Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23720 del 22/11/2016


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Cassazione civile sez. III, 22/11/2016, (ud. 27/09/2016, dep. 22/11/2016), n.23720

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12880/2013 proposto da:

S.S., ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

PILO ALBERTELLI 1 (FAX 0698933754 – TEL 0644233842), presso lo

studio dell’avvocato LUCIA CAMPOREALE, rappresentato e difeso da se

medesimo;

– ricorrente –

contro

PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in carica p.t., PRESIDENZA DEL

CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente p.t., CONSIGLIO DI

PRESIDENZA DELLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA, in persona del Presidente

p.t., L.R., + ALTRI OMESSI

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 137/2012 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 20/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/09/2016 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;

udito l’Avvocato S.S.;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con distinti atti di citazione notificati tra l’8 ottobre ed il 5 novembre 2001, l’avv. S.S. convenne in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri p.t., il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, cessato ed in carica, nonchè i relativi componenti (in epigrafe meglio indicati), per sentir dichiarare l’inesistenza, per carenza di potere, della comminatagli sanzione disciplinare del trasferimento di ufficio e, conseguentemente, condannare i convenuti, in solido tra loro, al risarcimento dei danni patiti nella misura di Lire 1.000.000.000 “al mese a far data dal novembre 1999 fino alla sollecitata sua reintegrazione presso il TAR Sardegna” o nella maggiore o minor somma risultante in corso di causa.

1.1. – A sostegno della pretesa risarcitoria, l’attore espose: che dal maggio 1991 era stato assegnato in servizio presso il TAR (OMISSIS) in qualità di consigliere TAR; che, “dopo svariate vicissitudini”, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (CPGA), quale organo di autogoverno della giustizia amministrativa, aveva deliberato il suo trasferimento d’ufficio dal TAR (OMISSIS) al TAR (OMISSIS), a titolo di sanzione disciplinare accessoria in riferimento a due distinti procedimenti disciplinari, peraltro poi estinti e, comunque, affetti da nullità; che la normativa di riferimento (L. n. 186 del 1982, artt. 34, 24 e 25), neppure menzionata nel provvedimento disciplinare anzidetto, non consentiva il trasferimento d’ufficio dei giudici amministrativi per nessun titolo o causa (come, del resto, riconosciuto dallo stesso Presidente del Consiglio di Stato in sede di audizione ufficiale presso il Senato della Repubblica in data 31 marzo 1998); che, pertanto, il CPGA aveva operato in totale carenza di potere adottando un atto inesistente in base al vigente ordinamento; che, ciò malgrado, egli, per evitare ulteriori possibili sanzioni, si era “visto costretto ad assumere servizio presso il TAR (OMISSIS)”, con gravissimo pregiudizio economico, professionale e personale, nonchè ripercussioni sul diritto alla salute; che la relativa responsabilità era da ascriversi, ai sensi dell’art. 28 Cost., ai singoli componenti dei due CPGA oltre che a questi “nel loro complesso”, così come al Presidente del Consiglio dei ministri che aveva reso esecutiva la delibera dell’organo collegiale.

1.2. – Nel contraddittorio con i convenuti, l’adito Tribunale di Cagliari, con sentenza del maggio 2007, affermata la propria giurisdizione, rigettava la domanda attorea, con integrale compensazione delle spese di lite.

2. – Avverso tale decisione proponevano impugnazione principale l’avv. S.S. (sulla base di sei motivi), nonchè gravame incidentale i convenuti (quanto alla statuizione sulla giurisdizione); la Corte di appello di Cagliari, con sentenza resa pubblica il 20 marzo 2012, rigettava entrambi.

3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’avv. S.S. affidandosi a nove motivi (tre “macromotivi”, articolati, ciascuno, in tre motivi distinti).

Resistono con unico controricorso la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa ed i relativi trenta componenti evocati nei giudizi di merito.

Il ricorrente ha depositato una prima memoria in prossimità dell’udienza del 19 novembre 2015; la causa è stata, quindi, rinviata, con ordinanza interlocutoria n. 3362 del 2016, all’odierna udienza, in prossimità della quale l’avv. S. ha depositato altra memoria.

