Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23819 del 24/09/2019

Cassazione civile sez. II, 24/09/2019, (ud. 27/05/2019, dep. 24/09/2019), n.23819

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16110/2015 proposto da:

T.C., ammesso al patrocinio a spese dello Stato,

rappresentato e difeso dall’Avvocato ANDREA PIZZINI ed elettivamente

domiciliato presso lo studio dell’Avv. Paolo Panariti in ROMA, VIA

CELIMONTANA 38;

– ricorrente –

contro

T.G., e R.G., rappresentati e difesi dagli

Avvocati ANTONIO GIACOMELLI e LORENZO GRISOSTOMI TRAVAGLINI ed

elettivamente domiciliati presso lo studio del secondo in ROMA, VIA

ANTONIO BOSIO 2;

– controricorrenti –

e contro

RU.AN. e V.F. in Ru., rappresentati e difesi

dagli Avvocati PAOLO MAZZONI e ALESSANDRO DI GIOVANNI ed

elettivamente domiciliati presso lo studio del secondo in ROMA, VIA

NICOLO’ TARTAGLIA 5;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 365/2014 della CORTE d’APPELLO di TRENTO,

depositata il 16.12.2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

27/05/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione del 28.9.2010, T.C. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Trento RU.AN., V.F., RI.EN., R.G., T.G. E F.L. esponendo: di essere proprietario dell’edificio p.ed. (OMISSIS) c.c. (OMISSIS), costituente una casa rurale interamente ristrutturata, composta da 4 appartamenti, locale ristorante, magazzino, garage e terreni circostanti identificati dalla pp.ff. (OMISSIS); che nel 1994 era venuto in contatto con F.L., che lo aveva indirizzato dall’avv. Colla di Rovereto, su consiglio del quale, in data 3.8.1994, l’attore aveva conferito al F. un mandato con procura perchè provvedesse alla vendita del compendio immobiliare a un prezzo minimo di Lire 2.000.000.000; che in esecuzione dell’incarico, il F., senza informare il mandante, aveva sottoscritto dei contratti preliminari con gli altri convenuti, realizzando un corrispettivo totale di Lire 650.000.000, notevolmente inferiore a quello indicato dall’attore, oltre che a quello calcolato sulla base delle rendite catastali; che nell’ambito della procedura esecutiva davanti al Tribunale di Bolzano, il geom. P. aveva stimato il valore degli immobili in Lire 2.386.000.000; che il F. era stato sottoposto a procedimento penale, all’esito del quale era condannato per truffa e appropriazione indebita, con accertamento della sostanziale carenza dei poteri rappresentativi, avendo ceduto i beni dell’attore per un corrispettivo inferiore a quello indicato da quest’ultimo; che l’attore riteneva ricorrere l’ipotesi della vendita da parte di un falsus procurator, in quanto il F. aveva disatteso le condizioni impartite dal mandante (non alienare il compendio immobiliare ai familiari e a un prezzo inferiore a due miliardi di Lire).

Ciò premesso il T. chiedeva che fosse accertata l’invalidità e l’inefficacia degli atti traslativi compiuti dal F., dichiarandosi disponibile a restituire ai convenuti le somme da ciascuno versate; proponeva altresì domanda di riconoscimento di un indennizzo rapportato all’arricchimento derivato ai convenuti per effetto della disponibilità degli immobili per un certo periodo e dell’impossibilità di fruirne per l’attore.

Si costituivano in giudizio R.G. e T.G., rispettivamente moglie e figlio di T.C., precisando di avere acquistato le porzioni immobiliari di proprietà dell’attore con atto sottoscritto da Ri.En., che aveva agito quale procuratore di T.C. in forza di procura speciale rilasciata dal suo procuratore generale F.L.. Rilevavano che dalla procura scritta rilasciata dall’attore non risultavano limitazioni o vincoli in ordine al prezzo e sostenevano che eventuali condizioni verbalmente dettate dal mandante non fossero a loro opponibili. Eccepivano, in ogni caso, l’avvenuto acquisto della proprietà per maturata usucapione, essendo decorsi oltre 15 anni di possesso prima della notifica dell’atto di citazione. In via riconvenzionale, T.G. chiedeva la condanna dell’attore al rimborso della somma di Lire 7.986.000, versata a titolo di INVIM sulla vendita della porzione immobiliare in suo favore, quale coobbligato solidale di un’imposta gravante sull’alienante.

