Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23750 del 28/10/2020

Cassazione civile sez. un., 28/10/2020, (ud. 13/10/2020, dep. 28/10/2020), n.23750

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Primo Presidente f.f. –

Dott. MANNA Felice – Presidente di sez. –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14114-2019 proposto da:

CPDR S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSTABELLA 23, presso lo

studio dell’avvocato LEONARDO LAVITOLA, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

ROMA CAPITALE, (già COMUNE DI ROMA), in persona della Sindaca pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE

21, presso gli Uffici dell’Avvocatura Capitolina, rappresentata e

difesa dall’avvocato Dott. ANDREA MAGNANELLI;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1107/2019 del CONSIGLIO DI STATO, depositata

il 18/02/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

13/10/2020 dal Consigliere Dott. GIACOMO MARIA STALLA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

p. 1. La CPDR srl propone ricorso – ex art. 111 Cost., comma 8, – per la cassazione della sentenza n. 1107 del 18 febbraio 2019 con la quale il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, ha rigettato l’appello da essa proposto avverso la sentenza Tar Lazio n. 9010/17 di rigetto dell’originario ricorso per l’annullamento della Det. Dirig. n. 154 del 2012 (e dei conseguenti provvedimenti sulla demolizione); determina con cui l’Ufficio Condono Edilizio di Roma Capitale aveva respinto la domanda di sanatoria relativa ad un complesso immobiliare, a prevalente destinazione commerciale, ivi sito in via (OMISSIS).

Il Consiglio di Stato, in accordo con i primi giudici, ha rilevato che:

– la legislazione condonistica di riferimento andava individuata nella L.R. Lazio n. 12 del 2004, art. 2, comma 1, lett. a) (c.d. terzo condono), secondo cui la sanatoria concerneva le opere che, tra gli altri requisiti, non avessero comportato “un ampliamento del manufatto superiore al 20% della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, superiore a 200 metri cubi”;

– tale disposizione riproduceva nella struttura, in ambito regionale, la previsione statuale di cornice del D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 25, convertito in L. n. 326 del 2003, secondo cui la sanatoria poteva essere riconosciuta solo per le opere che non avessero comportato “un ampliamento del manufatto superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a 750 metri cubi”;

– quest’ultima disposizione era già stata interpretata dalla giurisprudenza della medesima sezione del Consiglio di Stato (sent. nn. 3034/13 e 5892/18) nel senso della cumulatività dei requisiti dimensionali, dovendosi ritenere che il condono fosse riconoscibile ad opere che fossero, al contempo, non superiori al 30% della volumetria originaria e non comportanti un ampliamento superiore a 750 m3;

– l’interpretazione così adottata trovava fondamento nella natura eccezionale e non estensibile della normativa sul condono, oltre che nella ratio (già evidenziata dal parere 10 febbraio 2009 dell’Ufficio Legislativo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) di escludere in ogni caso la sanatoria per gli abusi più rilevanti, dal legislatore individuati, indipendentemente dal parametro percentuale, in quelli di cubatura comunque superiore a quella massima (200 mc) indicata dalla legge regionale;

– ciò posto, nella specie legittimo era stato il diniego di condono, dal momento che l’ampliamento concretamente eseguito sull’immobile in oggetto, ancorchè effettivamente contenuto entro il limite del 20% della originaria volumetria (1374 metri cubi su complessivi 9000), risultava purtuttavia superiore al limite massimo fissato dalla legge regionale in 200 metri cubi.

Il Comune di Roma – Roma Capitale non ha svolto difese nel presente giudizio.

La società ricorrente ha depositato memoria.

p. 2. Con l’unico articolato motivo di ricorso la società lamenta eccesso di potere giurisdizionale per travalicamento dei limiti esterni della giurisdizione ed invasione della sfera di competenza del legislatore e della Corte Costituzionale, per avere il Consiglio di Stato deciso la controversia:

– in applicazione dei criteri interpretativi pertinenti alla sola disciplina statuale, nonostante che le Regioni (a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 196/2004 che aveva dichiarato illegittimo il D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 25, cit., tra il resto, nella parte in cui non permetteva ad esse di determinare limiti volumetrici di condonabilità anche inferiori a quelli indicati nella disposizione in questione) fossero ammesse ad un’autonoma disciplina del condono, variamente adottata sul territorio nazionale; da ciò derivava che il Consiglio di Stato avesse travalicato i limiti della propria giurisdizione ignorando la portata regionalista della suddetta sentenza della Corte Costituzionale e violando l’assetto costituzionale del rapporto normativo Stato-Regioni;

senza tenere conto di quanto stabilito in altra sentenza della Corte Costituzionale (n. 49/2006) che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale di una norma regionale richiamante quella statale (L.R. Lombardia n. 31 del 2004, art. 2, comma 1), aveva rimarcato la natura alternativa, e non cumulativa, dei parametri dimensionali legittimanti il condono; il che aveva comportato una ulteriore invasione del Consiglio di Stato nelle competenze riservate al giudice delle leggi, mediante l’introduzione nell’ordinamento “di una disciplina normativa diversa da quella che emerge, in modo vincolante, dalla ricostruzione del sistema alla luce delle sentenze nn. 196/2004 e 49/2006” della Corte Costituzionale;

nell’acritico e superficiale recepimento di due sentenze della medesima sezione, nonostante che di tali sentenze (non pertinenti alla presente fattispecie) fosse stata data una lettura del tutto svincolata dal pur chiaro tenore della legge regionale (alternatività dei parametri volumetrici), e che nel vigente ordinamento sull’esercizio della funzione giurisdizionale il primato spettasse alla legge (art. 101 Cost., comma 2) e non al precedente giurisprudenziale.

Per l’ipotesi in cui si fosse escluso che i vizi lamentati integrassero motivo di giurisdizione per invasione delle sfere riservate al legislatore ed al giudice delle leggi, la ricorrente propone questione di legittimità costituzionale degli artt. 362 c.p.c., comma 1 e art. 110 codice processo amm.vo, con riferimento agli artt. 3,111 e 113 Cost., in quanto inidonee ad assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettivà, secondo il criterio dinamico o funzionale di giurisdizione elaborato dalle SSUU della Corte di Cassazione; infatti, le norme in questione, che regolano i casi di impugnazione delle sentenze rese dal Consiglio di Stato, si porrebbero in contrasto con i precetti costituzionali posti a presidio della effettività e completezza della tutela giurisdizionale.

p. 3.1 Il ricorso è inammissibile perchè volto ad individuare un’ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale da parte del Consiglio di Stato, per invasione delle sfere attribuite al legislatore regionale ed alla Corte Costituzionale, in quella che altro non è stata se non ordinaria estrinsecazione della potestà giurisdizionale di interpretazione della legge vigente così come ritenuta applicabile alla fattispecie concreta.

Queste Sezioni Unite hanno innumerevoli volte affermato (tra le molte, Cass.SSUU n. 956/17, con ulteriori richiami) che il ricorso per cassazione avverso le pronunce del Consiglio di Stato è consentito solo per motivi inerenti alla giurisdizione, secondo quanto previsto dall’art. 111 Cost., comma 8 (oltre che dall’art. 362 c.p.c. e dall’art. 110 cpa) e, quindi:

– nell’ipotesi in cui la sentenza abbia violato l’ambito della giurisdizione in generale, cioè esercitando la giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure negando la giurisdizione sull’erroneo presupposto che la domanda non potesse costituire in modo assoluto oggetto di esame giurisdizionale;

– nell’ipotesi di violazione dei cosiddetti limiti esterni della propria giurisdizione, cioè giudicando in materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, oppure negando la propria giurisdizione sull’erroneo presupposto che questa spetti ad altro giudice, oppure esercitando un sindacato di merito in materia attribuita esclusivamente alla propria giurisdizione di legittimità degli atti amministrativi.

Questo indirizzo vale ad escludere l’ammissibilità del ricorso per cassazione che sia finalizzato, nella sua portata sostanziale, a lamentare solo un cattivo esercizio da parte del Consiglio di Stato della propria giurisdizione, cioè un vizio che attiene all’esplicazione interna del potere giurisdizionale conferito dalla legge a detto giudice.