All’esito della discussione orale, il ricorrente ha depositato osservazioni scritte ex art. 379 c.p.c., comma 4.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con i primi due mezzi è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (“AA/1”) violazione e falsa applicazione della L. n. 186 del 1982, artt. 13, 24, 25, 27, 28, 32, 33 e 34, R.D. n. 511 del 1946, art. 21, “dei principi generali in materia di sanzioni disciplinari dei GGAA, e del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.”; nonchè dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (“AA/2”) vizio di motivazione.

I motivi si rivolgono al rigetto del primo motivo di appello in ordine, anzitutto, alla portata delle affermazioni del Presidente del Consiglio di Stato nel corso dell’audizione del 31 marzo 1998, giacchè, non essendo “confutabile, nè confutato” il contenuto di dette affermazioni (sul fatto che la legge vigente poneva ostacoli insormontabili al trasferimento di tutti i giudici amministrativi e che per quelli del Consiglio di Stato valeva anche l’impedimento della unicità della sede in (OMISSIS)), la Corte territoriale avrebbe violato la “legislazione richiamata” dal Presidente del Consiglio di Stato (privando di rilevanza detto richiamo), nonchè effettuato una asserzione viziata sotto il profilo della motivazione, in quanto avrebbe dovuto dimostrare che il Presidente del Consiglio di Stato “aveva falsamente affermato che la legislazione attuale contiene ostacoli insormontabili al trasferimento dei GGAA”.

Le doglianze attengono poi alla parte di motivazione (pp. 29 e 30 della sentenza impugnata, da “Nè comunque…” a “organizzativa dell’ufficio giudiziario”) che riguarda il criterio interpretativo della L. n. 186 del 1982, utilizzato da esso appellante, mancando la Corte territoriale di tener conto che detta L. n. 186, aveva unificato la disciplina relativa ai giudici amministrativi prima diversificata (nel T.U. n. 1054 del 1924 e nella L. n. 1034 del 1971), unificando anche l’organo di autogoverno, senza alcuna distinzione dei trasferimenti di qualsiasi tipo (citata L. n. 186, artt. 24 e 25). In tal modo, il giudice di appello avrebbe violato le norme indicate in rubrica diversificando in materia di sanzioni disciplinari (insuscettibili di applicazione analogica di altre discipline, nella specie carenti) una regolamentazione rivolta “indistintamente a tutti i destinatari della stessa”.

La motivazione sarebbe, inoltre, viziata, in quanto non verrebbe spiegato “come a parità di “reato disciplinare” o, addirittura, in caso di reato disciplinare più grave a carico del magistrato CS” sarebbe ragionevole “applicare la disciplina unitaria (che in ipotesi prevedesse sia per i magistrati CS che TTARR il trasferimento d’ufficio) in maniera diversa, vanificando la sanzione accessoria per fatto uguale o più grave nei confronti del Magistrato CS e applicando rigorosamente anche la sanzione accessoria a carico del magistrato TAR”.

Del pari, sarebbe contra legem e viziato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’assunto sulla postulata irragionevolezza della non contemplabilità di una sanzione perchè solo in pochi casi non sarebbe di fatto applicabile, giacchè esso confligge con il dato della assenza di previsione legale della trasferibilità d’ufficio dei giudici amministrativi in base alla L. n. 186 del 1982, e con quello della unitarietà della disciplina per tutti i magistrati amministrativi (a prescindere dal numero di ciascun componente del plesso giudiziario), che impone un trattamento uguale.

2. – Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (“AA/3”) violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c..

La Corte territoriale non si sarebbe pronunciata “sulla obiezione in atto di appello, pag. 9, in calce”, che metteva in rilievo l’ipotesi, integrante irragionevole disparità di trattamento, del “comportamento sanzionato più gravemente per il magistrato CS, ad es. perchè recidivo”.

3. – Con il quarto e quinto mezzo, rispettivamente, è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (“BB/1”)violazione e falsa applicazione della L. n. 186 del 1982, artt. 13, 24, 25, 27, 28, 32, 33 e 34, R.D. n. 511 del 1946, art. 21, “dei principi generali in materia di sanzioni disciplinari dei GGAA, e del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.”; nonchè dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (“BB/2”) vizio di motivazione.