Si costituivano separatamente Ru.An. e V.F., sostenendo di avere validamente acquistato l’immobile dell’attore per il tramite del F., che aveva agito in forza di procura, in assenza di limiti circa il prezzo e con il potere del procuratore di agire nel modo più opportuno.

F.L. e Ri.En. erano dichiarati contumaci.

Con sentenza n. 220/2013, depositata in data 8.3.2013, il Tribunale di Trento rigettava la domanda attorea e condannava T.C. a pagare a T.G. la somma di Euro 7.986,00 oltre interessi legali; condannava l’attore alle spese di lite in favore delle parti costituite.

Contro tale sentenza proponeva appello T.C. contestando l’omessa valutazione circa il difetto di valida procura in capo al F., con nullità ed inefficacia dei contratti di vendita. L’appellante sosteneva che gli acquirenti fossero consapevoli delle prescrizioni impartite al F. (non vendere a familiari e a un prezzo inferiore a due miliardi di lire). Con altro motivo di appello lamentava l’ingiustizia della condanna al pagamento della somma, a titolo di INVIM, in favore del figlio, in quanto il Tribunale aveva erroneamente ritenuto la tardività dell’eccezione di prescrizione sollevata dall’attore e la fondatezza della domanda riconvenzionale, evidenziando che nella sentenza impugnata era stata pronunciata la condanna al pagamento in Euro dello stesso importo oggetto della domanda in Lire.

Si costituivano in appello Ru.An. e V.F., nonchè, separatamente, R.G. e T.G., eccependo preliminarmente l’inammissibilità dell’appello ai sensi degli artt. 342 e 348 bis c.p.c. e contestando nel merito il fondamento dell’impugnazione.

Dichiarata la contumacia del F., l’appellante dichiarava di rinunciare alla domanda nei confronti di Ri.En..

Con sentenza n. 365/2014, depositata in data 16.12.2014, la Corte d’Appello di Trento dichiarava cessata la materia del contendere tra l’appellante e Ri.En.; condannava T.C. a rimborsare a T.G. la somma di Euro 4.124,42, oltre interessi legali dal 23.3.2011 al saldo; condannava T.C. alle spese di lite dei due gradi di giudizio in favore di R.G. e T.G.. In particolare, la Corte confermava quanto statuito dal Tribunale, sostenendo che l’assenza di limiti espressi nella procura notarile negasse spazio ad altre prove e che, in ogni caso, le circostanze capitolate fossero generiche.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione T.C. sulla base di sei motivi; resistono Ru.An. e V.F. con controricorso, nonchè separatamente R.G. e T.G., anch’essi con controricorso, illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione degli artt. 1388,1396 e 1398 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, osservando che poteri e limiti della procura possono essere modificati, per cui il rappresentante è tenuto a rispettare la procura, ma anche ad attenersi ad eventuali modifiche (limitazioni) dei poteri di rappresentanza, agendo oltre i quali il procuratore diviene “falsus procurator” (artt. 1388,1396 e 1398 c.c.). Le modifiche dei poteri del procuratore devono essere portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei (art. 1398 c.c.), per cui gli accordi conclusi tra procuratore e terzi in contrasto con tali modifiche non sono opponibili al rappresentato, come non sono opponibili gli accordi che contrastino con i veri poteri del procuratore, se le modifiche sono note ai terzi (anche senza comunicazione con mezzi idonei). Sottolinea il T. di aver fatto valere in giudizio i limiti posti al potere di rappresentanza (non espressi nella procura notarile), in ogni caso noti ai terzi contraenti, allegando che questi ultimi fossero partecipi e cointeressati alle illecite attività del F.. Inoltre, la stessa procura notarile consentiva al procuratore di vendere solo a un “prezzo opportuno”, senza legittimarlo a contrattare offrendo il bene a un prezzo palesemente sproporzionato rispetto al maggiore valore reale dello stesso. Pertanto, gli atti di cessione dovevano considerarsi nulli e inopponibili al ricorrente.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – In tema di ricorso per cassazione, va rilevato che il vizio di violazione di legge (contestato dal ricorrente) consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione della norma pretesamente violata, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

Il controllo affidato a questa Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014). Sicchè, in ultima analisi, tale motivo si connota quale riproposizione, notoriamente inammissibile in sede di legittimità, di doglianze di merito che attingono all’apprezzamento delle risultanze istruttorie motivatamente svolto dalla Corte di merito (Cass. n. 24817 del 2018).

