Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23789 del 28/10/2020

Cassazione civile sez. II, 28/10/2020, (ud. 03/07/2020, dep. 28/10/2020), n.23789

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20194/2019 R.G. proposto da:

R.J., rappresentato e difeso dall’avv. Damiano Fiorato, con

domicilio in Genova, via Dante n. 2;

– ricorrente-

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t..

– intimata-

avverso il decreto del Tribunale di Bologna n. 2268/2019, depositato

in data 13.5.2019.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18.3.2020 dal

Consigliere Fortunato Giuseppe.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Bologna, confermando la pronuncia del locale tribunale, ha respinto la domanda di protezione internazionale proposta da R.J..

Il ricorrente aveva dedotto di esser nato e di aver vissuto in Benin City, nell’Edo State della Nigeria, di aver frequentato la scuola e di aver svolto nel paese di origine l’attività di piastrellista; che, a causa di dissidi familiari, si era allontanato dalla casa paterna con la propria madre e che era stato costretto a farsi carico del sostentamento di quest’ultima e degli altri fratelli; di essersi spostato in Libia da dove, a causa della difficile situazione locale, era giunto in Italia, ove aveva svolto l’attività di imbianchino, aveva frequentato corsi di lingua, aveva seguito un patto formativo per attività agricole.

Il tribunale, ritenute credibili le dichiarazioni del ricorrente, ha negato lo status di rifugiato, osservando che il ricorrente non aveva neppure addotto fattori di persecuzione riconducibili al novero dei motivi elencati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, nè il rischio di subire, in caso di rientro nel Paese di origine, una delle forme di danno grave alla persona tipizzate dal successivo art. 14 per il riconoscimento della protezione sussidiaria, avendo rappresentato condizioni di difficoltà economiche nel Paese d’origine, descritte in maniera generica dinanzi alla Commissione territoriale e in giudizio (senza la produzione di documenti attinenti alla sua specifica situazione personale e familiare), e che non risultavano aver mai assunto, secondo lo stesso racconto del ricorrente, caratteristiche tali da far ritenere che, in caso di rientro in Patria, questi avrebbe dovuto affrontare seri pericoli per la sua sopravvivenza ovvero condizioni di vita inumane o degradanti.

Alla luce di quanto risultante da fonti internazionali accreditate, il giudice di merito ha ritenuto che nell’Edo State – regione di provenienza del ricorrente – non sussistesse una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato interno tale da porre in pericolo la popolazione civile, osservando che “l’area critica in Nigeria era limitata, sia sotto il profilo della sicurezza sia sotto quello dell’emergenza umanitaria, agli Stati di Borno, Yobe e Adamawa, oltre alle regioni limitrofe”.

Quanto alla richiesta di protezione umanitaria, il decreto ha escluso la sussistenza di una condizione seria e grave di vulnerabilità da tutelare, in mancanza di specifici indicatori di necessità di protezione dal punto di vista soggettivo o oggettivo, soggiungendo che l’avere il ricorrente intrapreso con profitto lo studio della lingua italiana, lo svolgimento di attività formativa come operatore agricolo ed un lavoro a tempo determinato non ostava al rientro in patria, dove peraltro si collocavano tutti i riferimenti familiari, non risultando “un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa”.

Riguardo al periodo trascorso in Libia, il tribunale ha osservato che, per la valutazione della sussistenza dei presupposti della protezione, occorre aver riguardo solo alla situazione del Paese di provenienza, facendo rilevare che il ricorrente non aveva neppure addotto peculiari conseguenze derivanti dalla temporanea permanenza (sotto il profilo psicofisico) nel paese di transito, tali da assumere rilievo per la valutazione dei conseguenti profili di vulnerabilità.

La cassazione del decreto è chiesta da R.J. con ricorso in un unico motivo.

Il Ministero dell’interno è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamentando: a) che l’audizione, sia in commissione che dinanzi al tribunale, si era svolta in modo da non consentire al ricorrente di far emergere in modo logico ed ordinato tutti gli elementi utili a giustificare la richiesta di protezione internazionale, essendo stata “avallata una traduzione semanticamente non limpida”; b) che il tribunale abbia respinto le richieste di protezione con una motivazione stereotipata, violando il dovere di cooperazione istruttoria, non avendo acquisito informazioni sul paese di provenienza o elementi utili a confermare l’attendibilità dei fatti dedotti, gravando il ricorrente dell’onere della prova dei presupposti per la concessione del diritto di asilo.

Il ricorrente sostiene inoltre di aver chiaramente rappresentato il rischio di subire trattamenti inumani a causa dei debiti contratti nel paese di origine, senza che il tribunale abbia tenuto conto di tale condizione di vulnerabilità, omettendo di compararla al grado di integrazione conseguito in Italia.

Il motivo è infondato.