La Corte territoriale avrebbe errato a ritenere (contrariamente a quanto argomentato da esso appellante, nella piena consapevolezza della differenza tra “trasferimenti amministrativi e quelli disciplinari”) che la L. n. 186 del 1982, artt. 24 e 25, non disciplinassero, essi soltanto, tutta la materia dei trasferimenti, senza distinguere tra amministrativi e disciplinari. Infatti, dette disposizioni disciplinano la materia delle “garanzie” e, quindi, dei trasferimenti a domanda e d’ufficio, senza distinzioni di sorta, per cui il rinvio disposto dall’art. 32 alla disciplina dettata per i giudici ordinari non ha riguardo ai trasferimenti disciplinari, già regolamentati dai citati artt. 24 e 25, che si riferiscono, “significativamente”, anche ai provvedimenti di sospensione dal servizio. Peraltro, sarebbe in violazione di legge e viziata logicamente la motivazione della Corte di appello (che viene adottata a conferma della prescelta opzione interpretativa) per cui l’art. 25, comma 2, – in forza del quale i magistrati del TAR possono “essere inviati in missione dal CPGA per integrare i Collegi TAR” – va inteso come ipotesi di trasferimento “d’ufficio di tipo organizzativo – funzionale”, giacchè tali “invii in missione” non integrano mai un trasferimento, perchè sono correlati soltanto ad esigenze “occasionali e temporanee”, come confermato dallo stesso art. 25, comma 3.

La motivazione sarebbe errata e logicamente viziata anche là dove esclude che la L. n. 186 del 1982, non contempla in alcuna parte le sanzioni disciplinari, così da ritenere applicabile il rinvio contenuto dall’art. 32, giacchè un tale rinvio sarebbe impedito proprio dalla previsione di tutti i trasferimenti d’ufficio, senza distinzione alcuna, ad opera degli artt. 24 e 25.

Inoltre, nell’affermare che l’art. 25, non disciplinando direttamente la materia, prevede una “riserva di legge” per i trasferimenti d’ufficio e che esso vada letto in connessione con l’art. 32, il quale viene a soddisfare detta “riserva”, la Corte territoriale avrebbe sconfessato la sua stessa tesi per cui il citato art. 25, non disciplinerebbe tutti i trasferimenti, senza distinzione alcuna, là dove, peraltro, l’ultimo assunto non avrebbe base normativa alcuna, in quanto la riserva di legge atterrebbe a “disposizioni da adottare e non già adottate ed esistenti” (contrariamente a quanto opinato, erroneamente ed illogicamente, dal giudice del gravame), per le quali si fa invece espresso rinvio con la stessa L. n. 186, artt. 27 e 28, nonchè con l’art. 32, ma per “profilo diverso da quello sostenuto” dalla stessa Corte di appello.

Non avrebbe, poi, pregio – e sarebbe, dunque, viziata l’osservazione del giudice di secondo grado sulla incoerenza della tesi dell’appellante in ordine alla portata dell’art. 25, siccome ricomprensivo dei trasferimenti amministrativi e disciplinari, contrastando con quanto già in precedenza osservato e con il rilievo che esso stesso appellante aveva sostenuto che soltanto gli artt. 24 e 25, disciplinano la materia dei trasferimenti, con esclusione del rinvio operato dall’art. 32.

Così come, del pari, sarebbe viziata la sentenza impugnata là dove si sofferma sul “richiamo nell’atto di appello” alla memoria di replica di primo grado, in quanto – come già evidenziato – l’art. 32, non opera alcun rinvio per i trasferimenti disciplinari alla disciplina prevista per i giudici ordinari, poichè detti trasferimenti sono già disciplinati dagli artt. 24 e 25. Sarebbe altresì viziata la medesima sentenza nello sminuire la sussistente sintomaticità della carenza di norma legittimante i trasferimenti dalla mancata indicazione di essa nel provvedimento di trasferimento disciplinare adottato nei confronti di esso avv. S., così come sarebbe viziato l’assunto negatorio del principio del favor rei in caso di dubbio interpretativo, in presenza di una lettura contra legem, contraddittoria ed illogica della L. n. 186 del 1982, artt. 24, 25 e 32.