1.3. – A ciò va aggiunto che è principio, altrettanto consolidato, che i requisiti di contenuto e forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, debbano essere assolti necessariamente con il ricorso e non possano essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla stessa indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (ex plurimis, Cass. n. 29093 del 2018; conf. Cass. n. 20694 del 2018). Il ricorrente ha, dunque, l’onere (che nella specie non risuta esser stato assolto) di indicare nel ricorso il contenuto rilevante dello stesso, fornendo alla Corte elementi sicuri per consentirne il reperimento negli atti processuali (cfr. altresì Cass. n. 5478 del 2018; Cass. n. 22576 del 2015; n. 16254 del 2012); potendo solo così reputarsi assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso) (Cass. n. 17168 del 2012). Il ricorrente dunque deve indicare – mediante anche la trascrizione, ove occorra, di detti atti nel ricorso – la risultanza che egli asserisce essere decisiva e non valutata o insufficientemente considerata, atteso che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, senza necessità di indagini integrative (Cass. n. 2093 del 2016; cfr., tra le molte, Cass. n. 14784 del 2015; n. 12029 del 2014; n. 8569 del 2013; n. 4220 del 2012).

Nella specie, il ricorrente – pur facendo ripetutamente riferimento alla procura rilascia per la vendita del compendio immobiliare in questione – non ne ha riportato il contenuto completo o quello necessario e sufficiente onde poterne valutare (nei limiti dell’apprezzamento riservato al giudice di merito) l’asserita portata negoziale, con specifico riferimento alla dedotta sottesa limitazione dei poteri del procuratore rispetto al prezzo totale, che (a dire del ricorrente) non poteva essere inferiore a Lire 2.000.000.000, e rispetto alla esclusione quali soggetti acquirenti dei familiari dello stesso venditore.

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione degli artt. 1388,1396,1398 e 2967 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1 nn. 3 e 4”, evidenziando che la giurisprudenza tutela la fiducia riposta dal terzo contraente nell’esistenza di un potere di rappresentanza, in realtà assente, qualora: a) sia riscontrabile un’apparenza di poteri rappresentativi; b) sia configurabile un comportamento colposo imputabile al falso rappresentato, idoneo a indurre in errore il terzo circa l’esistenza dei poteri rappresentativi; c) il terzo contraente abbia fidato senza colpa di contrattare con un procuratore vero. Tuttavia, per il ricorrente, l’onere di provare tali presupposti incombeva al terzo contraente, che invocava l’esistenza e l’efficacia del contratto. In ogni caso: a) l’apparenza dei poteri rappresentativi andava negata, considerando che la procura faceva riferimento a un prezzo opportuno e sicuramente la determinazione in Lire 650.000.000 del prezzo di tutti i beni, che la stima di un tecnico aveva indicato in Lire 2.400.000.000, non poteva dirsi opportuna; b) non poteva parlarsi di comportamento colposo del falso rappresentato, idoneo a indurre in errore gli acquirenti, in quanto il T., su consiglio dell’avvocato, aveva dato la procura al F. e, prima di essere sottoscritti, i preliminari erano stati esaminati dal medesimo professionista, che conosceva i limiti della procura; c) non ricorreva certo l’ipotesi dell’incolpevole affidamento dei terzi acquirenti, che, invece, conoscevano il valori dei beni e la volontà del ricorrente di non vendere a un prezzo inferiore ai due miliardi di lire; essendo dunque onere dei terzi acquirenti verificare con diligenza i poteri del procuratore, mentre la Corte d’Appello attribuiva tale onere al ricorrente, ripartendo l’onere della prova in maniera contraria all’art. 2697 c.c., violando l’art. 360 c.p.c., n. 3.

2.1. – Il motivo (a parte l’inammissibilità del mero richiamo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) non è fondato.