Il tribunale, ritenuto attendibile il racconto del richiedente asilo e rilevato che, già dinanzi alla Commissione territoriale, le ragioni che avevano indotto il R. a spostarsi in Libia non erano riconducibili ad una situazione di totale ed assoluta condizione di deprivazione della famiglia, ha ritenuto che i fatti dedotti non integrassero il rischio di persecuzionèl’ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8 (ai fini dell’attribuzione dello status di rifugiato), rilevando inoltre come non fosse stato neppure paventato il pericolo, in caso di rientro nel Paese di origine, di una delle forme di danno grave alla persona tipizzate dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, per il riconoscimento della protezione sussidiaria.

La domanda si fondava – invero – sull’allegazione di condizioni di conflitto familiare e di difficoltà derivanti dall’indebitamento determinato dalla necessità di far fronte alle esigenze economiche dei più stretti congiunti. Con riferimento all’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), il giudice, svolgendo il ruolo di cooperazione istruttoria che gli competeva, ha approfondito la situazione del paese di provenienza sulla base di informazioni desunte da fonti accreditate, giungendo motivatamente ad escludere una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato interno, specie con riferimento alla regione di provenienza del ricorrente (Edo State). Quanto alla protezione umanitaria, il decreto ha correttamente evidenziato che l’eventuale pericolo di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani” deve essere necessariamente correlata alla vicenda personale del richiedente e che – nello specifico – l’interessato aveva prospettato condizioni di difficoltà economiche nel Paese d’origine che, oltre ad essere state dedotte in maniera generica, non prospettavano già in astratto – il rischio di subire, in caso di rientro in patria, ovvero condizioni di vita inumane o degradanti”.

Il diniego della protezione internazionale non appare – dunque conseguenza di un deficit di attendibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo (ritenute, al contrario, credibili), del mancato assolvimento dell’onere della prova o dell’omessa valutazione di tutte le circostanze allegate (dovuta ad una non limpida traduzione delle dichiarazioni rese dinanzi alla Commissione), quanto della ritenuta insussistenza dei relativi presupposti di legge, sia alla luce delle stesse allegazioni difensive con cui il R. aveva in realtà descritto “una storia di migrazione per motivazioni essenzialmente economiche, peraltro del tutto soggettive e non connotate da situazioni di contesto”, sia in base alle informazioni riguardanti la situazione della Nigeria (quanto alle ipotesi si cui all’art. 14, lett. c).

Va – inoltre – escluso il denunciato vizio di motivazione, poichè, come si è detto, la pronuncia ha evidenziato in modo del tutto congruo le ragioni che hanno condotto al rigetto della domanda.

In mancanza della stessa allegazione di una delle ragioni giustificative per la concessione della protezione internazionale, non operava l’obbligo di collaborazione istruttoria gravante sul giudice (e comunque assolto nei limiti di cui si è detto), apparendo la richiesta di protezione di per sè non meritevole di accoglimento.

Con riferimento alle forme di protezione che si basano sulla personalizzazione del rischio contemplato dalla disciplina (quale la stessa protezione umanitaria, nonchè le ipotesi ricadenti nella previsione del D.Lgs. n. 251 del 2007), l’adempimento dell’onere di allegazione di vicende riconducibili ai presupposti di legge costituisce un prius rispetto all’attivazione dei poteri officiosi di indagine e all’adempimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria che grava sul giudice, tenuto ad indagare pur sempre sulle circostanze ed i presupposti posti a fondamento della domanda (Cass. 2954/2020; Cass. 8819/2020).

Come ha precisato il decreto impugnato, le vicende narrate dal richiedente asilo non rappresentavano una condizione di vulnerabilità soggettiva correlata alla situazione del paese di origine. Difatti, tra i motivi per i quali è possibile accordare la protezione umanitaria non rientra di per sè il versare in condizioni di difficoltà economica anche seria, necessitando, invece, che tale condizione sia l’effetto o sia comunque ricollegabile ad una violazione dei diritti umani cui sia esposto il richiedente nel Paese di provenienza, in conformità al disposto degli artt. 2, 3 e 4 della CEDU, pur potendo dipendere tale condizione di vulnerabilità dalla mancanza dei mezzi di sussistenza (Cass. s.u. 29459/2019; Cass. 4455/2018; Cass. 28015/2017; Cass. 26641/2016).

In difetto di tali presupposti, non è doverosa alcuna comparazione tra la situazione originaria e quella risultante dall’inserimento sociale e lavorativo in Italia, poichè quest’ultima, isolatamenteinon è da sola sufficiente per la concessione della protezione umanitaria. (Cass. 4455/2018; Cass. s.u. 29459/2019).

Il ricorso è quindi respinto.

Nulla sulle spese, non avendo il Ministero dell’interno svolto difese. Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda sezione civile, il 3 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2020

 

 

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