pronuncia della Corte Costituzionale sulla questione di legittimità ad una “sentenza” parziale e quella della idoneità della c.d. istanza di prelievo ad assumere il valore di atto interruttivo del corso della prescrizione, evidenzi una problematica che potrebbe, in ipotesi, giustificare la decisione del ricorso principale e, dunque, l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato, sulla base di una correzione della motivazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

La questione che potrebbe giustificare la correzione, come, del resto, quelle comunque agitate dal motivo, sembrano connotate dalla particolare importanza per le ragioni che si verranno indicate e che suggeriscono di rimettere gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della trattazione alle Sezioni Unite.

5. Premessa della decisione impugnata, ancorché non motivata, è certamente quella che l’introduzione dei due giudizi amministrativi dichiarati perenti avesse determinato l’interruzione e sospensione (c.d. interruzione permanente) del corso della prescrizione riguardo al(lo stesso) diritto (soggettivo) poi introdotto davanti al giudice ordinario dai medici a seguito dei decreti di perenzione. Sulla base di tale premessa, la decisione impugnata ha ritenuto che l’esito dei due giudizi amministrativi, in quanto risoltosi con un provvedimento di c.d. perenzione da parte del t.a.r., abbia fatto venire meno l’effetto sospensivo, lasciando efficace soltanto il primo, quello interruttivo istantaneo, alla stregua dell’art. 2945 c.c., comma 3.

La corte capitolina ha, poi, escluso che il diritto fosse stato azionato davanti al giudice ordinario dopo la perenzione dei giudizi amministrativi risultasse prescritto a far tempo da quell’atto interruttivo, dando rilievo in via autonoma sia all’esistenza della pronuncia della Corte Costituzionale come riconducibile all’art. 310 c.p.c., comma 2, sia all’istanza di prelievo, come atti idonei a giustificare il decorso di un nuovo termine di prescrizione e, dunque, integratori di nuovi atti interruttivi della prescrizione.

Ora, è palese che la decisione impugnata abbia enunciato queste due distinte rationes decidendi nella supposizione, che sopra si è definita premessa, che il “diritto”, rectius la situazione giuridica soggettiva, azionata prima davanti all’a.g.a. e poi davanti all’a.g.o., fosse la stessa.

Se tale premessa fosse errata, è evidente che il ragionamento per cui la perenzione dei giudizi amministrativi andrebbe trattata come fenomeno estintivo di un giudizio incidente sulla salvezza della situazione azionata successivamente davanti all’a.g.o., risulterebbe automaticamente privo di un presupposto ed imporrebbe di ricercare in iure altra motivazione sulle conseguenze della sorte del giudizio amministrativo rispetto al maturare della prescrizione della situazione fatta valere con l’introduzione del giudizio dinanzi al giudice ordinario.

E’ proprio la ricerca di tale motivazione che, secondo il Collegio, potrebbe portare a pervenire o ad una correzione della motivazione della decisione impugnata, giustificativa di un mancato accoglimento del ricorso principale o, viceversa, rivelarsi comunque ininfluente, il che imporrebbe l’esame delle questioni somministrate dal motivo.

6. Mette conto di rilevare che tanto la premessa quanto la conseguenza di cui si è detto sono state ritenute dalla sentenza impugnata senza una espressa argomentazione e spiegazione delle ragioni che fonderebbero l’una e l’altra e soprattutto senza che emerga una situazione in cui vi sia stato dibattito su tali ragioni nel giudizio di merito.

Trattandosi, tuttavia, di premessa e conseguenza fondate su mere quaestiones iuris, cioè sull’individuazione dell’esatto diritto applicabile alla vicenda, scrutinabili in questa sede senza necessità di accertamenti di fatto, il Collegio rileva che parrebbero potersi esaminate d’ufficio, appunto nell’àmbito del potere di cui all’art. 384 c.p.c., u.c., che, com’e’ noto, è espressione della precipua funzione della Corte di Cassazione di individuare l’esatto diritto applicabile alla vicenda processuale.

La valutazione della ricorrenza di una situazione giustificativa della correzione sembra da rimettere alle Sezioni Unite, in quanto involge una questione che, al di là della specificità della vicenda di cui è processo e dell’assetto del riparto della giurisdizione fra giudice ordinario ed amministrativo in cui si è collocata, pare rilevante e, dunque, di significato monofilattico, anche nell’attuale assetto del riparto fra la giurisdizione ordinaria e la giurisdizione amministrativa. Si tratta, cioè di questione che è suscettibile di ripresentarsi e che, coinvolgendo il problema della salvezza dell’attività processuale espletata davanti ad un plesso giurisdizionale ai fini della preservazione della situazione giuridica, suggerisce per ciò solo l’opportunità di un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Corte.

Inoltre, con riferimento alla specificità della vicenda, il Collegio rileva che l’opportunità di un intervento delle Sezioni Unite si palesa anche perché potrebbero essere pendenti nel merito altre controversie similari, cioè ricollegate alla vicenda della L. n. 370 del 1999 siccome destinata ad attuare altri giudicati amministrativi oltre quelli di cui è causa (peraltro lo stesso giudicato è oggetto di altro ricorso chiamato nell’odierna adunanza e relativo a decisione della corte territoriale romana di segno opposto), ed esse, una volta pervenute dinanzi alla Corte potrebbero essere anche tabellarmente, come nel caso della loro della introduzione nel merito con il rito del lavoro, di spettanza di altra sezione, con il rischio di decisioni non uniformi (già, com’e’ noto, verificatosi in due occasioni, che hanno costituito fonte di due rimessioni alla C.G.U.E.).

