Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23847 del 11/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 11/10/2017, (ud. 10/05/2017, dep.11/10/2017),  n. 23847

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22099-2015 proposto da:

P.F.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

COLA DI RIENZO 212, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE

MELISSARI, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MDM COSTRUZIONI GENERALI S.R.L., in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PELAGIO PRIMO

10, presso lo studio dell’avvocato ANTONIETTA CENTOMIGLIA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ARISTIDE DE VIVO,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1043/2015 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 17/07/2015 R.G.N. 504/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/05/2017 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato PASQUALE MELISSARI;

udito l’Avvocato ANTONIO MURANO per delega Avvocato ANTONIETTA

CENTOMIGLIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Reggio Calabria, con sentenza del 17 luglio 2015, ha rigettato il reclamo proposto da P.C. avverso la sentenza emessa dal locale Tribunale confermativa dell’ordinanza, resa nell’ambito del procedimento ex lege n. 92 del 2012, con cui era stato respinta l’impugnativa di licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in data 18 settembre 2012 dalla MDM Costruzioni Generali srl.

La Corte territoriale, nel confermare il giudizio di prime cure, ha ritenuto – in estrema sintesi – che non ricorressero le condizioni per applicare la disciplina prevista per i licenziamenti collettivi dalla L. n. 223 del 1991; che non fosse stato violato il principio di immodificabilità della motivazione del licenziamento; che risultava corretto il rilievo del primo giudice secondo cui nel capitolato di prova testimoniale non era stata indicata la circostanza più significativa, vale a dire se l’attività del geometra ulteriore rispetto a quella espletata presso i due cantieri di Reggio Calabria fosse ancora svolta all’epoca del licenziamento del medesimo; che, in ordine alla violazione dell’obbligo di repechage, la società aveva allegato e documentato la situazione di difficoltà seguita all’ultimazione dei cantieri, senza apertura di nuovi, con conseguenti licenziamenti al punto da avere in corso di causa dimostrato il dimezzamento della forza lavoro complessiva e la mancata assunzione di lavoratori a partire dal luglio 2012; che, infine, non meritava censura l’osservazione sul presunto carattere ritorsivo del recesso che, per costituire motivo di nullità, deve essere esclusivo e determinante, mentre nel caso di specie era un dato reale ed oggettivo la chiusura dei cantieri di Reggio Calabria ed il licenziamento del personale addetto.

2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso P.C. con sette motivi. Ha resistito con controricorso la società.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia “violazione della L. n. 223 del 1991, art. 24 e della L. n. 604 del 1966, art. 3 assumendosi che, dopo l’entrata in vigore della L. n. 223 sarebbe decisivo, ai fini della qualificazione del licenziamento collettivo, il dato numerico e temporale indicato dall’art. 24 tale legge, inteso in senso ontologico o qualitativo, per cui, essendo pacifico il mancato rispetto della procedura prevista dalla L. n. 223, il licenziamento in questione sarebbe illegittimo. Tutto ciò in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

La censura, così come formulata in tutte le sue articolazioni, non è accoglibile perchè priva di adeguata specificità, considerato che, con riferimento alla violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il vizio va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).

Inoltre il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte (in caso positivo vertendosi in controversia sulla “lettura” della norma stessa), non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (ad ex.: Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007). Sicchè, il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti, come nella specie.

2. Che la ricostruzione della vicenda storica operata dai giudici del merito sia ancora oggetto di contestazione da parte ricorrente è confermato dal secondo motivo di ricorso con cui si denuncia “erronea valutazione dei documenti acquisiti al giudizio, travisamento dei fatti e vizio di motivazione riguardo gli stessi. La Corte di appello di Reggio Calabria in particolare, nel considerare le comunicazioni tra la società e il ricorrente, nonchè la lettera del 18/9/2012, avrebbe errato nell’esaminarli. Violazione dell’art. 2697 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., della L. n. 91 del 1981, art. 1 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte di merito essenzialmente posto al centro dell’operazione di qualificazione del licenziamento, il licenziamento individuale e non il licenziamento collettivo, escludendo la ricorrenza della fattispecie”.

Il motivo espressamente formulato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, presenta le medesime ragioni di inammissibilità esposte al paragrafo precedente ed il riferimento alla “erronea valutazione dei documenti acquisiti al giudizio”, al “travisamento dei fatti” ed al “vizio di motivazione riguardo gli stessi”, conclama che nella sostanza parte ricorrente, nonostante l’involucro formale, in realtà si duole dell’apprezzamento del materiale probatorio effettuato dai giudici del merito, a cui invece compete in via esclusiva essendo estraneo al controllo di legittimità.

3. Con il terzo motivo si denuncia “vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, perchè la sentenza di merito non adduce un’adeguata spiegazione per disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione”.

Il mezzo è radicalmente inammissibile perchè, nonostante invochi l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la censura viene formulata senza l’osservanza degli enunciati di questa Corte espressi a Sezioni unite (sent. n. 8053 e 8054 del 2014) che hanno rigorosamente interpretato detta disposizione processuale e le condizioni di ammissibilità per fare ricorso ad essa.

