Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23732 del 28/10/2020

Cassazione civile sez. I, 28/10/2020, (ud. 13/10/2020, dep. 28/10/2020), n.23732

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. G. C. – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

B.D., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentato e difeso,

giusta procura speciale allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato

Enrica Inghilleri, presso il cui studio elettivamente domicilia in

Roma, alla Piazza dei Consoli n. 62.

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE DI ANCONA depositato il 27/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13/10/2020 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. B.D., nativo del (OMISSIS), ricorre per cassazione, affidandosi a quattro motivi (il terzo dei quali recante due profili), contro il “decreto” del Tribunale di Ancona del 20/27 febbraio 2019, reiettivo della sua domanda volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il Ministero dell’Interno non si è costituito nei termini di legge, ma ha depositato un “atto di costituzione” al solo fine di prendere eventualmente parte alla udienza di discussione ex art. 370 c.p.c., comma 1.

1.1. Quel tribunale ritenne scarsamente credibili le sue dichiarazioni (così condividendo l’analogo giudizio della commissione territoriale di Ancona) e, comunque, che i motivi addotti da lui a sostegno delle sue richieste fossero inidonei a consentirne l’accoglimento.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I formulati motivi prospettano, rispettivamente:

I) “In riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della legge: art. 5, comma 6, art. 18, art. 18-bis, art. 22, comma 12-quater del T.U. Immigrazione (D.Lgs. n. 286 del 1998); del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 23; del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3”. Si contesta l’asserita avvenuta applicazione, quanto alla domanda di protezione cd. umanitaria formulata dal B., della disciplina sostanziale di cui al D.L. n. 113 del 2018, malgrado la sua non retroattività;

II) “In riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e falsa applicazione della legge: D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 14; art. 1A della Convenzione di Ginevra; del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1, 2, 3, 4 e 5 ed art. 14; del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 ed art. 11. Vizio di motivazione”.”. Si censura l’asserita avvenuta applicazione della disciplina di cui al D.L. n. 13 del 2017, le cui norme erano entrate in vigore solo il 13 agosto 2017, benchè la domanda di protezione internazionale del B. risalisse al 22 marzo 2017. Da ciò la compressione del diritto di difesa dell’istante anche in ragione del fatto che la nuova normativa, di cui si contestano i requisiti della necessità ed urgenza perchè entrata in vigore solo sei mesi dopo la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, aveva abolito il grado di appello;

III-A) “In riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della legge: art. 1-A della Convenzione di Ginevra; del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1, 2, 3, 4 e 5 ed art. 14; del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 ed art. 11. Vizio di motivazione”; III-B) ” In riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della legge: del D.L. n. 113 del 2018, art. 1; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, T.U. D.Lgs. n. 186 del 1998. Vizio di motivazione”. Si contestano le argomentazioni utilizzate dal tribunale per negare le invocate forme di protezione internazionale ed umanitaria, assumendosi, che la vicenda narrata dal ricorrente sarebbe stata erroneamente interpretata, svalutata e sottovalutata a causa di un’errata applicazione dei presupposti di configurazione della persecuzione o comunque del danno grave. Si lamenta, altresì, un cattivo esercizio dei doveri di cooperazione officiosa da parte del tribunale e anche con riferimento al mancato riconoscimento, in favore dell’odierno ricorrente, della protezione umanitaria;

IV) “In riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Vizio di motivazione”, nuovamente criticandosi la mancata effettiva considerazione della situazione socio politica del Paese di provenienza del ricorrente ed il carente esercizio dei doveri di cooperazione officiosa da parte del tribunale.

2. Il primo motivo è infondato, desumendosi chiaramente dal decreto impugnato l’avvenuta applicazione, in relazione alla domanda di protezione cd. umanitaria del B., della disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, avendo il tribunale espressamente escluso il carattere retroattivo di quella di cui al sopravvenuto D.L. n. 113 del 2018 (cfr. amplius, pag. 7 e ss. del menzionato decreto).