Il Collegio rileva, altresì, che le ragioni che si verranno esponendo a giustificazione della rimessione al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite non possono considerarsi in alcun modo espressive di un dissenso da quanto osservò il Primo Presidente nel decreto di rigetto dell’istanza di rimessione proposta dai ricorrenti, atteso che esso venne motivato con l’assenza di contrasti di giurisprudenza e richiamando precedenti delle Sezioni Unite concernenti la materia di cui al quarto motivo di ricorso, mentre in questa sede si prospettano invece questioni di particolare importanza somministrate, come si è detto, dai primi tre motivi di ricorso e, peraltro, sulla base dell’esercizio del potere della Corte di rilevare questioni di diritto potenzialmente dirimenti nei sensi e alle condizioni di cui si è detto.

7. Peraltro, prima di indicare le ragioni che parrebbero imporre la verifica della premessa e della conseguenza ai fini dell’ipotetica correzione della motivazione, il Collegio ritiene, comunque, che un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite si giustificherebbe pur rimanendo nel solco di esse, cioè che la situazione giuridica soggettiva fatta valere dai ricorrenti nel processo amministrativo perentosi fosse quella stessa fatta poi valere dinanzi al giudice ordinario, cioè la situazione di diritto al risarcimento del danno da inadempimento delle note direttive comunitarie siccome scolpita da Cass., Sez. Un., n. 9047 del 2009 e poi precisata dalle sentenze nn. 10813, 10814, 10815 e 10816 del 2011 e ribadita da un costante orientamento giurisprudenziale.

Dunque, un diritto soggettivo.

Se si condivide l’identificazione fra situazione fatta valere davanti al giudice amministrativo e situazione poi fatta valere davanti al giudice ordinario e la qualificazione appunto di essa come diritto soggettivo, la prima questione di particolare importanza che si prospetta è se, proposta davanti al giudice amministrativo una domanda diretta a tutelare un diritto soggettivo (il che, naturalmente, dovrebbe supporre l’invocazione – a torto o a ragione – della ricorrenza di una fattispecie di giurisdizione esclusiva di quel plesso giurisdizionale), la declaratoria della perenzione del processo amministrativo ai sensi della disciplina del processo amministrativo si debba considerare come un fenomeno riconducibile all’art. 2945 c.c., comma 3, dovendosi intendere l’istituto della perenzione come analogo a quello indicato dalla norma nella c.d. estinzione del processo civile (com’e’ noto riconducibile alle due ipotesi dell’estinzione per rinuncia e dell’estinzione per inattività processuale).

Nel regime del processo amministrativo secondo la disciplina del processo amministrativo di cui al Codice del Processo Amministrativo, la risposta all’interrogativo potrebbe sembrare agevole in senso positivo: la norma dell’art. 35 c.p.a., comma 2, lett. b), prevede che la perenzione (disciplinata negli artt. 81 e 83) dia luogo all’estinzione del processo e, dunque, ancorché l’art. 83, nel disciplinare gli “effetti dell’estinzione” in realtà non li indichi, valorizzando la qualificazione nel detto art. 35 della perenzione come fonte di estinzione del processo e considerando il rinvio c.d. esterno dell’art. 39 c.p.c., si potrebbe ipotizzare ragionevolmente che in forza di esso sia richiamata pure la disciplina del codice di rito e, dunque, l’art. 310 c.p.c., di modo che la soggezione del diritto soggettivo fatto valere alla prescrizione del codice civile giustificherebbe l’applicazione dell’art. 2945, in quanto richiamante l’istituto dell’estinzione.

Naturalmente questa conclusione sembrerebbe giustificata con riferimento al caso in cui fosse fatto valere dinanzi al giudice amministrativo un diritto soggettivo, dato che il fenomeno della prescrizione nel Codice Civile e, dunque, la disciplina dell’art. 2945 concerne i diritti soggettivi.

Nel presente giudizio, tuttavia, l’introduzione dei due precedenti giudizi amministrativi perentisi avvenne sotto la vigenza della L. n. 1034 del 1971, che dettava sulla perenzione una scarna disposizione generale nell’art. 25, poi abrogato dal c.p.a. nel 2010: essa si limitava a disporre che “I ricorsi si considerano abbandonati se nel corso di due anni non sia compiuto alcun atto di procedura”.

Nel presente giudizio, tuttavia, l’introduzione dei due precedenti giudizi amministrativi perentisi avvenne sotto la vigenza della L. n. 1034 del 1971, che dettava sulla perenzione una scarna disposizione nell’art. 25, poi abrogato dal c.p.a. nel 2010: essa si limitava a disporre che “I ricorsi si considerano abbandonati se nel corso di due anni non sia compiuto alcun atto di procedura”.

