Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23813 del 11/10/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 11/10/2017, (ud. 11/09/2017, dep.11/10/2017),  n. 23813

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 16947/2011 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n.

12;

– ricorrente –

contro

ECO-NEPROMA s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, Sezione staccata di Brescia, n. 176/63/2010, depositata

in data 15 giugno 2010.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del giorno 11

settembre 2017 dal Cons. Dott. Lucio Luciotti.

Fatto

PREMESSO

– che con sentenza n. 176 del 15 giugno 2011 la Commissione tributaria regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli avverso la sentenza di primo grado, che, accogliendo il ricorso proposto dalla società contribuente, aveva annullato l’avviso di accertamento suppletivo e di rettifica emesso dall’amministrazione finanziaria a seguito del disconoscimento dell’esenzione daziaria connessa all’origine preferenziale della merce (strofinacci per pulizie) che la società contribuente nell’anno di imposta 2005 aveva importato dalla Svizzera, dove la predetta merce, acquistata da un fornitore nazionale (ovvero dalla ditta G.V., esercente il commercio e la lavorazione di materie tessili e pezzame industriale), era stata sottoposta a lavorazione (lavaggio industriale);

– che i giudici di appello, rilevata la tardività della produzione documentale effettuata dall’amministrazione doganale, sostenevano, con riferimento all’esportazione della merce in Svizzera, che la documentazione attestante l’origine preferenziale comunitaria della merce non era stata contestata dall’ufficio e, quanto alla successiva fase di importazione, che “la contestazione mossa dall’ufficio non era stata effettuata nelle forma di legge”, in quanto l’ufficio non aveva provveduto a rispedire all’autorità doganale estera il certificato EUR.1 che accompagnava la merce;

– che avverso tale statuizione l’Agenzia delle dogane e dei monopoli propone ricorso per cassazione affidato a sei motivi, illustrati con memoria, cui non replica l’intimata.

Diritto

CONSIDERATO

– che con il primo motivo di ricorso l’amministrazione doganale censura per violazione e falsa applicazione dell’art. 78 Reg. CEE n. 2913 del 1992 e D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, anche con riferimento all’art. 110 Reg. CEE n. 2454 del 1993, sostenendo che aveva errato la CTR nel ritenere sussistente in capo all’amministrazione doganale l’obbligo di contestare la dichiarazione di origine preferenziale comunitaria della merce, fatta dal fornitore della merce all’atto dell’esportazione della stessa in Svizzera, posto che, in base alle disposizioni censurate, l’amministrazione doganale può effettuare il controllo delle dichiarazioni contenute nei certificati di origine EUR.1 al momento dell’importazione (c.d. controllo in linea) o in uno successivo (c.d. controllo a posteriori), essendo del tutto indifferente la dichiarazione fatta dall’esportatore all’autorità doganale estera, competente a rilasciare quel certificato;

– che il motivo è fondato e va accolto, al riguardo rilevandosi che la facoltà per l’amministrazione doganale di procedere al controllo a posteriori e, quindi, alla revisione delle dichiarazioni doganali è sempre ammessaI in quanto, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza unionale (cfr. Corte di giustizia, sent. 10 dicembre 2015, C-427/14, “Veloserviss” SIA, punto 21) “l’art. 78 del codice doganale istituisce una procedura che permette alle autorità doganali di procedere, eventualmente d’ufficio, a una revisione a posteriori di una dichiarazione doganale, vale a dire dopo aver concesso lo svincolo delle merci oggetto di tale dichiarazione (v., in tal senso, sentenze Overland Footwear, C-468/03, EU:C:2005:624, punti 62, 64 e 66, nonchè Greencarrier Freight Services Latvia, C-571/12, EU:C:2014:102, punto 28)”, anche mediante i “controlli di documenti e di dati pertinenti nonchè, secondo le circostanze, (…)la visita delle merci interessate per accertare l’esattezza delle indicazioni figuranti nella dichiarazione (v., in tal senso, sentenza Greencarrier Freight Services Latvia, C-571/12, EU:C:2014:102, punto 29” (punto 22 sent. cit.), e tali facoltà non sono sottoposti ad alcuna limitazione, essendo addirittura consentita la reiterazione della revisione o di un controllo a posteriori già effettuato e la conseguente adozione delle misure necessarie per regolarizzare la situazione (punti 23 e 25), fatto salvo il “rispetto dei pertinenti requisiti posti dai principi generali del diritto dell’Unione, segnatamente quelli derivanti dal principio di certezza del diritto” (punto 29), realizzata attraverso “l’imposizione di un termine di prescrizione ragionevole” (punto 32) “e, in quanto corollario di quest’ultimo, dal principio della tutela del legittimo affidamento” (punto 29), che però non può essere invocato dall’operatore economico, seppur prudente ed accorto, nel caso in cui sia adottato un provvedimento atto a ledere i suoi interessi, non potendo questi “fare legittimamente affidamento sulla conservazione di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle autorità nazionali (v., in particolare, sentenza Plantanol, C-201/08, EU:C:2009:539, punto 53)” (punto 39), atteso che “dalla giurisprudenza della Corte emerge che tale debitore non può nutrire un legittimo affidamento quanto alla validità dei certificati per il fatto che essi siano stati ritenuti inizialmente veritieri dalle autorità doganali di uno Stato membro, dato che le operazioni effettuate da dette autorità nell’ambito dell’accettazione iniziale delle dichiarazioni non ostano affatto all’esercizio di controlli successivi, nè pregiudicano le conseguenze che possono derivarne (v., in tal senso, sentenze Van Gend & Loos e Expeditiebedrijf Bosman/Commissione, 98/83 e 230/83, EU:C:1984:342, punto 20, nonchè Faroe Seafood e a., C-153/94 e C-204/94, EU:C:1996:198, punto 93)” (punto 40 sent. cit.), dovendo, “in quanto operatore economico, accettare il rischio che le autorità doganali rivedano la decisione relativa all’obbligazione doganale tenendo conto dei nuovi elementi di cui eventualmente dispongono a seguito di controlli e adottare i provvedimenti necessari per premunirsi contro tale rischio (v., in tal senso, sentenza Lagura Vermogensverwaltung, C-438/11, EU:C:2012:703, punto 30)” (punto 41);