3. Parimenti insuscettibile di accoglimento è il secondo motivo.

3.1. Invero, l’odierno procedimento è stato introdotto con domanda giudiziale depositata il 24 maggio 2018 presso il Tribunale di Ancona, dunque in data già posteriore al centottantesimo giorno dall’iniziale vigenza del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13 (convertito, con modificazioni, dalla L. 13 aprile 2017, n. 46), il cui art. 21, comma 1 – modificando ed integrando il D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 35 e 35-bis – ha statuito l’applicazione del nuovo regime impugnatorio e della competenza alla trattazione delle controversie in materia di protezione internazionale se instaurate dal 18 agosto 2017. Questa Corte, del resto, ha già precisato, in generale, che la disciplina introdotta con il D.L. n. 13 del 2017, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 46 del 2017, si applica, ai sensi dell’art. 21, comma 1, del citato Decreto, alle controversie instaurate successivamente al 18.8.2017 (cfr. sostanzialmente in tal senso, Cass. n. 12333 del 2020; Cass. n. 10625 del 2020; Cass. 22304 del 2019; Cass. n. 18295 del 2018; Cass. n. 16420 del 2018). Ne consegue, in attuazione coerente del medesimo principio, che, nella specie, avverso il decreto del tribunale anconetano – adito dopo che, per effetto del menzionato D.L. n. 13 del 2017, citato art. 21, comma 1, non era più esperibile l’appello doveva ritenersi proponibile il ricorso per cassazione, del citato D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35-bis: tanto si ricava, infatti, in modo diretto dalla puntuale locuzione impiegata dal legislatore che, per stabilire la vigenza del nuovo regime ovvero la estensione delle disposizioni anteriori, si riferisce al menzionato centottantesimo giorno dall’entrata in vigore del decreto legge e con espresso riguardo “alle cause e ai procedimenti giudiziari sorti”, rispettivamente, dopo ovvero anteriormente alla scadenza di tale termine.

3.2. Deve aggiungersi, peraltro, che, con le ordinanze n. 17717 del 2018 e n. 28119 del 2018, entrambe richiamate, in motivazione, da quella, più recente, n. 13196 del 2020, questa Corte ha già ritenuto manifestamente infondate, tra le altre, le questioni di illegittimità costituzionale oggi adombrate dal ricorrente (quanto alla carenza dei requisiti di necessità ed urgenza del D.L. n. 13 del 2017, perchè molte delle sue disposizioni erano entrate in vigore solo centottanta giorni dopo la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale; abolizione del grado di appello), nello sviluppo della censura in esame. Le argomentazioni di cui alle citate ordinanze, da intendersi, per brevità, richiamate, sono integralmente condivise dal Collegio.

4. Il terzo motivo (in entrambi i profili in cui è articolato) ed il quarto possono essere scrutinati congiuntamente perchè connessi. Essi si rivelano complessivamente inammissibili.