I decreti di perenzione sono stati, peraltro, pronunciati nel 2010 sulla base della L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 2 e senza alcun riferimento all’istanza del 2007, imputando ai medici il mancato deposito dell’istanza di fissazione dell’udienza dopo dieci anni dal deposito dei ricorsi e, dunque, in forza di una fattispecie di perenzione individuata da detta legge.

Non è dubitabile che siano stati emessi sulla base del regime previgente all’entrata in vigore del c.p.a., sebbene in base alla citata legge.

Ebbene, in presenza della scarna disposizione dell’art. 25 citato, nel cui àmbito comunque si iscriveva la fattispecie dell’art. 9, comma 2, si tratta di verificare se, come ha ritenuto senza motivare la corte di appello, il fenomeno della perenzione si prestasse ad essere regolato ad instar dell’estinzione disciplinata dal codice di procedura civile e, dunque, fosse giustificata l’applicazione dell’art. 2945 c.p.c., comma 3. Comunque, se si ritenesse la fattispecie dell’art. 9, comma 2, una fattispecie speciale, l’interrogativo appena indicato sarebbe comunque ad essa riferibile.

Al riguardo è utile ricordare che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza del 22 aprile 1983 n. 6 ebbe ad attribuire alla perenzione solo l’effetto di comportare l’automatica decadenza del diritto di chiedere e ottenere qualsiasi pronuncia in rito e nel merito, del giudice ammnistrativo.

Sembrerebbe, dunque, opportuno che le Sezioni Unite chiariscano se, allorquando – a ragione, ma anche a torto – una situazione di diritto soggettivo fosse stata fatta valere dinanzi al giudice amministrativo, la perenzione del processo amministrativo nel regime anteriore al c.p.a. e nella vigenza del ricordato art. 25 come norma generale o comunque in relazione alla fattispecie della L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 2, (considerata come norma speciale), fosse riconducibile al fenomeno dell’estinzione del processo disciplinata dal codice di procedura civile e, quindi, ciò giustificasse la conseguenza applicativa dell’art. 2945 c.c., comma 3, con la conseguenza della conservazione del solo effetto interruttivo istantaneo del corso della prescrizione e non anche del c.d. effetto interruttivo permanente o sospensivo.

In pratica, sembra opportuno che si chiarisca se l’istituto della perenzione, nella vigenza dell’art. 25 citato e comunque di quella ipoteticamente speciale dell’art. 9, comma 2, era riconducibile alla disciplina indicata dall’art. 2945 c.c., comma 3, oppure no, il che potrebbe essere giustificato sia dalla carenza di indici normativi precisi, sia dalla rispondenza della perenzione come allora disciplinata ad esigenze tipiche del processo amministrativo, siccome sembrerebbe suggerito dal citato arresto dell’Adunanza Plenaria.

E’ palese che una risposta in senso negativo renderebbe illegittima la sentenza impugnata per avere essa ritenuto il contrario.

Con specifico riferimento alla ipotetica specialità della fattispecie dell’art. 9, comma 2, appare ulteriormente opportuno che si risponda al detto interrogativo, atteso che il legislatore introdusse quella norma con riferimento a processi pendenti in una situazione di evoluzione normativa sull’assetto del riparto di giurisdizione, che suggeriva la sollecitazione alle parti dei processi pendenti all’attività di fissazione dell’udienza anche in ragione di eventuali riflessioni su quella evoluzione.

Il che parrebbe assegnare alla fattispecie una connotazione del tutto peculiare, con conseguenti riflessi sull’apprezzamento dell’atteggiamento delle parti.

8. Il Collegio, tuttavia, ritiene che la materia del decidere somministrata dai primi tre motivi giustifichi, in realtà, un consistente dubbio sull’esattezza della supposizione da parte della corte capitolina della identità della situazione giuridica agita davanti al giudice ordinario rispetto a quella agita con i due giudizi amministrativi perenti e, particolarmente, sulla caratterizzazione di quest’ultima come diritto soggettivo.

Tale dubbio emerge per le ragioni che di seguito si indicano.

Occorre considerare che i ricorrenti, allorquando introdussero davanti al giudice amministrativo il giudizio iniziato nel 1992 chiedendo l’annullamento del decreto del Ministero della Sanità del 17 dicembre 1991, attuativo della L. n. 428 del 1990 e del D.Lgs. n. 257 del 1991 e di altro decreto del Ministero per la Ricerca Scientifica e tecnologica, nonché di ogni altro atto lesivo, parrebbero aver fatto valere certamente una situazione di interesse legittimo e non una situazione di diritto soggettivo ed in particolare quella al risarcimento del danno da inadempimento dello Stato Italiano alle note direttive.

Va tenuto presente che la nota sentenza sul caso Francovich – là dove, secondo una vulgata tralaticia avrebbe configurato, peraltro in modo molto sommario, embrionale e poco percepibile, un diritto al risarcimento del danno da inadempimento di direttive comunitarie non self-executing – era da poco sopravvenuta e che, in realtà, un simile diritto era stato effettivamente delineato ed aveva assunto, in virtù dell’efficacia precettiva del dictum del giudice comunitario, il valore di diritto comunitario da osservarsi dagli Stati Membri, soltanto dalla sentenza Basserie du Pescher, come rilevato dalle sentenze gemelle nn. 10813, 10814, 10815 e 10816 del 2011 di questa Sezione nell’affrontare il problema del dies a quo del decorso del termine prescrizionale del diritto risarcitorio.

