Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23737 del 28/10/2020

Cassazione civile sez. II, 28/10/2020, (ud. 09/09/2020, dep. 28/10/2020), n.23737

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25897/2017 proposto da:

D.M.L., elettivamente domiciliata in ROZZANO, VIA

TERRACINI, 43/45, presso lo studio dell’avvocato ROSARIO CLAUDIO

CAPUANA, che la rappresenta e difende giusta procura in atti;

– ricorrente –

contro

CASSA RURALE ED ARTIGIANA DI BINASCO, elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZA VESCOVIO 21, presso lo studio dell’avvocato TOMMASO

MANFEROCE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

SALVATORE MARCECA, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3608/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 04/08/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/09/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito il PUBBLICO MINISTERO, nella persona Sostituto Procuratore

Generale, Dott. MUCCI Roberto, che ha concluso per il rigetto del

ricorso;

udito l’Avvocato Capuana Rosario Claudio per la ricorrente e

l’Avvocato Marceca Salvatore per la controricorrente.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO DELLA DECISIONE

D.M.L. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Pavia con il quale le era stato ingiunto, quale erede di D.E., fideiussore della debitrice principale, D. Macchine Utensili, il pagamento, in solido con la società e gli altri fideiussori, della somma di Euro 413.165,52 in favore della Cassa Rurale ed Artigiana di Binasco.

A sostegno dell’opposizione deduceva che non aveva mai assunto la qualità di erede del debitore originario, avendo anzi nel 2012 espressamente rinunziato all’eredità paterna.

Nella resistenza dell’istituto di credito, il Tribunale adito con la sentenza n. 1037 del 15 settembre 2015 accoglieva l’opposizione, revocando il decreto opposto, in quanto riteneva che la documentazione prodotta non fosse idonea a dimostrare che l’opponente avesse accettato tacitamente l’eredità paterna. Avverso tale sentenza proponeva appello la Cassa Rurale ed Artigiana di Binasco e, nella resistenza dell’opponente, la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 3608 del 4 agosto 2017, in riforma della decisione gravata, rigettava l’opposizione. Secondo l’appellante l’accettazione tacita dell’eredità doveva ricavarsi da una serie di atti e comportamenti posti in essere dall’appellata, in quanto a soli due mesi dall’apertura della successione aveva acconsentito a che gli altri coeredi, S. ed A., trasferissero a favore dell’altra coerede, e comune genitrice, la somma ricavata da una vendita di un immobile del de cuius, avvenuta quando quest’ultimo era ancora in vita, ponendo in essere quindi una rinuncia abdicativa ex art. 478 c.c..

Ancora la D. aveva presentato una dichiarazione sostitutiva per uso successione ed una richiesta di esonero dalla presentazione della denunzia di successione, avendo altresì richiesto la certificazione delle passività bancarie e la quietanza per il ritiro del saldo attivo del conto corrente intestato al de cuius, avendo lo stesso curatore dell’eredità giacente attestato che la curatela doveva reputarsi cessata, per effetto dell’acquisto della qualità di eredi da parte dei tre germani D. e della vedova, M.L..

Ad avviso della Corte d’Appello la condotta dell’appellata andava complessivamente valutata e doveva essere considerata nell’arco dei quattro anni seguenti all’apertura della successione.

In tal senso, rilevava che, sebbene non fosse possibile accertare se effettivamente il bonifico della somma ricavata dalla vendita o il prelievo dei saldi attivi dei rapporti bancari del de cuius, fossero stati materialmente compiuti dalla D., risultava tuttavia che la stessa avesse contributo agli adempimenti amministrativi legati alla successione paterna, comparendo anche tra i dichiaranti nella dichiarazione resa ai fini dell’esonero dalla presentazione della denuncia di successione.

Inoltre, era la firmataria della richiesta di certificazione delle passività bancarie ed aveva rilasciato, unitamente ai fratelli, la quietanza per il ritiro dell’attivo del conto corrente.

Emergeva, quindi, un coinvolgimento dell’appellata nella gestione dei beni intestati al defunto padre, coinvolgimento che non poteva escludersi, non essendo emerso che la stessa fosse lontana dagli altri componenti del nucleo familiare, le cui scelte doveva ritenersi fossero state condivise e conosciute.

