Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23780 del 01/10/2018

Cassazione civile sez. lav., 01/10/2018, (ud. 29/05/2018, dep. 01/10/2018), n.23780

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12082-2016 proposto da:

S.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI 209,

presso lo studio dell’avvocato SPARTACO GABELLINI, che lo

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

VARUSA STRADE S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38,

presso lo studio dell’avvocato ALBERTO DI NATALE, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato LIDIA TAMAGNINI, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8038/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/11/2015 r.g.n. 4199/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/05/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE ALBERTO, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato SPARTACO GABELLINI;

udito l’Avvocato ALBERTO DI NATALE.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Varusa Strade s.r.l. propose appello avverso la sentenza n.7340/14 del Tribunale di Roma con la quale era stata accolta l’impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto dalla medesima società nei confronti di S.A. il giorno (OMISSIS) e, per l’effetto, era stata dichiarata la illegittimità del recesso con ordine alla società resistente di immediata reintegrazione nel suo posto di lavoro, con le mansioni svolte “al momento del recesso, con condanna della società resistente al pagamento di tutte le retribuzioni globali di fatto instaurate dalla data del licenziamento sino alla effettiva reintegra, con gli interessi legali e la rivalutazione monetaria e con condanna alla regolarizzazione della sua posizione contributiva e previdenziale (detratto l’aliunde perceptum e quanto percepito dal ricorrente ai sensi dell’art. 423 c.p.c. a titolo di t.f.r.).

Lamentava che il primo giudice aveva erroneamente rilevato che entrambe le motivazioni poste a base del licenziamento (“Problemi meccanici, di usura e vetustà dell’autocarro da Lei condotto; Mancanza di lavoro, che ci costringe ad una riduzione del personale”), non erano state sufficientemente provate dalla società.

Si costituiva il S. resistendo al gravame.

Con sentenza depositata il 23.11.15, la Corte d’appello di Roma accoglieva il gravame, ritenendo sussistenti le ragioni oggettive e di crisi aziendale poste alla base del licenziamento, rigettando la domanda proposta dal S., che condannava al pagamento delle spese. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso quest’ultimo, affidato a tre motivi. Resiste la società con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.-Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 116,345 e 437 c.p.c., artt. 2697e 2704 c.c., oltre ad omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Lamenta che la corte di merito ammise, in contrasto con le norme denunciate, la documentazione prodotta dalla società Varusa sol perchè essa si era formata dopo la proposizione del gravame, mentre doveva considerarsi inammissibile perchè mai prodotta in precedenza. Lamenta ancora che taluni documenti (autorizzazione al collocamento in CIG di taluni lavoratori, prodotto a fini conciliativi) vennero solo allegati al verbale di udienza di primo grado del 18.6.14.

Il motivo è infondato, avendo questa Corte a sezioni unite (sent. n. 8202/05) affermato il principio, successivamente consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui nel rito del lavoro, in base al combinato disposto dell’art. 416 c.p.c., comma 3, che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare – onere probatorio gravante anche sull’attore per il principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977 – e art. 437 c.p.c., comma 2, che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova – fra i quali devono annoverarsi anche i documenti -, l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo); e la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello.

Tale rigoroso sistema di preclusioni trova peraltro un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437 c.p.c., comma 2, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse.

Nella specie i documenti ammessi sono risultati essersi formati successivamente alla sentenza di primo grado e riguardano fatti tempestivamente allegati dalle parti, sicchè risultano ammissibili alla luce dei principi esposti.

Deve del resto rilevarsi che la pronuncia invocata dal ricorrente (Cass. S.U. n. 14475/15) ha affermato il principio per cui l’art. 345 c.p.c., comma 3, (nel testo introdotto dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 52 con decorrenza dal 30 aprile 1995) va interpretato nel senso che i documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo e rimasti a disposizione della controparte, agli effetti dell’art. 638 c.p.c., comma 3, seppur non prodotti nuovamente nella fase di opposizione, rimangono nella sfera di cognizione del giudice di tale fase, in forza del principio “di non dispersione della prova” ormai acquisita al processo, e non possono perciò essere considerati nuovi, sicchè, ove siano in seguito allegati all’atto di appello contro la sentenza che ha definito il giudizio di primo grado, devono essere ritenuti ammissibili.

A tal scopo è evidentemente irrilevante che il documento inerente l’autorizzazione alla CIG sia stato prodotto a (dedotti) soli scopi conciliativi, essendo stato allegato al verbale di udienza.

2.- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5 e artt. 1362 e segg. c.c., oltre ad omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Lamenta che la sentenza impugnata, quanto al cd. obbligo di repechage, ritenne erroneamente che doveva esigersi dal lavoratore un onere di collaborazione nell’individuazione di altri posti di lavoro disponibili ed utili, mentre nella specie il S. si era limitato a dedurre, peraltro in modo del tutto generico, la possibilità di essere assegnato alla società presso altro posto di lavoro (pag. 4 sentenza impugnata).

Il motivo è infondato.

E’vero infatti che questa Corte ha affermato (cfr. Cass. n. 5592/16) che in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di “repechage” del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri. L’orientamento è stato confermato da Cass. n. 12101/16, Cass. n. 24882/17.

In quest’ultima pronuncia è stato tuttavia chiarito che, giusta i principi generali, il datore di lavoro può assolvere tale onere anche mediante il ricorso a presunzioni.

Sotto questo profilo ritiene il Collegio che l’impossibilità di repechage sia stata implicitamente accertata dalla sentenza impugnata attraverso l’esame della documentata crisi, la mancanza di successive assunzioni e soprattutto dall’accertamento che poco dopo il licenziamento tutto il personale venne collocato in CIG, escludendo così la possibilità di un utile diverso impiego del S..

3.- Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5 e artt. 1362 e segg. c.c., oltre ad omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Lamenta che le ragioni poste a base del licenziamento non erano state adeguatamente dimostrate dalla società datrice di lavoro (oltre al mancato deposito dei bilanci aziendali) e configgevano con altre circostanze indicate in ricorso.

Il motivo è inammissibile in quanto sostanzialmente diretto, nel regime di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, novellato n. 5 ad una rivalutazione dei fatti già accertati dal giudice del merito.

4.- Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro.200,00 per esborsi, Euro.4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a.. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 29 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2018

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