Comunque, se anche si accettasse l’idea che già per effetto della sentenza Francovich il diritto al risarcimento da inadempimento di direttive comunitarie non self-executing fosse divenuto, sotto il profilo normativo configurabile (e nella specie si fosse concretizzato a favore dei ricorrenti – secondo la giurisprudenza inaugurata, dopo Cass., Sez. Un., n. 9147 del 2009, dalle citate sentenze gemelle – già a seguito dell’inesatto e tardivo adempimento delle direttive con il D.Lgs. n. 257 del 1991 che non contemplava le posizioni dei medesimi, sebbene configurandosi come diritto al risarcimento da illecito “contrattuale” ad effetti permanenti, con conseguenti effetti di preservazione dal decorso della prescrizione) e che, dunque, lo fosse al momento dell’introduzione dei giudizi amministrativi nel 1992, non parrebbe revocabile in dubbio che con essi i ricorrenti, nel sistema del riparto di giurisdizione allora operante, fecero valere dinanzi al G.A. soltanto una situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo contro gli atti amministrativi impugnati, di cui si dice nell’esposizione del fatto al punto 2 della pagina 5 del ricorso e cui si è fatto riferimento nel suesposto “ritenuto”.

Detta situazione era semmai strumentale alla tutela della situazione di diritto soggettivo nascente dall’inadempimento statuale alle direttive, ma l’oggetto del giudizio amministrativo ineriva alla giurisdizione di legittimità del G.A. sulla tutela di interessi legittimi, come se fosse necessario – evidenziava la richiesta di annullamento della decretazione amministrativa.

In ogni caso tale conclusione parrebbe giustificarsi in modo indiscutibile perché, che i giudici amministrativi, con la sentenza del Tar n. 601 del 1993 (che fu uno dei giudicati cui si riferì la L. n. 370 del 1999), confermata in appello dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 735 del 1994 avessero giudicato una situazione di interesse legittimo emerge da un dato che, emergendo dalla giurisprudenza di questa Corte, il Collegio è abilitato a rilevare dai propri archivi informatici (da ultimo, ex multis, Cass. (ord.) n. 29923 del 2020): invero, ai fini della giurisdizione questa Corte a Sezioni Unite, in sede di impugnazione della sentenza del C.d.S., con la sentenza n. 7410 del 10 agosto 1996, ebbe ad accertare proprio che la situazione giuridica fatta valere nel processo amministrativo era, nella logica stessa dell’allora vigente riparto di giurisdizione, di interesse legittimo.

Basti riportare quanto le Sezioni Unite enunciarono nei paragrafi 57 della motivazione:

“5) – Il secondo mezzo – dichiaratamente e logicamente gradato al rigetto degli altri due – si articola nella denuncia d’invasione da parte del Consiglio di Stato della giurisdizione di un’autorità giudiziaria (quella ordinaria), che decide sui rapporti giuridici (e non sulle leggi) nell’ambito dell’ordinamento italiano. Individuata, come dal precedente paragrafo, la pretesa azionata dai medici istanti, risulta agevole rilevare come la stessa sia diretta alla tutela di interessi legittimi e non di diritti soggettivi. La Corte di giustizia CEE (v. sent. 23 febbraio 1994 causa 236-92, 22 giugno 1989 causa n. 103-88, 9 marzo 1978 causa n. 106-77) ha avuto modo di chiarire che in tutti i casi in cui le disposizioni delle direttive comunitarie appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere innanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato (e le relative pubbliche amministrazioni sono, del pari, tenute ad applicarle), sia che lo Stato medesimo non abbia recepito tempestivamente la direttiva nel diritto nazionale, sia che l’abbia recepita in modo inadeguato. La direttiva del Consiglio CEE 75-363 del 16 giugno 1975 (integrata dalla successiva 82-76 del 26 gennaio 1982), in particolare all’art. 2, ha imposto agli Stati membri una serie di obblighi riguardanti la formazione dei medici specialisti, elencando le condizioni essenziali (“almeno”) per il conseguimento del relativo diploma. Si tratta di principi generali e regole che, trasferiti nell’ordinamento italiano dalla L. 29 dicembre 1990, n. 428 e dal D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, richiedono – al pari delle norme comunitarie a cui tali provvedimenti normativi danno attuazione – un’attività organizzatoria, con largo margine di discrezionalità, dell’Amministrazione statale (“dovrà comunque assicurare…”) Il delineato quadro normativo configura, quindi, norme di azione, in quanto queste disciplinano nell’interesse generale l’attività amministrativa nel settore dei corsi di specializzazione dei medici, conferendo ai Ministeri competenti i poteri necessari per l’organizzazione, la programmazione e il funzionamento dei corsi, nonché per la determinazione del numero e la distribuzione degli stessi e delle borse da assegnare. In conseguenza gli istanti, impugnando i predetti provvedimenti amministrativi generali, emessi in forza delle citate norme di legge, hanno fatto valere non diritti soggettivi, ma i legittimi loro interessi al corretto uso dei poteri conferiti alla P.A. nell’interesse della generalità (v. sent. 11 novembre 1994 n. 9418). 6) – Non esclude posizioni di interesse legittimo e la loro tutela nella sede della giurisdizione generale di legittimità la diretta applicazione, nel caso in esame richiesta e operata, della normativa CEE, essendo stato già, senza contrasti, stabilito che, ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, la posizione giuridica (diritto soggettivo o interesse legittimo) dedotta dal privato contro la pubblica amministrazione in forza di norme comunitarie, va individuata e qualificata con esclusivo riferimento ai criteri dell’ordinamento giuridico interno e in base al cosiddetto “petitum sostanziale”, nulla rilevando che l’ordinamento comunitario non contempli la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi sent. S.U. 27 luglio 1993 n. 8385, 18 giugno 1981 n. 3967). 7) – Per le esposte ragioni il ricorso va integralmente respinto e dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo.”.