– che tali principi della giurisprudenza unionale trovano conforto in quella domestica, pronunciati in relazione al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, che prevede l’istituto della revisione dell’accertamento, “consentito all’amministrazione delle dogane quando si avveda che la merce importata ha natura diversa da quella considerata nel primo accertamento” (Cass. n. 10280 del 2008) estendendosi “a qualsiasi ipotesi di mancata o inesatta contabilizzazione dei diritti doganali e, quindi, a tutti gli errori di calcolo nella liquidazione o applicazione delle tariffe doganali o nell’accertamento della qualità, quantità, valore o origine della merce, anche se dipesi dall’Amministrazione doganale” (Cass. n. 25977 del 2014);

– che in tale contesto normativo è, pertanto, del tutto irrilevante che l’amministrazione doganale non abbia espressamente contestato la dichiarazione di “origine preferenziale comunitaria” “rilasciata dal fornitore della merce” “all’atto dell’esportazione dei beni in questione”, come sostengono i giudici di appello, la cui affermazione è anche inesatta atteso che la revisione dell’accertamento implica la negazione della regolarità della dichiarazione fatta dall’esportatore e, quindi, la contestazione della stessa;

– che con il secondo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 122 e 78 Reg. CEE n. 2454 del 1993, artt. 7, 17, par. 3, 21, par. 3, 27 del Protocollo n. 3 dell’accordo CE-Svizzera e 2 Reg. CEE n. 1207 del 2001, sostenendo che avevano errato i giudici di appello nel ritenere che “la contestazione mossa dall’ufficio non era stata effettuata nelle forma di legge”, in quanto l’ufficio non aveva provveduto a rispedire all’autorità doganale estera il certificato EUR.1 che accompagnava la merce;

– che con il terzo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., art. 7, par. 1, lett. c), della Decisione n. 801 del 2004 del Comitato misto CE-Svizzera, da 35 a 38 del Reg. CEE n. 2454 del 1993, sostenendo che i giudici di appello avevano errato nel ritenere che “agli atti non vi è prova che il certificato sia stato rispedito alle autorità svizzere”;

