Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23722 del 28/10/2020

Cassazione civile sez. I, 28/10/2020, (ud. 23/09/2020, dep. 28/10/2020), n.23722

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 28988/2018 proposto da:

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

S.O., elettivamente domiciliata in Roma Via B. Tortolini

n. 30, presso lo studio dell’Avvocato Alfredo Placidi, che lo

rappresenta e difende unitamente all’Avvocato Daniele Romiti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1064/2018 della Corte d’appello di Bologna

depositata il 18/4/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/9/2020 dal Cons. Dott. Alberto Pazzi.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. il Tribunale di Bologna, con ordinanza ex art. 702-ter c.p.c., del 7 giugno 2016, accoglieva parzialmente il ricorso presentato da S.O., cittadina (OMISSIS) e madre di un figlio minore con lei convivente, avverso il provvedimento di diniego di protezione internazionale emesso dalla locale Commissione territoriale e ravvisava l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento in suo favore della protezione umanitaria ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6;

2. la Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 18 aprile 2018, respingeva l’impugnazione proposta dal Ministero dell’Interno, ritenendo che la necessità della richiedente asilo di continuare ad esercitare la funzione genitoriale e fornire al figlio minore il sostegno delle sue cure giustificasse il provvedimento già assunto dal primo giudice;

3. per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso il Ministero dell’Interno prospettando un unico motivo di doglianza, al quale ha resistito con controricorso il Ministero dell’Interno.

Diritto

CONSIDERATO

che:

4. il motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 6, T.U.I., poichè la Corte d’appello avrebbe erroneamente concesso la protezione umanitaria senza accertare l’esistenza di esigenze specificamente riferibili alla persona dell’appellante, limitandosi a compiere affermazioni generiche;

5. il motivo è inammissibile;

5.1 la doglianza fa riferimento, in esordio, a “difficoltà familiari (originate da problemi sentimentali)” che nulla hanno a che vedere con la fattispecie presa in esame dal provvedimento impugnato, quindi denuncia l’omesso accertamento di “esigenze umanitarie specificamente riferibili alla persona dell’appellante”;

ciò malgrado la Corte di merito abbia espressamente chiarito non solo che intendeva fare riferimento all’esigenza della richiedente asilo (chiamata a svolgere il “proprio compito di favorire lo sviluppo della personalità” del figlio) nei termini descritti (in quanto tale compito consisteva nel creare in favore del discendente le “condizioni basilari”, costituite da “quadro di riferimento affettivo, inserimento scolastico e sociale, apprendimento della lingua”), ma anche che la propria prospettiva di indagine era ben diversa da quella dello sviluppo psicofisico del minore a cui l’art. 31, comma 3, T.U.I. pone attenzione;

la censura, dunque, non considera il contenuto del provvedimento impugnato e difetta del requisito di riferibilità alla decisione impugnata che il ricorso per cassazione deve necessariamente avere; la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), con la conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ ufficio (Cass. 20910/2017);

5.2 la Corte di merito ha individuato la ragione che giustificava il riconoscimento della protezione umanitaria nella “necessità per la richiedente di continuare a fornire al minore B. il sostegno della cura materna”; ed a maggiore specificazione dei propri rilievi ha chiarito, subito dopo, che ciò che veniva in rilievo non era l’esigenza di sviluppo del minore, ma “l’esigenza della madre di esercitare la sua funzione”;

la terminologia utilizzata (“cura materna”, “funzione” di madre) evidenzia come la Corte territoriale intendesse fare riferimento al legame familiare esistente fra la richiedente asilo e il figlio minore presente nel territorio dello Stato italiano, al ruolo materno da questa esercitato ed alla tutela che deve essere riservata al diritto al rispetto della vita privata e familiare a mente dell’art. 8 CEDU (secondo cui “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”);

norma che, secondo la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (Zhou c/Italia, 21/1/2014), pone a carico dello Stato un obbligo positivo in merito al rispetto effettivo della vita familiare, tanto che, ove sia accertata l’esistenza di un legame familiare, lo Stato deve agire in modo tale da permettere a tale legame di svilupparsi;

peraltro, tale obbligo di rispetto effettivo della vita familiare implica il diritto per il genitore a che siano adottate misure idonee a riunirlo al figlio e l’obbligo per le autorità nazionali di agire in questo senso (Andersson c/Svezia, 25/2/1992);

il mezzo in esame, quindi, non coglie neppure la ratio decidendi della decisione impugnata, come il ricorso per cassazione deve invece necessariamente fare, e risulta inammissibile anche sotto questo profilo (Cass. 19989/2017);

6. per tutto quanto sopra esposto il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile;

le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.100, di cui Euro 100 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Così deciso in Roma, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2020

 

 

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