La posizione riconosciuta ai ricorrenti dal giudicato amministrativo formatosi sulla sentenza n. 601 del 1993 del T.a.r. era, dunque, di interesse legittimo e non di diritto soggettivo.

8.1. Ne parrebbe allora conseguire ex necesse che, allorquando la L. n. 370 del 1999, con il suo art. 11 (costituente l’unica norma del capo III rubricato “Disposizioni per l’attuazione di sentenze passate in giudicato”), dispose nel comma 1 che “Ai medici ammessi presso le università alle scuole di specializzazione in medicina dall’anno accademico 1983-1984 all’anno accademico 1990-1991, destinatari delle sentenze passate in giudicato del tribunale amministrativo regionale del Lazio (sezione I-bis), numeri 601 del 1993, 279 del 1994, 280 del 1994, 281 del 1994, 282 del 1994, 283 del 1994, tenendo conto dell’impegno orario complessivo richiesto agli specializzandi dalla normativa vigente nel periodo considerato, nonché del tempo trascorso, il Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica corrisponde per tutta la durata del corso una borsa di studio annua onnicomprensiva di Lire 13.000.000” e che “Non si dà luogo al pagamento di interessi legali e di importi per rivalutazione monetaria”, ebbe a riconoscere e determinare una situazione di interesse legittimo, ancorché con uno strumento satisfattivo, non sconosciuto alla logica dell’interesse legittimo, che, com’e’ noto, presenta anche la possibile connotazione del carattere pretensivo.

La legge, dunque, non riconobbe una situazione giuridica di diritto soggettivo, perché disse di voler dare attuazione ai giudicanti amministrativi, che avevano riconosciuto un interesse legittimo.

E’ vero che nel comma 2 si alludeva al “diritto alla corresponsione della borsa di studio” ed in relazione ad esso si demandavano accertamenti al Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica di una serie di condizioni, e nel comma 3 si stabilivano alcuni fatti ostativi e nel comma 4 si introduceva un termine decadenziale per rivolgersi al Ministero demandandone la fissazione al medesimo con potere di decretazione, ma queste previsioni, stabilendo che la situazione giuridica riconosciuta dai giudicati fosse esercitabile con l’osservanza di certe condizioni, se ve ne fosse stato bisogno, non facevano che rafforzare – parrebbe – la vocazione della legge a riconoscere solo un interesse legittimo, nel mentre il riferimento generico al “diritto” proprio per la sua genericità non era significativo e ciò proprio per la coeva determinazione di condizioni, anche a non volere considerare decisiva la dichiarata finalizzazione all’attuazione dei giudicati.

Che fosse stato riconosciuto un interesse legittimo consacrato nei giudicati amministrativi, non pare contraddetto, del resto, né dalla giurisprudenza costante (affermatasi a partire dalle già citate sentenze gemelle nn. 10813, 10814, 10815 e 10816 del 2011, avallata dalle stesse Sezioni Unite) che ravvisò nella L. n. 370 del 1999 la situazione di riconoscimento statuale definitivo dell’inadempimento alle direttive e, dunque, il momento idoneo a giustificare il decorso della prescrizione decennale per il diritto soggettivo al risarcimento avente fonte nella giurisprudenza comunitaria (a far tempo, come s’e’ ricordato, dalla sentenza Francovich o a più giusta ragione da quella Blasserie du Pescher), né dalla giurisprudenza (affermatasi sempre dalle sentenze gemelle e dalle altre emesse a seguito della stessa udienza e, soprattutto da Cass. n. 1917 del 2012) che individuò nell’ammontare indicato dalla L. n. 370 del 1999 la misura del risarcimento del danno dovuto per quell’inadempimento, spiegandone le ragioni.

8.2. Da quanto osservato parrebbe allora conseguire che, allorquando i medici, una volta intervenuta la L. n. 370 del 1999, fecero valere davanti al giudice amministrativo nel maggio del 2000 le pretese emergenti dal giudicato precedente di cui alla sentenza n. 601 del 1993 contro il Decreto Ministeriale 14 febbraio 2000, emesso ai sensi del comma 4 della legge suddetta, parimenti fecero valere sempre e soltanto una situazione di interesse legittimo, tanto più postulando l’illegittimità di quel decreto, costituente un atto amministrativo e, se si vuole, considerando comunque anche lo stato del riparto di giurisdizione dell’epoca, anteriore a quello introdotto dalla L. n. 205 del 2000.