Ne derivava che la sua posizione era assimilabile a quella degli altri fratelli che avevano tenuto dei comportamenti e posto in essere degli atti sicuramente suscettibili di dare vita ad un’accettazione tacita dell’eredità.

Ne scaturiva altresì che la rinuncia all’eredità, avvenuta solo nel 2012, si palesava come tardiva ed inidonea ad incidere sull’ormai intervenuto acquisto della qualità di erede.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso D.M.L. sulla base di un unico ed articolato motivo.

La Cassa Rurale ed Artigiana di Binasco ha resistito con controricorso.

Le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

Diritto

RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Il motivo di ricorso risulta articolato in tre punti, e nel primo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione agli artt. 476,478,480 e 521 c.c. e ciò anche per inesatta valutazione della prova.

Si sostiene che la valutazione della condotta e dei comportamenti della ricorrente, quale operata dal giudice di appello sia destituita di fondamento, essendo invece corretta quella compiuta dal Tribunale.

In tal senso rileva che il bonifico in favore della madre del ricavato della vendita del bene appartenente in vita al de cuius era stato effettuato solo dai fratelli, essendo quindi escluso che possa ravvisarsi la fattispecie di cui all’art. 478 c.c..

Nè appare possibile sostenere che la ricorrente fosse consapevole dei debiti della società e del de cuius, atteso che aveva svolto solo delle mansioni impiegatizie, senza mai occuparsi della gestione dell’impresa paterna.

Era quindi onere della banca, anche a fronte dell’intervenuta rinuncia all’eredità, dimostrare che l’opponente aveva effettivamente assunto la qualità di erede.

Tutti i documenti su cui si fonda l’assunto della Corte territoriale hanno rilevo esclusivamente fiscale o comunque non denotano una concreta ingerenza nella gestione del patrimonio ereditario da parte della ricorrente.

Il secondo punto denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione agli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., in quanto l’impianto motivazionale della Corte d’Appello si fonda esclusivamente su presunzioni e risulta in contrasto con la documentazione in atti.

Manca la prova che D.A., fratello della ricorrente ed autore di molti degli atti e delle condotte valorizzate dalla Corte d’Appello, fosse il rappresentante della sorella.

Inoltre, si afferma che il de cuius fosse gravemente indebitato e che ciò fosse noto alla ricorrente, essendosi quindi pervenuti ad un’erronea valutazione delle prove.

Il terzo punto denuncia la falsa ed inesatta applicazione in relazione all’art. 113 c.p.c., degli artt. 752,754 e 1295 c.c.. Infatti, la sentenza d’appello, nell’accogliere il gravame, ha rigettato l’originaria opposizione avverso il decreto ingiuntivo, che prevedeva la condanna in solido di tutti i fideiussori, trascurando però la circostanza che la ricorrente, in quanto coerede rispetto all’eredità paterna, poteva rispondere dei debiti del de cuius solo in proporzione alla quota ereditaria vantata.

2. Il motivo deve essere rigettato.

Quanto ai primi due punti, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, deve escludersi che ricorrano le dedotte violazioni delle norme di diritto indicate in motivo, risolvendosi la censura essenzialmente in una contestazione circa l’apprezzamento in fatto operato dal giudice di merito, censura che però non può avere spazio in sede di legittimità.

Infatti, la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115, è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016).

Quanto, invece all’utilizzo delle presunzioni, va ricordato che l’art. 2729 c.c., nel prescrivere che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla “prudenza del giudice” (secondo una formula analoga a quella che si rinviene nell’art. 116 c.p.c., a proposito della valutazione delle prove dirette), impone al giudice di compiere l’inferenza logica dal fatto secondario (fatto noto) al fatto principale (fatto ignoto) sulla base di una regola d’esperienza che egli deve ricavare dal sensus communis, dalla conoscenza dell’uomo medio, dal sapere collettivo della comunità sociale in quel dato momento storico. Grazie alla regola d’esperienza adottata, è possibile per il giudice concludere che l’esistenza del fatto secondario (indizio) deponga, con un grado di probabilità più o meno alto, per l’esistenza del fatto principale.