Sulla questione è intervenuta – e ciò dissolve anche i dubbi di legittimità costituzionale qui sollevati dalla ricorrente – la Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 6/2018, dalla quale si trae conferma del fatto che il ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti previsto dall’art. 111 Cost., comma 8 per i soli motivi inerenti alla giurisdizione – non può riguardare anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando, in quanto una siffatta opzione interpretativa, basata su un adattamento dinamico-evolutivo del concetto stesso di giurisdizione, si porrebbe senz’altro in contrasto con la lettera e lo spirito della norma costituzionale. Sicchè “l’eccesso di potere giudiziario, denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei Conti affermino la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghino sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonchè a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici” (C.Cost. sent. cit.).

Cass.SS.UU.n. 8311/19 ha osservato che, in applicazione della citata sentenza del giudice delle leggi, il sindacato della Corte di cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione “concerne le ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione per invasione o sconfinamento nella sfera riservata ad altro potere dello Stato ovvero per arretramento rispetto ad una materia che può formare oggetto di cognizione giurisdizionale, nonchè le ipotesi di difetto relativo di giurisdizione, le quali ricorrono quando la Corte dei Conti o il Consiglio di Stato affermino la propria giurisdizione su materia attribuita ad altro giudice o la neghino sull’erroneo presupposto di quell’attribuzione.

Dovendosi configurare – in particolare – l’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento o invasione della sfera riservata al legislatore “solo allorchè il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete, e non invece quando si sia limitato al compito interpretativo che gli è proprio, anche se tale attività ermeneutica abbia dato luogo ad un provvedimento abnorme o anomalo ovvero abbia comportato uno stravolgimento delle norme di riferimento, atteso che in questi casi può profilarsi, eventualmente, un error in iudicando, ma non una violazione dei limiti esterni della giurisdizione” (tra le molte, v. anche Cass.SS.UU.nn. 30653/18; 7926/19; 29082/19; 413/20).

p. 3.2 Orbene, nel caso di specie, che non si verta di una delle rassegnate ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento o invasione della sfera del legislatore o di altro potere dello Stato, discende dall’evidenza del fatto che il Consiglio di Stato, nel regolare la lite, non ha in alcun modo creato una nuova norma, nè ha applicato alla fattispecie una norma per essa non prevista.

Esso ha infatti applicato al condono in oggetto, non la legge statale (D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 25, convertito in L. n. 326 del 2003), ma proprio la citata L.R. Lazio n. 12 del 2004, richiamando sì la prima, ma solo quale elemento di utile interpretazione conformativa della seconda, in quanto:

– legge cornice nel cui ambito doveva trovare fondamento e limite la potestà legislativa regionale in materia di condono;

– recante una struttura ed una ratio (di ritenuta cumulatività, non alternatività, dei requisiti dimensionali di ammissibilità al beneficio) recepite e fatte proprie, in identica maniera, dalla legge regionale applicabile al caso.

Non può in proposito non evidenziarsi come il parametro ostativo al condono sia stato infatti individuato, in concreto, nel superamento dei 200 mc della legge regionale, e non nei 750 mc della legge statale.

Il che dimostra come il ragionamento seguito dal Consiglio di Stato, lungi dal dare luogo alla creazione di una nuova norma regionale, ovvero alla sostituzione di questa con una norma statale – con conseguente invasione della sfera di discrezionalità riservata al legislatore regionale – si sia piuttosto concretato in un tipico esercizio di attività interpretativa che certo non deborda dall’ambito del potere ad esso attribuito dalla legge.

Tutt’altro profilo è quello concernente il merito della soluzione interpretativa così accolta dal giudice amministrativo ma, come detto, la valutazione sul punto attiene alle modalità interne di esercizio della giurisdizione ed è quindi insuscettibile di sindacato ai sensi dell’art. 362 c.p.c. o 110cod. proc. amm. (v. Cass.SSUU n. 16959/18).

Quanto, poi, al richiamo di precedenti giurisprudenziali conformi, basterà osservare come esso sia stato nella sentenza qui impugnata dedotto quale mero elemento interpretativo e critico di convincimento e persuasione, dunque non in quanto istituto vincolante e preclusivo di un diverso orientamento. Dal che risulta inconsistente la tesi dello stravolgimento dei principi ispiratori dell’ordinamento circa il primato della legge nell’attività giurisdizionale di interpretazione (che, nella legge, trova piuttosto il proprio oggetto), così come paventato dalla ricorrente.

p. 3.3 Va dato conto anche dell’ulteriore profilo di doglianza secondo cui, così facendo, il Consiglio di Stato avrebbe violato la ripartizione di potestà legislativa Stato-Regioni come delineata, proprio in materia condonistica, dalle menzionate sentenze della Corte Costituzionale.