E’ appena il caso di rilevare, d’altro canto, che la configurabilità a favore degli allora ricorrenti della posizione di diritto soggettivo al risarcimento del danno di derivazione dalla giurisprudenza comunitaria non parrebbe escludere che essi, rispetto a quanto riconosciuto dal giudicato amministrativo del 1993 ed alle modalità di attuazione disposte dalla L. n. 370 del 1999, con – come s’e’ ricordato – previsione anche del potere dell’amministrazione di dettare le norme e le condizioni di attuazione, disponessero soltanto, sia per l’oggetto di dette disposizioni attuative, sia comunque per la connotazione delle norme della legge come norme di azione regolatrici dell’operare della p.a., di una situazione di interesse legittimo pretensivo, sebbene strumentale al diritto soggettivo.

8.3. Il Collegio rileva allora che, sulla base di quanto osservato, dovrebbe allora reputarsi erronea la qualificazione come diritto soggettivo della situazione soggettiva esercitata nei giudizi amministrativi perentisi, supposta dalla corte territoriale: se la situazione esercitata era di interesse legittimo, allora gli effetti della perenzione parrebbero avere riguardato solo ed esclusivamente essa e non sembrerebbero in alcun modo direttamente riferibili alla situazione dei ricorrenti quoad diritto soggettivo, anche se – come e’, peraltro, necessario verificare, per quanto già sopra osservato – si intendesse la perenzione regolata dal ricordato la L. n. 1034 del 1971, art. 25, apparentabile all’estinzione quando davanti al giudice amministrativo veniva fatto valere un diritto soggettivo.

Sembrerebbe opportuno che le Sezioni Unite chiariscano se è così.

Nel caso di risposta positiva si dovrebbe ritenere che gli effetti della perenzione riguardarono solo una situazione di interesse legittimo strumentale a quella di diritto soggettivo e, quindi, anche a voler applicare in via analogica la disposizione dell’art. 2945 c.p.c., comma 3, sebbene riferita alla prescrizione, non concepibile per la situazione giuridica di interesse legittimo, occorrerebbe verificare se per caso gli effetti della perenzione, in quanto relativi al venir meno del processo amministrativo e dell’effetto conservativo della situazione giuridica di interesse legittimo per la sua durata, possano avere interessato, in ragione della strumentalità dell’interesse legittimo alla situazione di diritto soggettivo, anche quest’ultimo ed in che modo.

Modo che non potrebbe essere quello affermato implicitamente dalla sentenza impugnata nel presupposto che i giudizi amministrativi concernessero il diritto soggettivo poi introdotto davanti all’a.g.o..

9. Sulla base dei rilievi svolti emerge, a questo punto (sempre nell’esercizio da parte di questo Collegio del potere di correzione della motivazione), una ulteriore questione di particolare importanza su cui appare opportuno sollecitare l’intervento delle Sezioni Unite.

Essa si palesa al lume dell’evoluzione che la giurisprudenza di questa Corte ha avuto, una volta introdotto il regime della c.d. traslatio ludici, dapprima con un noto intervento della Corte costituzionale (ed anche un’altrettanto nota sentenza delle Sezioni Unite), e, quindi, con la L. n. 69 del 2009, art. 59 a proposito dell’ipotesi in cui un soggetto sia titolare sia di una situazione di interesse che rivesta il carattere di diritto soggettivo sia di una situazione che rivesta i caratteri di interesse legittimo strumentale alla tutela della prima ed eserciti la tutela giurisdizionale prima di quest’ultima davanti all’a.g.a..

Anteriormente all’introduzione del detto istituto, la giurisprudenza di questa Corte era nel senso che in vicende di configurabilità di una situazione di interesse legittimo e di diritto soggettivo, la tutela della prima dinanzi al giudice amministrativo, pur in via funzionale alla seconda, non potesse valere come atto interruttivo del corso della prescrizione applicabile al diritto soggettivo, attesa la diversità delle due situazioni: si vedano Cass. n. 3789 del 1982, secondo cui: “Con riguardo al diritto al risarcimento del danno, in conseguenza di costruzione realizzata dal vicino in violazione delle norme di edilizia, la prescrizione, che inizia a decorrere dal momento del compimento di tale costruzione, non viene interrotta per effetto del ricorso del suo titolare al giudice amministrativo, per l’annullamento della licenza edilizia conseguita dal costruttore, atteso che tale ricorso non configura Esercizio di quel diritto, ma è rivolto a tutelare una diversa posizione soggettiva, avente natura di interesse legittimo”; Cass. n. 7858 del 1997, secondo cui “Non ogni domanda giudiziale ha effetto interruttivo della prescrizione, ma solo quella con cui si chiede il riconoscimento e la tutela del diritto rispetto al quale si eccepisca la prescrizione: Pertanto non si può riconoscere effetto interruttivo della prescrizione al risarcimento del danno conseguente ad occupazione appropriativa, né al ricorso proposto al TAR per ottenere l’annullamento del decreto di esproprio e degli atti presupposti e consequenziali (facendosi, con questo valere non un diritto soggettivo, ma un interesse legittimo”.