4.1. Invero, il tribunale dorico ha escluso che ricorressero nella vicenda narrata da B.D. – il quale aveva riferito di aver lasciato, nel 2016, il Gambia, suo Paese di origine, per la gravissima povertà e prostrazione socio culturale in cui era caduta la sua vita e quella della sua famiglia; di essersi recato, prima di giungere in Italia, in Mali, poi in Algeria e, quindi, in Libia, tutti Paesi dai quali era fuggito perchè era stato sostanzialmente sfruttato e schiavizzato – i requisiti delle forme di protezione richieste, perchè: i) ha giudicato scarsamente credibili le sue dichiarazioni (così condividendo l’analogo giudizio della commissione territoriale di Ancona), osservando che, “innanzitutto, il richiedente non è stato in grado di circostanziare la vicenda (nomi, tempo, luogo), peraltro su fatti essenziali e determinanti l’espatrio, tenuto conto che in audizione afferma di aver abbandonato il Paese per motivi economici, poi, in udienza, dichiara, in modo generico e senza specificità, di aver avuto problemi religiosi; tali dichiarazioni, anche laddove credibili, restano confinate nei limiti di una vicenda di vita privata e di miglioramento socio economico, atteso che gli aspetti evidenziati in ricorso integrano personali timori circa la necessità di sostenere la famiglia di origine tuttora in patria; in ogni caso, emerge l’insussistenza di una grave violazione dei diritti umani…, in quanto la mera deprivazione economica o l’esigenza di una ripartizione della ricchezza tra la popolazione non giustificano un permesso provvisorio (cfr. Cass. n. 28226/18);… con riferimento alla valutazione prognostica dell’elevata vulnerabilità determinata per effetto dello sradicamento del richiedente dal contesto socio economico nazionale, va precisato che, da un lato, nel Paese di provenienza non vengono segnalate compromissioni all’esercizio dei diritti umani…; dall’altro che, in Italia, il richiedente non può porre a fondamento della richiesta di rilascio di un permesso per motivi umanitari l’esigenza di mantenersi economicamente sul territorio nazionale ed il percorso di integrazione sociale e lavorativo avviato (cfr. Cass. n. 28226/18 già citata)…” (cfr. pag. 2-3 del decreto impugnato); ii) l’istante non aveva allegato di essere affiliato politicamente o di aver preso parte ad attività di associazioni di diritti civili, nè di appartenere ad una minoranza etnica e/o religiosa, o di altro tipo, oggetto di persecuzione; iii) ha escluso, sulla base della consultazione di affidabili fonti di informazioni, delle quali ha pure dato puntualmente conto nel provvedimento impugnato, che in Gambia sia riscontrabile una situazione di instabilità politico-sociale di livello così elevato da potere essere qualificata nei termini di quella “violenza generalizzata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, che consente il riconoscimento nei confronti dello straniero della forma di protezione internazionale di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (cfr. amplius, pag. 3-5, nonchè 6-7 del menzionato decreto); iv) quanto alla invocata protezione umanitaria (da scrutinarsi alla stregua della disciplina, da ritenersi applicabile ratione temporis – cfr. Cass., SU, nn. 29459-29461 del 2019 – di cui al D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6), ha evidenziato l’assenza di peculiari situazioni soggettive attestanti condizioni di vulnerabilità del richiedente protezione, nonchè di un suo effettivo radicamento sul territorio dello Stato ospitante, determinato da ragioni familiari o di una concreta integrazione lavorativa, letta in connessione con il mancato riscontro di una situazione di grave compromissione dei diritti umani fondamentali nel Paese di origine, così da non consentire di pervenire ad una prognosi positiva quanto all’esposizione del richiedente, in ipotesi di rimpatrio, ad una situazione di negazione della dignità personale.

4.2. Al cospetto di un simile impianto argomentativo, sotteso al diniego di tutte le forme di protezione internazionale e corredato da una spiegazione esauriente delle ragioni atte a suffragare il rigetto delle domande proposte – sicchè non si ravvisano quei radicali vizi motivazionali che oggi assumono rilievo in sede di legittimità: “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, “motivazione apparente”, “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014), i motivi in esame sono complessivamente inammissibili, atteso che il tribunale ha fondato il proprio giudizio su di una lettura integrata, siccome stabilito alla disposizione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), delle dichiarazioni rese da B.D., giudicate scarsamente credibili, e delle informazioni circa il suo Paese di origine, siccome ritraibili dalla consultazione di fonti qualificate ed aggiornate, e sulla base di ciò ha escluso che ricorressero le condizioni per il riconoscimento sia della protezione maggiore (status di rifugiato e protezione sussidiaria) che di quella minore.