Si tratta di profilo a sua volta destituito di fondamento, perchè l’interpretazione del Consiglio di Stato (e quindi l’esercizio della giurisdizione affidatagli) è stata rivolta, per le già indicate ragioni, proprio alla legge regionale ed alla sua portata letterale e finalistica; con ciò attuandosi – e non negandosi – nel caso concreto la volontà del legislatore regionale, al quale non è affatto stata disconosciuta dal giudice amministrativo la potestà di disciplinare autonomamente i presupposti del condono (C. Cost. n. 196/04).

Neppure può dirsi esserci stato sconfinamento integrante violazione del riparto di funzione legislativa Stato-Regioni secondo quanto desumibile dalla pure invocata sentenza della C.Cost n. 49/06, la quale – per un verso – ha richiamato quanto in proposito già stabilito dalla precedente sentenza in ordine all’atteggiarsi di tale riparto nella materia, di competenza concorrente, del condono straordinario e del governo del territorio e – per altro – ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale di norma analoga a quella qui rilevante (L.R. Lombardia n. 31 del 2004, art. 2, comma 1), senza subordinare tale affermazione di infondatezza ad una determinata e necessitata applicazione dei parametri dimensionali legittimanti la sanatoria. Profilo, quest’ultimo, comunque di nuovo strettamente attinente ai limiti interni della giurisdizione (la cui violazione darebbe, al più, luogo ad un errore di giudizio) e non ai limiti esterni della giurisdizione riferiti al riparto legislativo Stato-Regioni.

p. 3.4 Infine inconferente è il richiamo, operato dalla società ricorrente nella memoria, alla recente ordinanza di queste SSUU n. 19598/20, il cui (primo) quesito interpretativo pregiudiziale rivolto alla CGUE è così formulato: “Se l’art. 4, paragrafo 3, art. 19, paragrafo 1 TUE e art. 2, paragrafi 1 e 2 e art. 267 TFUE, letti anche alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ostino ad una prassi interpretativa come quella concernente l’art. 111 Cost., comma 8, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e art. 362 c.p.c., comma 1, e art. 110 codice del processo amministrativo – nella parte in cui tali disposizioni ammettono il ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato per “motivi inerenti alla giurisdizione” – quale si evince dalla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018 e dalla giurisprudenza nazionale successiva che, modificando il precedente orientamento, ha ritenuto che il rimedio del ricorso per cassazione sotto il profilo del cosiddetto “difetto di potere giurisdizionale”, non possa essere utilizzato per impugnare sentenze del Consiglio di Stato che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale configgenti con sentenze della Corte di giustizia, in settori disciplinati dal diritto dell’Unione Europea (nella specie, in tema di aggiudicazione degli appalti pubblici) nei quali gli Stati membri hanno rinunciato ad esercitare i loro poteri sovrani in senso incompatibile con tale diritto, con l’effetto di determinare il consolidamento di violazioni del diritto comunitario che potrebbero essere corrette tramite il predetto rimedio e di pregiudicare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione e l’effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive di rilevanza comunitaria, in contrasto con l’esigenza che tale diritto riceva piena e sollecita attuazione da parte di ogni giudice, in modo vincolativamente conforme alla sua corretta interpretazione da parte della Corte di giustizia, tenuto conto dei limiti alla “autonomia procedurale” degli Stati membri nella conformazione degli istituti processuali”.

Il fatto che il richiamo a questa ordinanza di rimessione difetti di ogni attinenza alla presente fattispecie è evidente, posto che non risulta in alcun modo (nè ciò viene meglio esplicitato dalla ricorrente) che la sentenza del Consiglio di Stato qui impugnata abbia fatto applicazione di “prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenze della Corte di giustizia, in settori disciplinati dal diritto dell’Unione Europea (…) nei quali gli Stati membri hanno rinunciato ad esercitare i loro poteri sovrani in senso incompatibile con tale diritto, con l’effetto di determinare il consolidamento di violazioni del diritto comunitario.”.

Nulla si provvede sulle spese, stante il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dei Comune di Roma.

PQM

La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso;

– v.to il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012;

– dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle sezioni unite civili, il 13 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2020

 

 

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