4. Con il quarto motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 1, 2 e 5, della L. n. 300 del 1970, artt. 18 e 35 e della L. n. 223 del 1991, artt. 4,5 e art. 24, comma 4, nonchè vizio di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La Corte di Appello ritiene, poi, arbitraria la conclusione a cui perviene l’appellante circa l’irrilevanza del numero dei licenziamenti effettivamente posti in luogo di quelli programmati, ritenendo tale osservazione in violazione con quanto disposto dalla detta L. n. 223 del 1991, art. 24.

La doglianza, oltre a non individuare adeguatamente l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale, in realtà investe impropriamente la sussistenza in fatto delle condizioni perchè ricorresse un licenziamento collettivo in luogo di un recesso individuale; come noto la fattispecie regolata dalla L. n. 223 del 1991 si caratterizza in base alle dimensioni occupazionali dell’impresa (più di quindici dipendenti), al numero dei licenziamenti (almeno 5), all’arco temporale (120 giorni) entro cui sono effettuati i licenziamenti (tra molte: Cass. n. 24566 del 2011; Cass. n. 22167 del 2010); nella specie la Corte territoriale ha accertato che non risultavano gli elementi costitutivi della fattispecie (e in particolare l’indicata connessione cronologica del numero minimo di licenziamenti) ed è appena il caso di ribadire che, nel caso in cui il datore di lavoro ponga in essere alcuni licenziamenti senza superare la soglia quantitativa (di cinque licenziamenti nell’arco di 120 giorni) prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 24 gli stessi devono essere qualificati alla stregua di licenziamenti plurimi per ragioni obiettive dell’azienda, disciplinati dalle regole sui licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo (Cass. n. 5 del 2001; Cass. n. 1526 del 2003).

5. Con il quinto motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; ovvero omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere i giudici di merito omesso di esaminare e di motivare le ragioni del mancato esame di tutta la documentazione allegata e della mancata ammissione dei mezzi istruttori”.

6. Con il sesto motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè vizi di motivazione; la totale obliterazione di elementi che potevano condurre ad una diversa decisione, in uno con la deficienza del procedimento logico che ha indotto il giudice al suo convincimento, anche in ordine alle risposte fornite alle censure tecniche rivolte nei confronti della sentenza impugnata, concretano indubbiamente il vizio di omessa e/o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia atteso il rapporto di causalità logica tra le concrete circostanze trascurate e la soluzione giuridica data dal giudice alla controversia de qua, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Entrambi i motivi, scrutinabili congiuntamente perchè affetti dai medesimi profili di inammissibilità manifesta, non meritano accoglimento.

Con essi si censurano vizi di motivazione della sentenza impugnata facendo riferimento ad una formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non più vigent per la fattispecie che ci occupa e trascurano di considerare che l’insufficienza motivazionale non è più censurabile in base alla novella della citata disposizione processuale, proponendo, ancora una volta, censure che attengono alla ricostruzione della vicenda storica ed alla valutazione del materiale probatorio estranee al controllo di legittimità delineato dalle citate pronunce delle Sezioni unite, per di più in una ipotesi dì cd. “doppia conforme” che preclude il ricorso per cassazione a mente di detto n. 5 dell’art. 360 c.p.c. in virtù dell’art. 348 ter c.p.c., u.c..

7. Con l’ultima doglianza si deduce “violazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, art. 2697 c.c., artt. 1175 e 1375, 115 e 116 c.p.c., nonchè vizi di motivazione”, ravvisando un duplice errore nell’iter logico-giuridico del giudice del merito, che non avrebbe fatto corretto uso delle risultanze istruttorie; si lamenta che il licenziamento sarebbe illegittimo perchè risulterebbe violato il principio di buona fede nei rapporti tra le parti, ignorato o comunque non correttamente applicato dal giudice a quo, “in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

La censura è inammissibile perchè contiene promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge, sostanziale e processuale, nonchè di vizi di motivazione, senza alcuna specifica indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dall’art. 360 c.p.c., comma 1 così non consentendo una adeguata identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da… irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf., da ultimo, Cass. n. 14317 del 2016).

8. In definitiva e conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile.

Invero il ricorso per cassazione, in quanto ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera chiara ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione (tra le ultime v. Cass. n. 9228 del 2016).

Il rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – comporta, fra l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito (Cass. n. 23675 del 2013), in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. n. 25044 del 2013; Cass. n. 17739 del 2011; Cass. n. 7891 del 2007; Cass. n. 7882 del 2006; Cass. n. 3941 del 2002).

L’osservanza del canone della chiarezza e della sinteticità espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione (Cass. n. 19100 del 2006) ed è dunque inammissibile un ricorso che non consenta di individuare in che modo e come le numerose norme invocate sarebbero state violate nella sentenza impugnata, quali sarebbero i principi di diritto asseritamente trasgrediti nonchè i punti della motivazione specificamente viziati (Cass. n. 17178 del 2014 e giurisprudenza ivi richiamata).

Ciascuno dei motivi del ricorso all’attenzione del Collegio, oltre alle mancanze già rilevate, risulta irrispettoso del canone della specificità del mezzo di impugnazione in quanto in alcuno di essi risulta possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure (v. Cass. n. 7394 del 2010, n. 20355 del 2008, n. 9470 del 2008). Si è infatti realizzata una mescolanza ed una sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, prospettando le medesime questioni sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione. L’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (in termini, Cass. n. 19443 del 2011).

9. Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 10 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2017

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