Lo stesso art. 2729 c.c., si cura di precisare come debba manifestarsi la “prudenza” del giudice, stabilendo che il decidente deve ammettere solo presunzioni che siano “gravi, precise e concordanti”; laddove il requisito della “precisione” va riferito al fatto noto (indizio) che costituisce il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso non sia vago ma ben determinato nella sua realtà storica; il requisito della “gravità” va riferito al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere dal fatto noto; mentre il requisito della “concordanza” richiede che il fatto ignoto sia – di regola desunto da una pluralità di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza (cfr. Sez. L, Sentenza n. 11906 del 06/08/2003, Rv. 565726), anche se il requisito della “concordanza” deve ritenersi menzionato dalla legge solo per il caso di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi (Sez. 5, Sentenza n. 17574 del 29/07/2009, Rv. 609153).

Dal modello di prova per presunzioni configurato dalla legge, risulta che il giudice deve seguire un procedimento logico che si articola in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, presentino cioè una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, egli deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta considerando atomisticamente uno o alcuni indizi (Sez. 1, Sentenza n. 19894 del 13/10/2005, Rv. 583806). In questo secondo momento valutativo, perciò, gli indizi devono essere presi in esame e valutati dal giudice tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri allo scopo di verificare la concordanza delle presunzioni che da essi possono desumersi (c.d. convergenza del molteplice); dovendosi considerare erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Sez. 3, Sentenza n. 3703 del 09/03/2012, Rv. 621641).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto in forza di una regola d’esperienza – come conseguenza meramente probabile, secondo un criterio di normalità (Sez. 2, Sentenza n. 22656 del 31/10/2011, Rv. 619955); in altre parole, è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù di una inferenza di natura probabilistica), sicchè il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purchè dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre è da escludere che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici (Sez. L, n. 2632 del 05/02/2014, Rv. 629841).

Essendo la presunzione semplice affidata alla “prudente” valutazione del decidente (art. 2729 c.c.), spetta al giudice di merito valutare la possibilità di fare ricorso a tale tipo di prova, scegliere i fatti noti da porre a base della presunzione e le regole d’esperienza – tra quelle realmente esistenti nel sapere collettivo della società – tramite le quali dedurre il fatto ignoto, valutare la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge; trattandosi di apprezzamento affidato alla valutazione discrezionale del giudice di merito, esso è sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato (Sez. 3, Sentenza n. 8023 del 02/04/2009, Rv. 607382; Sez. L, Sentenza n. 15737 del 21/10/2003, Rv. 567551; Sez. L, Sentenza n. 11906 del 06/08/2003, Rv. 565726; da ultimo, Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 101 del 08/01/2015, Rv. 634118).

2.1 Poste tali premesse di carattere generale, ed avuto riguardo alla vicenda in esame, va ribadito che il principio costantemente affermato è quello secondo cui (cfr. Cass. n. 5247/2018) ai fini dell’acquisto della qualità di erede non è di per sè sufficiente, neanche nella successione legittima, la delazione dell’eredità che segue l’apertura della successione, essendo necessaria l’accettazione del chiamato mediante una dichiarazione di volontà oppure un comportamento obiettivo di acquiescenza.

Occorre poi evidenziare che, come si ricava dalla lettura della motivazione della sentenza impugnata, l’acquisto della qualità di erede da parte della ricorrente per effetto di atti e condotte compiuti in epoca anteriore alla rinuncia all’eredità (e come tale reputata inidonea, pur se connotata dal carattere della retroattività, a vanificare l’acquisto già avvenuto della qualità di erede, in applicazione della regola semel heres, semper heres) è stato ricondotto alla fattispecie di cui all’art. 476 c.c., non essendosi invece attribuita valenza decisiva alla pretesa donazione dei diritti successori (in particolare sul ricavato della vendita di un bene appartenente al de cuius, vendita avvenuta allorquando il defunto era ancora in vita) ex art. 478 c.c..