4. – Con il sesto mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (“BB/3”) violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c..

La Corte territoriale nel pronunciarsi sui quattro motivi di appello distinti dalle lettere “b, c, d, f” avrebbe “mancato, in parte, di pronunciarsi, a proposito della valenza della L. n. 186 del 1982, artt. 24 e 25, sulla seguente “organica” proposizione formulata alle pagine 10-11 dell’atto di appello”, attinente ad “una argomentata ricostruzione complessiva del dato normativo di specie”, che metteva in evidenza come esso attore non avesse assimilato il trasferimento d’ufficio “quale misura amministrativa e quello disciplinare”, rappresentando unicamente che gli artt. 24 e 25, contenenti una disciplina unitaria per tutti i magistrati amministrativi, disponevano “in via ordinaria la intrasferibilità dei GGAA se non a domanda”, prevedendo anche quello d’ufficio, ma soltanto per i motivi stabiliti dalla legge e solo nelle ipotesi e con i criteri dalla stessa legge previsti, con la conseguenza che, in assenza di richiami alla disciplina dettata per i giudici ordinari (richiamata invece nell’art. 32 e negli artt. 27 e 28), dette ipotesi dovevano essere stabilite tramite una legge da emanare, traendosi argomenti in tal senso anche dalla portata del previgente R.D. n. 1054 del 1924, art. 5, e L. n. 1034 del 1971, art. 13.

5. – Con il settimo ed ottavo mezzo, rispettivamente, è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (“CC/1”) violazione e falsa applicazione della L. n. 186 del 1982, artt. 13, 24, 25, 27, 28, 32, 33 e 34, R.D. n. 511 del 1946, art. 21, “dei principi generali in materia di sanzioni disciplinari dei GGAA, e del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.”; nonchè dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (“CC/2”) vizio di motivazione.

La Corte territoriale avrebbe errato ad affermare, con motivazione comunque viziata, che il richiamo del Tribunale alla sentenza del Consiglio di Stato n. 1123 del 2001 “sarebbe irrilevante, in quanto non decisivo”, giacchè, invece, il primo giudice erroneamente aveva tratto conferma da detta sentenza della tesi della trasferibilità disciplinare anche dei magistrati del Consiglio di Stato, la quale “non aveva affatto riconosciuto la legittimità del trasferimento funzionale del magistrato GO, perchè era questione estranea all’oggetto del giudizio portato all’esame del CS”. Con l’ulteriore conseguenza che non avrebbe pregio la considerazione per cui il R.D. n. 511 del 1946, art. 21, consentirebbe di intendere il trasferimento d’ufficio anche come trasferimento di funzioni, trattandosi di “aggiunta” di competenza del legislatore, come dimostrato proprio dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 13.

6. – Con il nono mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (“CC/3”) violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c..

La Corte di appello avrebbe mancato di pronunciarsi su quanto “dedotto nella memoria di replica 19/12/11″, avuto riguardo al rilievo assunto, nella motivazione del primo giudice, dalla citata sentenza n. 1123 del 2001 del Consiglio di Stato.

7. – Preliminarmente, va disattesa l’eccezione dei controricorrenti con la quale si assume l’inammissibilità del ricorso perchè le doglianze sarebbero volte ad eludere il giudicato amministrativo formatosi sulla legittimità del provvedimento di trasferimento per cui è causa.

Occorre, infatti, rammentare che la domanda risarcitoria proposta dall’avv. S. (in ordine alla quale la giurisdizione del giudice ordinario non è più in contestazione) si fonda sulla dedotta carenza assoluta di potere dell’organo che ha disposto il trasferimento d’ufficio, per asserita assenza di qualsiasi base legale in ordine alla relativa previsione.