2.2. – La Corte di merito afferma che “risulta pacifico, ed in ogni caso è documentalmente provato, che nella procura generale in questione non comparivano condizioni di sorta, essendo stato investito il rappresentante del potere di vendere imobili “…ai prezzi, patti e condizioni che il procuratore riterrà opportuni…””; aggiungendo che, “chiarito che l’appellante ha inteso censurare le modalità di esercizio dei poteri rappresentativi conferiti con la procura, avendo prospettato la violazione da parte del F. delle prescrizioni impartite separatamente, pare evidente che tale condotta potrebbe avere riflessi nei confronti degli acquirenti degli immobili solo se fosse dimostrata la dolosa partecipazione degli stessi alla attività fraudolenta del procuratore, ovvero quantomeno la loro consapevolezza dei limiti operativi imposti dal mandante”; e rilevando, dunque, che “nessuna prova è stata offerta in ordine alla conoscenza da parte degli acquirenti delle condizioni volute dal rappresentato per l’esercizio dei poteri rappresentativi, essendo ovviamente del tutto irrilevanti le supposizioni dell’appellante che sono prive di riscontro fattuale” (sentenza impugnata pagine 12-13).

Correttamente, dunque, la Corte distrettuale non interviene in ordine al problema specifico della attribuzione dell’onere della prova in capo ai terzi acquirenti di verificare con diligenza i poteri del procuratore; laddove viceversa essa rileva, in termini evidentemente pregiudiziali ed assorbenti, rispetto alla legittimità delle rispettive condotte negoziali, proprio la assoluta carenza di prova offerta in ordine alla asserita conoscenza da parte degli acquirenti delle condizioni volute dal rappresentato per l’esercizio dei poteri rappresentativi.

3.1. – Con il terzo motivo, il ricorrente censura la “Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, deducendo che il fatto storico decisivo, del quale è stata omessa la valutazione, è il più volte segnalato valore effettivo del compendio immobiliare (indicato in oltre Lire 2.400.000.000 dalla perizia P.). La sentenza d’appello non ha preso in considerazione tale decisiva sproporzione; mentre, se valutato, tale divario avrebbe portato a una diversa decisione, dato che dimostrava la consapevolezza dei terzi acquirenti che la vendita, alle condizioni in cui avveniva, fosse contraria alla volontà del proprietario.

3.2. – Con il quarto motivo, il ricorrente deduce “Ancora (la) violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, là dove altro fatto decisivo è rappresentato dalla nomina, da parte del F., del Ri. quale procuratore nelle vendite effettuate a R.G. e T.G., al fine di farlo figurare come subprocuratore nella vendita ai familiari del ricorrente. Tale subprocura aveva lo scopo di allontanare il F. (al quale era stato vietato di vendere ai familiari), dagli acquirenti finali. Inoltre, anche gli accertamenti eseguiti dall’Ufficio del Registro (che attribuivano alla cessione a favore di G., su base catastale e non reale, un valore doppio rispetto a quello di cui al contratto) rappresentavano una circostanza decisiva che, se valutata assieme alle altre richiamate, doveva portare a una diversa decisione.

3.3. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica e della dedotta violazione del medesimo parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, oltre che per analoga modalità di formulazione, i motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente. Essi non sono ammissibili.

3.4 – L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 16 dicembre 2014) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe, dunque, dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Viceversa, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è idonea e spcifica indicazione.

Laddove, peraltro – anche in disparte il rilievo della genericità delle deduzioni indicate, non meglio specificate, che rende comunque le asserite omissioni, di per sè, prive della necessaria decisività (oltre al non essere dimostrato il “come” e il “quando” tali allegazioni siano state oggetto di discussione processuale tra le parti, nonchè la loro decisività) -, le censure riguardano, non già l’omesso esame di un “fatto storico”, principale o secondario, qualificabile in quanto tale, bensì la mera valutazione di deduzioni difensive (tra cui la asserita valutazione contenuta nella perizia P., non riportata o trascritta in parte qua, di nuovo in violazione del sopra citato principio di autosufficienza, ma contestata dai controricorrenti con richiamo alla stima del CTU del Tribunale dell’Esecuzione di Bolzano, geom. G., per il quale il prezzo di acquisto corrispondeva a Lire 650.000.000 a fronte della valutazione peritale di Lire 693.000.000); valutazioni, quindi, che non risultano riferibili all’ambito di applicazione del riformato paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. sez. un. 8053 del 2014; cfr. Cass. n. 26305 del 2018).

4. – Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione degli artt. 112,115,116,184 c.p.c. e art. 24 Cost., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, giacchè la stessa sentenza d’appello precisava che l’azione proposta poteva avere successo se fosse stata dimostrata la dolosa partecipazione dei convenuti acquirenti all’attività fraudolenta del procuratore, ovvero la loro consapevolezza dei limiti imposti al mandante. Quanto ai capitoli di prova, la Corte di merito non li ammetteva con motivazione apparente, che incolpava il capitolato di genericità e di assenza di “indicazioni spazio-temporali”, eliminando il campo processuale da ogni emergenza istruttoria, salvo poi sostenere il difetto di prova delle circostanze, riconosciute come rilevanti e decisive, relative alla “dolosa partecipazione” dei convenuti acquirenti o “quantomeno, (al)la loro consapevolezza dei limiti operativi imposti al mandante”.

4.1. – Il motivo non è fondato.

4.2. – La Corte distrettuale rileva che “merita conferma la valutazione del tribunale di inammissibilità della prova testimoniale dedotta dal T. ( C.) per dimostrare la conoscenza da parte degli acquirenti dei limiti imposti all’esercizio della procura”; osservando che “le circostanze capitolate sono infatti assolutamente generiche, oltre che prive di indicazioni spazio-temporali tali da consentire anche la verifica di attendibilità delle dichiarazioni dei testi” (sentenza impugnata, pagina 13).

Trattasi di motivazione adeguata e coerente, rispetto alla quale vale il consolidato il principio secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il Giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo Giudice (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013). Piuttosto (così come articolate) le censure portate dal motivo si risolvono, in sostanza, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento e come argomentate dalla parte, così mostrando il ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Ma, come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

5. – Con il sesto motivo, il ricorrente deduce la “Violazione del D.P.R. n. 643 del 1972, art. 4, come in vigore all’epoca dei fatti, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1 nn. 3 e 5”, poichè la condanna del ricorrente a rifondere l’INVIM era determinata sull’assunto che l’INVIM gravasse sul venditore, senza considerare che essa derivava dalla truffa perpetrata anche da T.G. ai danni del padre, non avendo egli mai pagato la differenza tra la somma di cui al contratto e quella accertata dall’Ufficio del Registro, per cui lo stesso G. aveva beneficiato dell’incremento di valore dell’immobile fraudolentemente acquisito. Nonostante la disciplina all’epoca vigente (D.P.R. n. 643 del 1972, art. 4) individuasse tra i soggetti passivi dell’imposta sull’incremento di valore, l’alienante per i trasferimenti a titolo oneroso e i soggetti a cui favore si verifica l’acquisto per i trasferimenti a titolo gratuito, la corretta lettura della norma portava ad individuare il soggetto passivo dell’imposta nel soggetto beneficiato dell’incremento di valore, che nella fattispecie andava individuato nell’acquirente.

5.1. – Il motivo è infondato.

5.2. – Il D.P.R. n. 643 del 1972, art. 4, individua i soggetti passivi dell’imposta sull’incremento di valore, disponendo che “L’imposta è dovuta dall’alienante a titolo oneroso o dall’acquirente a titolo gratuito o per usucapione”. L’Invim, dunque, colpisce il plusvalore immobiliare in capo al soggetto titolare del relativo diritto ed i soggetti passivi d’imposta sono specificamente individuati dal già menzionato del D.P.R. n. 643 del 1972, art. 4 (Cass. n. 27897 del 2013; Cass. n. 17576 del 2011, citata dallo stesso ricorrente).

Correttamente, pertanto, la Corte di merito ha escluso che l’imposta dovesse gravare sull’acquirente T.G. (quale soggetto asseritamente beneficiato dell’incremento di valore, per la parte eccedente il prezzo effettivamente pagato), essendo invece dovuta dal venditore, secondo l’inequivoco dettato normativo (che questo Collegio non ritiene in alcun modo viziato di incostituzionalità, in riferimento agli artt. 2,3,23 e 53 Cost., come apoditticamente, e quindi inammissibilmente, sostenuto dal ricorrente).

6. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. In ragione della ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato non va emessa la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento del doppio contributo unificato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore delle due parti controricorrenti delle spese del presente grado di giudizio, che liquida per ciascuna di esse in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per rimborso delle spese vive, oltre, sempre per ciascuna, al rimborso forfettario delle spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2019

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