Rileva il Collegio che costituisce principio reiteratamente affermato quello secondo cui (cfr. Cass. n. 12753/1999) l’accettazione tacita di eredità può desumersi soltanto dall’esplicazione di un’attività personale del chiamato tale da integrare gli estremi dell’atto gestorio incompatibile con la volontà di rinunziare, e non altrimenti giustificabile se non in relazione alla qualità di erede, con la conseguenza che non possono essere ritenuti atti di accettazione tacita quelli di natura meramente conservativa che il chiamato può compiere anche prima dell’accettazione, ex art. 460 c.c.. Tuttavia l’indagine relativa alla esistenza o meno di un comportamento qualificabile in termini di accettazione tacita, risolvendosi in un accertamento di fatto, va condotta dal giudice di merito caso per caso (in considerazione delle peculiarità di ogni singola fattispecie, e tenendo conto di molteplici fattori, tra cui quelli della natura e dell’importanza, oltrechè della finalità, degli atti di gestione), e non è censurabile in sede di legittimità, purchè la relativa motivazione risulti immune da vizi logici o da errori di diritto (conf. ex multis Cass. n. 2663/1999; Cass. n. 1906/1977; Cass. n. 3950/1976).

Quanto alla rilevanza delle condotte oggetto di valutazione nel caso in esame, è stato anche di recente ribadito che (cfr. Cass. n. 4843/2019) ancorchè ai fini dell’accettazione tacita dell’eredità siano privi di rilevanza tutti quegli atti che, attese la loro natura e finalità, non sono idonei ad esprimere in modo certo l’intenzione univoca di assunzione della qualità di erede, quali la denuncia di successione, il pagamento delle relative imposte, la richiesta di registrazione del testamento e la sua trascrizione, trattandosi di adempimenti di prevalente contenuto fiscale, caratterizzati da scopi conservativi, tuttavia la loro valutazione da parte del giudice del merito, al fine di escludere, con riferimento ad essi, il proposito di accettare l’eredità, non può limitarsi all’esecuzione di tali incombenze, ma deve estendersi al complessivo comportamento dell’erede potenziale ed all’eventuale possesso e gestione anche solo parziale dell’eredità, non potendosi escludere (Cass. n. 4756/1999) che gli atti in questione costituiscano elementi indiziari, come tali liberamente valutabili ai fini indicati dal giudice del merito (conf. Cass. n. 5275/1986).

Si è poi affermato che (cfr. da ultimo Cass. n. 8980/2017) l’accettazione tacita di eredità – pur potendo avvenire attraverso “negotiorum gestio”, cui segua la successiva ratifica del chiamato, o per mezzo del conferimento di una delega o dello svolgimento di attività procuratoria – può tuttavia desumersi soltanto da un comportamento del successibile e non di altri, sicchè non ricorre ove solo l’altro chiamato all’eredità, in assenza di elementi dai quali desumere il conferimento di una delega o la successiva ratifica del suo operato, abbia fatto richiesta di voltura catastale di un immobile del “de cuius” (conf. Cass. n. 21902/2011).

Ne consegue che (cfr. Cass. n. 11813/92) l’accettazione tacita, in concrete circostanze, può avvenire anche mediante l’attività indiretta o procuratoria od anche di gestione di altri soggetti incaricati di compiere atti correlati alla volontà del successibile di dare esecuzione alle disposizioni testamentarie.

Infine, va ricordato che (cfr. Cass. n. 2743/2014) la riscossione di un credito ereditario, come ad esempio quello dei canoni di locazione di un bene ereditario, si configura quale atto dispositivo e non meramente conservativo, ed integra accettazione tacita dell’eredità, ai sensi dell’art. 476 c.c. (si veda anche Cass. n. 12327/1999 quanto alla riscossione da parte del chiamato di un assegno rilasciato al “de cuius” in pagamento di un suo credito, non essendo la riscossione atto conservativo, bensì dispositivo del patrimonio ereditario).

Alla luce di tali principi deve escludersi che ricorrano le dedotte violazioni di legge.

La sentenza gravata, pur dando atto che per alcune delle attività, quali i prelevamenti dal conto corrente intestato al de cuius in epoca successiva alla morte ovvero l’ordine di bonifico delle somme ricavate dalla vendita di un bene del de cuius in favore della madre, non era provato che fossero materialmente stati compiuti dalla ricorrente, ha però effettuato una valutazione complessiva delle varie vicende, rilevando che risultava la partecipazione della D. per alcuni degli atti posti in essere congiuntamente dai chiamati, sebbene per finalità di carattere fiscale, correlando tale attività documentale alla ulteriore circostanza che, non essendo stata dedotta un’estraneità della ricorrente rispetto al restante nucleo familiare che aveva effettivamente posto in essere delle condotte idonee a concretare un’accettazione tacita dell’eredità, poteva reputarsi che la medesima D. fosse consapevole di quanto era materialmente compiuto dagli altri successori, senza sollevare alcuna contestazione (anche laddove si andava a disporre di somme potenzialmente di sua pertinenza pro quota), ritenendo quindi che si trattasse di scelte condivise tra i germani D., che lasciavano ipotizzare il conferimento di una sorta di mandato gestorio.