Orbene, è principio consolidato (tra le altre, Cass., 19 ottobre 2006, n. 22492) che la disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice ordinario non incontra alcuna preclusione per effetto del giudicato amministrativo di rigetto della domanda di annullamento, il quale non ha ad oggetto la declaratoria di legittimità dell’atto, nè gli accertamenti compiuti per pervenire a tale risultato, ma solo la mancanza nel ricorrente del diritto ad ottenerne l’annullamento, e comunque, pur coprendo il dedotto ed il deducibile, si riferisce a vizi necessariamente riconducibili alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, là dove il motivo d’invalidità che legittima la disapplicazione è rappresentato dalla carenza di potere dell’autorità che ha emanato l’atto, ed è quindi estraneo all’area di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo, non sostanziando una domanda di annullamento, ma di nullità radicale e/o di inesistenza del provvedimento. A questa regola fanno eccezione soltanto l’ipotesi in cui relativamente alla legittimità dell’atto amministrativo sia prospettabile l’intervenuta formazione di un giudicato tra le parti, in quanto la disapplicazione sia stata richiesta in un giudizio di cui sia parte la P.A., nei confronti della quale sia stata precedentemente proposta la domanda di annullamento dinanzi al giudice amministrativo, nonchè l’ipotesi, avente carattere patologico, in cui la carenza di potere sia stata dedotta come motivo d’invalidità dinanzi al giudice amministrativo, il quale lo abbia erroneamente esaminato nel merito e rigettato, con sentenza passata in giudicato.

Ipotesi, quelle innanzi indicate, la cui sussistenza nel caso di specie non è stata neppure dedotta da parte della difesa dei controricorrenti.

8. – I motivi di ricorso, nel loro complesso, non possono trovare accoglimento.

8.1. – Sono inammissibili, anzitutto, le censure (terzo, sesto e nono motivo di ricorso, rispettivamente sub: AA/3, BB/3 e CC/3) che denunciano la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c., in relazione a taluni, specifici, argomenti e deduzioni spesi, sia nell’atto di gravame, che nella comparsa conclusionale di secondo grado, a sostegno dei sei motivi di appello (declinati nella parte motiva della sentenza impugnata da p. 19 a p. 28 e congiuntamente esaminati; ciò di cui, del resto, non dubita lo stesso ricorrente).

L’attore ha appellato la sentenza del Tribunale di Cagliari che aveva rigettato la sua domanda risarcitoria, proposta (contro il Presidente del Consiglio dei ministri p.t., la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, cessato ed in carica, nonchè i relativi componenti) sul presupposto come detto – dell’inesistenza, per carenza di potere, della sanzione disciplinare accessoria inflittagli in quanto magistrato amministrativo e, segnatamente, magistrato Tar, ossia del trasferimento d’ufficio disposto dal Tar (OMISSIS) al Tar (OMISSIS).

L’appellante, sotto molteplici profili critici, riteneva erronea l’interpretazione fornita dal primo giudice in ordine all’assunto, centrale nella prospettata causa petendi, per cui la L. n. 186 del 1982, non contemplava affatto la sanzione disciplinare del trasferimento d’ufficio in danno dei magistrati amministrativi.

La Corte di appello ha respinto il gravame confermando l‘esegesi della normativa implicata fornita dal primo giudice.

Ciò posto, va rammentato che il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d’appello è configurabile allorchè manchi completamente l’esame di una censura mossa alla sentenza del giudice di primo grado; la violazione non ricorre nel caso in cui il giudice d’appello fondi la decisione su un argomento che totalmente prescinda dalla censura o necessariamente ne presupponga l’accoglimento o il rigetto: infatti nel primo caso l’esame della censura è inutile, mentre nel secondo essa è stata implicitamente considerata (tra le altre, Cass., 19 maggio 2006, n. 11756).

Dunque, seppure in ipotesi non esaminati gli argomenti e le deduzioni indicati in ricorso (ma, invero, lo scrutinio che si reputa omesso è invece ravvisabile nella sentenza impugnata: quanto al terzo motivo, cfr. pp. 29/30; quanto al sesto motivo: cfr. pp. 32/37; quanto al nono motivo: cfr. p. 30), non solo il presunto mancato esame è circoscritto unicamente a taluni profili critici inerenti ai motivi di gravame scrutinati, ma, in via assorbente, l’esame è stato compiutamente effettuato, sia pure implicitamente, in ragione del rigetto dei motivi di appello in forza di una interpretazione della disciplina applicabile alla fattispecie – tema su cui ruotavano tutte le censure e che, del resto, esauriva l’indagine sul fondamento della domanda risarcitoria – contraria a quella divisata dallo stesso appellante.