4.2.1. Va altresì rimarcato che la giurisprudenza di legittimità ha, ancora recentemente (cfr. Cass. n. 17536 del 2020; Cass. n. 18446 del 2019), chiarito che: i) la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (cfr., ex multis, Cass. n. 6191 del 2020, in motivazione; Cass. n. 32064 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018), il quale deve ponderare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in Cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile (tutte fattispecie qui insussistenti, come si è già riferito), dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr., nel medesimo senso, Cass. n. 18550 del 2020; Cass. n. 17539 del 2020; Cass. n. 3340 del 2019). Deve, peraltro, rimarcarsi che, nella specie, la semplice lettura del decreto oggi impugnato, nella parte in cui ha negato l’attendibilità dell’odierno ricorrente, presenta una motivazione ampiamente in linea con il minimo costituzionale sancito da Cass. SU, n. 8053 del 2014; il) in tema di riconoscimento della protezione sussidiaria, il principio secondo il quale, una volta che le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad approfondimenti istruttori officiosi, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori investe le domande formulate ai sensi dell’art. 14, lett. a) e b), del predetto decreto (cfr. Cass. n. 15794 del 2019; Cass. n. 4892 del 2019), mentre, quanto a quella proposta giusta la lett. c), del medesimo decreto, il provvedimento oggi impugnato ha comunque esaminato la situazione fattuale ed operato la ricostruzione della realtà socio-politica del Paese di provenienza del richiedente, compiutamente indicando le fonti internazionali consultate, ed ha rilevato che, sostanzialmente, il Gambia non si segnala attualmente per alcun tipo di instabilità politica. Va solo rimarcato che, come recentemente chiarito da Cass. n. 29056 del 2019, l’eventuale omessa sottoposizione al contraddittorio delle COI (country of origin information) assunte d’ufficio dal giudice ad integrazione del racconto del richiedente, non lede il diritto di difesa di quest’ultimo, poichè, in tal caso, l’attività di cooperazione istruttoria è integrativa dell’inerzia della parte e non ne diminuisce le garanzie processuali, a condizione che il tribunale renda palese nella motivazione a quali informazioni abbia fatto riferimento, al fine di consentirne l’eventuale critica in sede di impugnazione; sussiste, invece, una violazione del diritto di difesa del richiedente quando (ma tale ipotesi non è stata minimamente dedotta nell’odierna fattispecie) costui abbia esplicitamente indicato le COI, ma il giudice ne utilizzi altre, di fonte diversa o più aggiornate, che depongano in senso opposto a quelle offerte dal ricorrente, senza prima sottoporle al contraddittorio. In altri termini, e più specificamente, colui che intenda denunciare in sede di legittimità la violazione del dovere di cooperazione istruttoria da parte del giudice di merito non deve limitarsi a dedurre l’astratta violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ma ha l’onere di allegare l’esistenza e di indicare gli estremi delle COI che, secondo la sua prospettazione, ove fossero state esaminate dal giudice di merito avrebbero dovuto ragionevolmente condurre ad un diverso esito del giudizio. La mancanza di tale allegazione impedisce alla Corte di valutare la rilevanza e decisività della censura, rendendola inammissibile.

4.2.2. A tanto deve soltanto aggiungersi che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati…”, deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo, per contro, addebitarsi la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte (cfr. Cass. n. 2355 del 2020; Cass. n. 30105 del 2018).

4.3. Nemmeno sussiste, poi, l’asserito omesso esame di un fatto decisivo di cui al quarto motivo di ricorso, avendo, come si è visto, il tribunale espressamente valutato ed escluso la sussistenza di potenziali situazioni di persecuzione in danno dell’odierno ricorrente.

4.4. Nessun decisivo rilievo assume, inoltre, ai fini della corretta applicazione delle norme di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, l’eventuale integrazione socio-lavorativa asseritamente raggiunta dal richiedente, posto che vige nella materia de qua il principio di diritto secondo il quale non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (cfr. Cass. n. 17072 del 2018).

4.4.1. Approdi interpretativi, quelli riportati, che, di recente, hanno ricevuto l’autorevole avallo della Sezioni Unite di questa Corte, che, con la sentenza n. 29459 del 13 novembre 2019, hanno sancito che “in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”.

4.5. A fronte di tali approfonditi rilievi, che danno conto della correttezza dell’operazione di sussunzione dei fatti allegati alle norme di legge di cui il ricorrente ha chiesto l’applicazione, le doglianze sviluppate nei motivi di ricorso in esame investono, sostanzialmente, il complessivo governo del materiale istruttorio (quanto alla sussistenza, o meno, della prova dei presupposti per la invocata protezione internazionale ed umanitaria), senza assolutamente considerare che la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ivi formalmente proposte, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr. Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonchè le più recenti Cass. n. 8758 del 2017 e Cass., SU, n. 34476 del 2019).

5. L’odierno ricorso, pertanto, va respinto, senza necessità di pronuncia sulle spese di questo giudizio di legittimità, atteso che il Ministero dell’Interno è rimasto solo intimato, altresì dandosi atto – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 che, stante il tenore della pronuncia adottata, “sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 13 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2020

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