– che i motivi, che possono essere esaminati congiuntamente attenendo alla medesima questione, sono fondati; invero, l’art. 122 reg. CEE n. 2454 del 1993, al par. 1 stabilisce che “il controllo a posteriori dei certificati di circolazione delle merci EUR.1 e delle dichiarazioni su fattura viene effettuato per sondaggio o ogniqualvolta le autorità doganali dello Stato membro d’importazione o le autorità pubbliche competenti dei paesi o territori beneficiari abbiano ragionevole motivo di dubitare dell’autenticità dei documenti, del carattere originario dei prodotti in questione o dell’osservanza degli altri requisiti della presente sezione”, e al par. 2 prevede che “ai fini dell’applicazione del paragrafo 1, le autorità competenti dello Stato membro o del paese o territorio beneficiario d’importazione rispediscono alle autorità competenti del paese o territorio beneficiario o dello Stato membro di esportazione il certificato di circolazione delle merci EUR.1 e la fattura, se è stata presentata, la dichiarazione su fattura, ovvero una copia di questi documenti, indicando, se del caso, i motivi che giustificano un’inchiesta. A corredo della richiesta di controllo, devono essere inviati tutti i documenti e le informazioni ottenute che facciano sospettare la presenza di inesattezze nelle informazioni relative alla prova dell’origine”, precisando al par. 4 che in mancanza di collaborazione da parte delle autorità doganali di esportazione o di insufficienza delle informazioni da queste fornite, anche a seguito di una seconda comunicazione inviata alle autorità competenti, le autorità doganali richiedenti “rifiutano, salvo circostanze eccezionali, il beneficio delle misure tariffarie preferenziali”;

– che la disposizione in esame non prevede alcuna sanzione per il caso di mancato rispetto della procedura ivi prevista, che, pertanto, non può ritenersi nè necessaria nè vincolante ai fini della validità della rettifica effettuata a seguito della revisione della dichiarazione doganale;

– che resta assorbito il quarto motivo di ricorso con cui la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della Decisione n. 801 del 2004 del Comitato misto CE-Svizzera, che modifica il Protocollo n. 3 dell’accordo CE-Svizzera (relativo alla definizione della nozione di “prodotti originari” e ai metodi di cooperazione amministrativa), e art. 313 del Reg. CEE n. 2454 del 1993, sostenendo che i giudici di appello, nel rilevare il mancato rispetto della procedura prevista dall’art. 122 del Reg. CEE n. 2454 del 1993, avevano omesso di considerare che la merce di cui alla dichiarazione doganale oggetto di revisione era costituita da un prodotto già finito (panni tecnici), sottoposto in Svizzera soltanto a lavaggio industriale, come tale inidoneo ad attribuire allo stesso una diversa origine, come previsto dalle disposizioni censurate, nella specie erroneamente applicate dai giudici di appello;

– che con il quinto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 7 e 32 e con il sesto motivo il difetto di motivazione della sentenza impugnata, sostenendo che la CTR avrebbe dovuto acquisire la comunicazione della Direzione generale della dogana svizzera, anche se prodotta tardivamente (oltre i termini di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32), facendo ricorso ai poteri istruttori di cui all’art. 7 citato e, comunque, avrebbe dovuto giustificare le ragioni del mancato ricorso a tale facoltà;

– che i motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, sono inammissibili, oltre che infondati, non avendo la ricorrente nè dedotto nè provato di aver sollecitato alla Commissione tributaria l’esercizio di una tale facoltà; invero, per giurisprudenza assolutamente condivisibile di questa Corte, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 3, applicabile ratione temporis, in quanto abrogata dal D.L. n. 203 del 2005, art. 3-bis, comma 5, convertito, va interpretato nel senso che “l’acquisizione d’ufficio dei documenti necessari per la decisione costituisce una facoltà discrezionale, attribuita alle commissioni tributarie dall’art. 7, comma 3, il cui esercizio non può sopperire al mancato assolvimento, ad opera della parte, del proprio onere della prova (fra le tante, Cass. 22 febbraio 2008, n. 4617). Ove quindi, decorsi i termini di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, la parte non abbia prodotto i documenti richiesti dal proprio onere probatorio, la lacuna non può essere colmata dall’esercizio dell’indicato potere giudiziale” (Cass. n. 25769 del 2014; conf. n. 955 del 2016), al riguardo precisandosi che il giudice tributario non è obbligato ad esercitare d’ufficio i poteri istruttori di cui alla citata disposizione, salvo che non sussista il presupposto che consente di derogare al canone ordinario di distribuzione dell’onere della prova e che legittima l’esercizio del potere di ufficio da parte del giudice tributario, costituito dall’impossibilità per la parte di acquisire la prova altrimenti, come ad esempio la documentazione in possesso dell’altra parte (cfr. Cass. n. 26392 del 2010 e n. 14244 del 2015), che è circostanza che nella fattispecie non ricorre;

– che alla stregua di quanto fin qui detto vanno accolti i primi tre motivi di ricorso, assorbito il quarto, e dichiarati inammissibili il quinto e sesto, va cassata la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla competente CTR, in diversa composizione, in relazione ai motivi accolti.

PQM

 

accoglie il primo, secondo e terzo motivo di ricorso, assorbito il quarto, dichiara inammissibili il quinto e sesto motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia, in relazione ai motivi accolti nonchè per le spese del giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 11 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2017

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