Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23785 del 28/10/2020

Cassazione civile sez. II, 28/10/2020, (ud. 23/06/2020, dep. 28/10/2020), n.23785

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ugo – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22374-2019 proposto da:

A.K., elettivamente domiciliato a L’AQUILA, VIA ENRICO

DE NICOLA 1/A, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRA DI TOMMASO,

che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente-

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di L’AQUILA, depositato il

25/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/06/2020 dal Consigliere DE MARZO GIUSEPPE.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto depositato il 25 giugno 2019 il Tribunale di l’Aquila ha respinto la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato, e, in subordine, della protezione sussidiaria e per motivi umanitari invocata da A.K., cittadino nigeriano.

2. Per quanto ancora rileva, il Tribunale ha ritenuto: a) che le circostanze fattuali esposte dal richiedente si riducessero ad una mera vicenda privata, non riconducibile ad ipotesi di persecuzione; b) che non ricorressero i presupposti della invocata protezione sussidiaria, perchè, se è vero che il pericolo di danno grave può anche provenire da agenti non statali, è anche vero che deve trattarsi di agenti che abbiano il potere di infliggere sanzioni previste per la violazione di un sistema di valori condiviso dalla collettività; c) che, peraltro, nel caso di specie, il richiedente aveva denunciato le aggressioni riconducibili allo zio (che avevano anche provocato la morte del padre), al punto che quest’ultimo era ricercato dalle autorità nigeriane; c) che il rapporto annuale di Amnesty International 2017/2018 faceva riferimento a diffuse violazioni dei diritti umani, ad arresti arbitrari eseguiti dalle forze di polizia, a trattenimenti illegittimi, a episodi di tortura e maltrattamenti, in tal modo rilevando un quadro caratterizzato da una diffusa privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani; d) che, tuttavia, la storia personale del ricorrente, valutata nella sua individualità e concretezza, non era segnata da episodi nei quali si fosse confrontato con le criticità dell’impianto democratico, dal momento che era fuggito per contrasti con lo zio paterno; e) che il richiedente neppure aveva dimostrato di avere intrapreso in Italia un percorso serio di integrazione nè apparteneva ad una delle categorie per le quali è stabilito il principio di non respingimento.

3. Avverso tale decreto, nell’interesse del soccombente, è stato proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. Il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 della “Convenzione di Ginevra”, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Si osserva, quanto all’invocato status di rifugiato: a) che il Tribunale aveva omesso di valutare l’effettività della tutela che il richiedente avrebbe potuto conseguire, attraverso la denuncia alle autorità nigeriane, ed era pertanto venuto meno al dovere di cooperazione istruttoria; b) che, nel contesto dell’incapacità statuale di tutelare i diritti, erano fondati i timori del richiedente – peraltro di religione cristiana – di trovarsi esposto, dopo le denunce presentate a seguito dell’uccisione del padre, ad una situazione di pericolo per la propria vita e libertà individuale.

Con riguardo alla protezione sussidiaria, il ricorrente insiste nel sostenere di trovarsi esposto alle minacce provenienti dallo zio rilevanti ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), – e aggiunge che in Nigeria sono documentate forme di compressione dei diritti umani, con la conseguenza che nuovi contrasti fra opposte fazioni politiche integrano il rischio di danno grave, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. O.

Si aggiunge che l’assenza di una rete familiare e dei beni sottrattigli dallo zio esporrebbe il richiedente ad una condizione di indigenza, oltre che alle aggressioni dirette nei confronti dei cristiani.

Il motivo è infondato.

Con riguardo allo status di rifugiato, è esatto che la vicenda narrata non identifica alcuno degli atti di persecuzione indicati dal D.Lgs. n. 25 del 2007, art. 7 e la menzione incidentale – che talora ricorre nell’atto di impugnazione – della religione cristiana è del tutto slegata dalle vicende poste a base della richiesta di protezione internazionale e non è correlata ad alcun dato oggettivo della specifica situazione del ricorrente.

Quanto alla protezione sussidiaria, è certo esatto che la nozione di trattamento umano e degradante viene ricostruita dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che non può essere confinata al caso in cui il pericolo di danno grave, proveniente da agenti non statali, deve essere espressivo di un potere di infliggere sanzioni previste per la violazione di un sistema di valori condiviso dalla collettività.

Così si è ritenuto che, avuto riguardo alla libertà religiosa dello straniero, il diritto a tale forma di protezione non può essere escluso dalla circostanza che il danno grave possa essere provocato da soggetti privati, qualora nel Paese d’origine non vi sia un’autorità statale in grado di fornire adeguata ed effettiva tutela, con conseguente dovere del giudice di effettuare una verifica officiosa sull’attuale situazione di quel Paese e, quindi, sull’eventuale inutilità di una richiesta di protezione alle autorità locali (Cass. 21 ottobre 2019, n. 26823).

In altre parole, un trattamento inumano o degradante, in quanto destinato ad incidere sui valori che fondano la dignità della persona, può ben essere colto, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), nella minaccia alla incolumità personale proveniente da soggetti non statuali (non necessariamente a fini sanzionatori di norme condivise da una collettività non ben definita nei suoi contorni), quando le autorità statuali non possano o non vogliano fornire protezione.

Ciò precisato, tuttavia, il decreto impugnato aggiunge anche che lo zio, autore, unitamente a terzi, di aggressioni, era ricercato dalla polizia, secondo quanto ammesso dallo stesso richiedente, con la conseguenza che, a venir meno, è proprio il presupposto dell’assenza di una tutela statuale. E siffatto profilo fattuale non è oggetto di alcuna contestazione da parte del ricorrente.

2. Con il secondo motivo si lamenta erronea, contraddittoria e carente motivazione, con riguardo al mancato riconoscimento della sussistenza dei cd. motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, sottolineando la mancata valutazione della situazione sociale e politica del Paese di provenienza e la partecipazione ai corsi di lingua italiana e ai laboratori organizzati dal centro che lo ospita.

La doglianza è inammissibile.

Al di là dell’improprio richiamo al contenuto dello specifico vizio individuato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la censura, nei termini in cui è formulata, insiste del tutto assertivamente nella possibilità che il ricorrente rimanga vittima dei conflitti etnici e politii e degli abusi delle forze dell’ordine e deduce lo svolgimento di ordinarie attività dei centri di accoglienza, inidonee, già sul piano delle mere deduzioni, a rivelare una effettiva integrazione.

3. In conseguenza, il ricorso va rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, alla luce del valore e della natura della causa nonchè delle questioni trattate.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese di controparte, che liquida in Euro 2.100,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2020

 

 

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