Inoltre, risulta oggetto di accertamento in fatto, non adeguatamente contrastato con il motivo di ricorso (che si limita a riferire che la quietanza non sarebbe stata sottoscritta), che la ricorrente unitamente ai fratelli ha rilasciato una quietanza alla banca per il ritiro delle somme giacenti sul conto corrente intestato al de cuius, disponendo quindi del relativo credito, e ponendo in essere un’attività di riscossione di crediti del de cuius, che, come detto, costituisce pacificamente un atto di accettazione tacita dell’eredità.

La critica della ricorrente si sofferma su una valutazione atomistica delle varie condotte prese in esame dalla Corte d’Appello, appuntando la sua critica sulla asserita inidoneità di ognuna di esse a giustificare di per sè sola l’accettazione tacita dell’eredità, trascurando di considerare (ed in disparte il rilevo assorbente, quanto alla decisività, della quietanza per il ritiro delle attività del conto corrente) che in presenza di accertamenti di carattere presuntivo, quale quello operato dal giudice di appello, in vista della riconduzione alla sfera della ricorrente anche delle attività poste materialmente in essere dai fratelli, la critica, così come l’apprezzamento degli elementi indiziari, deve essere di carattere globale, come confermato dal dettato di cui all’art. 2729 c.c., che individua nella concordanza uno dei requisiti per far sì che le presunzioni assurgano al rango di prove.

La sentenza impugnata con motivazione logica e coerente, ha considerato il contesto familiare nel quale si muoveva la ricorrente (che non aveva mai dedotto l’esistenza di dissidi o un’estraneità rispetto agli altri componenti della famiglia) e tenuto conto della sua partecipazione anche al compimento di atti sicuramente di rilievo fiscale, ma comunque correlati alla vicenda successoria (e tali da permetterle di acquisire consapevolezza della situazione finanziaria del de cuius), ha concluso, senza che tale assunto possa essere tacciato di palese irrazionalità, nel senso che tutte le condotte, sebbene materialmente poste in essere solo da alcuni dei chiamati, erano però ricollegabili ad una comune decisione, tali da far ricadere anche nella sfera giuridica della ricorrente le conseguenze delle condotte poste in essere dai fratelli.

2.2 Quanto invece al terzo punto, che lamenta il mancato riconoscimento della responsabilità parziaria della ricorrente, per i debiti del de cuius, va richiamata la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui (Cass. n. 6431/2015) l’art. 754 c.c., per il quale gli eredi rispondono dei debiti del “de cuius” in relazione al valore della quota nella quale sono stati chiamati a succedere, si interpreta nel senso che il coerede convenuto per il pagamento di un debito ereditario ha l’onere di indicare al creditore la sua condizione di coobbligato passivo, entro i limiti della propria quota, sicchè, integrando tale dichiarazione gli estremi dell’istituto processuale della eccezione propria, la sua mancata proposizione consente al creditore di chiedere legittimamente il pagamento per l’intero (conf. Cass. n. 19186/2016 che ha confermato la decisione di merito sulla tardività della suddetta eccezione, proposta in corso di causa, e non già con l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo, da eredi convenuti per la restituzione di somme a loro corrisposte in esecuzione di una sentenza riformata in grado di appello; Cass. n. 15592/2007: Cass. n. 7216/1997; Cass. n. 25764/2008).

Della questione non risulta essersene occupata la sentenza impugnata, nè parte ricorrente indica ove la stessa sia stata tempestivamente dedotta in sede di merito, sicchè la doglianza in parte qua si palesa inammissibile.

3. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Tuttavia, attesa la complessità in diritto delle questioni trattate ed avuto riguardo anche agli accertamenti in fatto resisi necessari in sede di merito per risalire ad un’accettazione tacita da parte della ricorrente, si ritiene che non sussistano i presupposti per l’accoglimento della domanda di condanna ex art. 96 c.p.c..

4. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 7.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2020

 

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