Una volta introdotta la translatio, tuttavia, detto orientamento risulta essere stato abbandonato.

Cass., Sez. Un., n. 9040 del 2008 ebbe a statuire che: “La possibilità di agire per il risarcimento del danno ingiusto causato da atto amministrativo illegittimo senza la necessaria pregiudiziale impugnazione dell’atto lesivo, sussistente già prima che il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 35, come sostituito dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7, concentrasse nella cognizione del giudice amministrativo la tutela demolitoria e quella risarcitoria, comporta che il termine di prescrizione dell’azione di risarcimento decorre dalla data dell’illecito e non da quella del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento da parte del giudice amministrativo, non costituendo l’esistenza dell’atto amministrativo un impedimento all’esercizio dell’azione. Peraltro, la domanda di annullamento dell’atto proposta al giudice amministrativo prima della concentrazione davanti allo stesso anche della tutela risarcitoria, pur non costituendo il prodromo necessario per conseguire il risarcimento dei danni, dimostra la volontà della parte di reagire all’azione amministrativa reputata illegittima ed è idonea ad interrompere per tutta la durata di quel processo il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria proposta dinanzi al giudice ordinario, dovendosi al riguardo fare applicazione del principio, affermato da Corte Cost. n. 77 del 2007, per cui la pluralità dei giudici ha la funzione di assicurare una più adeguata risposta alla domanda di giustizia e non può risolversi in una minore effettività o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale.”.

Cass., Sez. Un., n. 25572 del 2014, a sua volta ha statuito che: “In tema di risarcimento del danno da atto amministrativo illegittimo, la domanda di annullamento dell’atto proposta al giudice amministrativo nell’assetto normativo anteriore alla L. 21 luglio 2000, n. 205, che ha concentrato presso tale giudice la tutela risarcitoria con la demolitoria esprime la volontà del danneggiato di reagire all’azione autoritativa illegittima e, quindi, interrompe per tutta la durata del processo amministrativo il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria, successivamente esercitata dinanzi al giudice ordinario”.

9.1. Il Collegio ritiene che la contemplazione della ricordata giurisprudenza sia rilevante nel caso di specie, atteso che parrebbe suggerire l’idea che l’introduzione dei giudizi amministrativi di cui ai n.r.g. 9581 e 9589 del 2000, sebbene a tutela, come s’e’ detto, di situazioni di interesse legittimo, sia stata comunque determinativa di un effetto interruttivo istantaneo e sospensivo del corso della prescrizione (decennale) della situazione di diritto soggettivo che sulla base delle emergenze della giurisprudenza comunitaria (peraltro chiarite nell’ordinamento interno ben dopo, a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 9047 del 2009) essi potevano vantare e cui erano strumentali le situazioni di interesse legittimo oggetto della L. n. 370 del 1999, e considera che ci si debba allora domandare se – nella già ricordata situazione di scarna regolamentazione della perenzione nel ricordato la L. n. 1034 del 1971, art. 25, proprio del diritto processuale amministrativo (ma parrebbe, per la verità, anche in quella attuale della disciplina della perenzione più articolata nella vigenza del Codice del Processo Amministrativo) – l’effetto sospensivo (o interruttivo permanente) per il diritto soggettivo ricollegabile all’esercizio della tutela della strumentale situazione di interesse legittimo, si conservi o meno anche nel caso in cui il giudizio amministrativo risulti “definito” con il meccanismo della perenzione, come accaduto nel caso di specie e ciò anche con riferimento alla perenzione eventualmente ritenuta “speciale” di cui alla L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 2.

Sul punto non constano precedenti della Corte e le complessive ragioni sopra indicate sembrano per il Collegio giustificare l’opportunità di un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite in proposito.

9.2. Mette conto di rilevare che il carattere strumentale della tutela dell’interesse legittimo rispetto al diritto soggettivo in situazioni come quella di cui è processo, se ha rilievo per giustificare che si conservi la situazione di diritto soggettivo frattanto che si svolge l’azione davanti al giudice amministrativo, non sembra che possa dirsi giustificazione destinata a venire meno e dunque ad essere cancellata dalla perenzione del processo amministrativo, la quale segna solo l’abbandono della tutela della situazione di interesse legittimo e – in ipotesi comunque da verificare – la sola irrilevanza dello svolgimento processuale a tutela di esso ma non pare poter rendere irrilevante che tale svolgimento fino alla pronuncia della perenzione vi sia stato e possa giustificare l’efficacia conservativa della situazione di diritto soggettivo, in ragione della strumentalità della situazione di interesse legittimo.

Si rileva ancora che l’istituto dell’estinzione del processo per come regolato dall’art. 310 c.p.c., se anche lo si ritenesse applicabile già vigente l’art. 25 ed ora nella vigenza degli artt. 81-83 del c.p.a., parrebbe doversi intendere nel senso che l’inefficacia degli atti processuali compiuti concerna appunto l’efficacia riguardo alla situazione tutelanda nel processo e, dunque, nel caso di perenzione concerna solo la situazione di interesse legittimo.

Se, dunque, fosse corretto pensare che la situazione tutelata davanti al giudice amministrativo sia stata di interesse legittimo e fosse corretta l’ipotesi appena fatta, la sentenza impugnata andrebbe corretta nella motivazione, in quanto erroneamente avrebbe ritenuto che il diritto soggettivo azionato davanti all’a.g.o. non fosse stato “salvato” dalla pendenza del giudizio amministrativo sull’interesse legittimo strumentale fino alla sua perenzione.

10. Il Collegio reputa, altresì, opportuno per le ragioni innanzi indicate – sollecitare l’intervento delle Sezioni Unite anche sulla questione della riconducibilità o meno della decisione di un incidente di costituzionalità sopravvenuta nel corso del processo alla disciplina dell’art. 310 c.p.c., nonché sulla questione dell’efficacia determinativa di una nuova interruzione del corso della prescrizione da parte della c.d. istanza di prelievo: questioni poste direttamente dal primo motivo di ricorso principale.

Si tratta di questioni nuove.

Quanto alla prima andrà verificato se la pronuncia del Giudice delle Leggi, davanti al quale la parte può peraltro anche costituirsi, possa considerarsi come riconducibile alla nozione di “atti compiuti”, tenuto conto che si tratta di atto estraneo al processo in cui si verifica l’effetto estintivo ed a monte del quale vi è un’attività pure ad esso estranea, pur ammesso che la perenzione sia riconducibile al fenomeno dell’estinzione cui si applica l’art. 310 c.p.c., comma 2.

E’ palese che si tratta di questione di particolare importanza.

Quanto alla seconda, si rileva che, se è vero che le istanze di c.d. prelievo erano rivolte al giudice e nella specie al giudice amministrativo, è da considerare che per provvedere su di esso il giudice amministrativo doveva rispettare la regola del contraddittorio e darne comunicazione alla controparte, sicché non parrebbe potersi dubitare che l’atto sia pervenuto a conoscenza delle amministrazioni, sebbene per il tramite della sua difesa, o comunque dovesse pervenirvi (il che parrebbe escludere che ove non lo fosse stato la parte debba risentire delle conseguenze, tenuto conto della conoscenza della pendenza del processo).

Tale conoscenza parrebbe allora rendere irrilevante che l’atto fosse diretto in via immediata al giudice amministrativo.

La giurisprudenza di questa Corte ha, del resto, considerato atto interruttivo l’atto di riassunzione del processo: si vedano: Cass. n. 11016 del 2003 ha affermato che: “In caso di estinzione del processo, di norma solo l’atto introduttivo del giudizio ha efficacia interruttiva istantanea della prescrizione, che ricomincia a decorrere dalla data di tale atto, non avendo efficacia interruttiva le attività processuali svolte nel processo estinto. Tuttavia, all’interno di un processo poi estinto può esplicare efficacia interruttiva della prescrizione il singolo atto processuale qualora esso esprima al contempo anche un contenuto sostanziale, essendo espressione di un comportamento inequivoco del creditore volto a far valere il proprio diritto e tale da comportare la costituzione in mora del debitore. Cass. n. 825 del 2006 ha statuito che: ” In caso di estinzione del processo, di norma solo l’atto introduttivo del giudizio ha efficacia interruttiva istantanea della prescrizione, che ricomincia a decorrere dalla data di tale atto, non avendo efficacia interruttiva le attività processuali svolte nel processo estinto. Tuttavia, all’interno di un processo poi estintosi può esplicare efficacia interruttiva della prescrizione il singolo atto processuale, qualora esso esprima al contempo anche un contenuto sostanziale, essendo espressione di un comportamento inequivoco del creditore volto a far valere il proprio diritto e tale da comportare la costituzione in mora del debitore.”; Cass. n. 14517 del 2007 a sua volta ritenne: ” L’estinzione del processo esclude l’effetto di interruzione-sospensione previsto dall’art. 2945 c.c., comma 2, – per il quale, ove l’interruzione sia avvenuta a mezzo di notificazione dell’atto che dà inizio al giudizio o di proposizione di domanda in corso di causa, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio – mentre i singoli atti processuali (nella specie, la dichiarazione personalmente resa dal creditore in giudizio e risultante dal verbale del processo) producono l’effetto interruttivo istantaneo se contengono l’espressione della volontà del creditore di perseguire il soddisfacimento del credito.”.

Appare, dunque, opportuno che le Sezioni Unite, anche qui non costando precedenti, verifichino se, nei casi in cui davanti al giudice amministrativo sia stato fatto valere un interesse legittimo strumentale rispetto ad un diritto soggettivo, l’istanza di fissazione dell’udienza rivolta al giudice amministrativo, in quanto necessariamente portata a conoscenza della controparte, debba apprezzarsi come atto idoneo a manifestare l’esercizio della correlata situazione di diritto soggettivo.

Le stesse motivazioni enunciate dalla corte di merito nella sentenza impugnata paiono meritare un controllo da parte delle Sezioni Unite.

10. Per tutte tali ragioni il Collegio ritiene di rimettere il ricorso al Primo Presidente, perché valuti se assegnarne la trattazione alle Sezioni Unite.

P.Q.M.

La Corte rimette il ricorso al Primo Presidente perché ne valuti l’assegnazione alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile, il 14 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2021

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