8.2. – Sono inammissibili, altresì, le doglianze che veicolano un vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (secondo, quinto e ottavo, rispettivamente sub: AA/2, BB/2 e CC/2).

E’ principio consolidato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (applicabile ratione temporis alla presente impugnazione), prevede l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione”, come riferita ad “un fatto controverso e decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (tra le altre, Cass., 5 febbraio 2011, n. 2805; Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152).

In tale prospettiva va soggiunto che il vizio di motivazione comporta, quindi, un giudizio sulla ricostruzione del fatto, là dove, invece, quello di violazione di legge (massimamente sotto il profilo della falsa applicazione di norme di diritto) si risolve in un giudizio sul fatto contemplato dalla norma giuridica applicabile al caso concreto, in maniera tale che tra i due momenti non vi siano giustapposizioni (Cass., 18 marzo 1995, n. 3205; Cass., 7 maggio 2007, n. 10295).

Non sono, dunque, riconducibili al denunciato vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, le dedotte censure di contraddittorietà/illogicità/incongruità della motivazione della sentenza impugnata, giacchè esse non investono “fatti storici” (principale o secondari), bensì i profili dell’interpretazione delle norme di legge e dell’applicazione che di esse la Corte territoriale ha fatto rispetto alla fattispecie concreta, ossia rispetto al provvedimento sanzionatorio del trasferimento d’ufficio disposto nei confronti dell’attore, il quale rappresenta l’unico fatto storico che riveste centralità e decisività nell’ambito del thema decidendum, ma che in alcun modo è stato oggetto, come tale, di contestazione tra le parti nel corso del giudizio di merito e anche in questa sede di legittimità.

Nè, per ragioni analoghe, è riconducibile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la doglianza che investe i contenuti dell’audizione parlamentare del Presidente del Consiglio di Stato sul tema del trasferimento d’ufficio dei magistrati amministrativi, giacchè – a prescindere dalla effettiva portata di tali contenuti e/o dell’ottica stessa con cui essi sono intesi dal ricorrente – le affermazioni rese in detta audizione non concorrono alla ricostruzione dell’anzidetto “fatto storico”, ma, semmai, costituiscono elemento di ausilio nella esegesi della normativa rilevante nella decisione della controversia e, dunque, si pongono come “argomenti” da poter far valere ai fini di un eventuale error in iudicando. Con l’ulteriore precisazione che, seppure proveniente da fonte autorevole, trattasi pur sempre e soltanto di un “punto di vista” non vincolante per gli esiti dell’interpretazione della normativa rilevante rimessa al giudice, la cui correttezza in iure è, in ogni caso, da misurare in base alla sua intrinseca tenuta. E nella stessa prospettiva, estranea al vizio di motivazione, si colloca la valenza ascritta dal giudice del merito ai precedenti giurisprudenziali (nella specie, il rilievo da attribuire, o meno, alla pronuncia n. 1123 del 2001 del Consiglio di Stato) circa l’esito interpretativo prescelto.

8.3. – Sono infondati i restanti motivi (primo, quarto e settimo, rispettivamente sub: AA/1, BB/1, CC/1) che veicolano vizi di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’esito interpretativo al quale è pervenuta la Corte territoriale è, difatti, corretto, dovendosi ritenere fornito di base legale l’esercizio del potere di comminare la sanzione disciplinare accessoria del trasferimento d’ufficio nei confronti di magistrato amministrativo in ragione della applicabilità a tale fattispecie (e, quindi, a quella concreta in essa sussumibile: sanzione disciplinare accessoria del trasferimento d’ufficio dal Tar (OMISSIS) al Tar (OMISSIS) irrogata all’attuale ricorrente in quanto magistrato amministrativo già in servizio presso il Tar Sardegna) della norma (rilevante ratione temporis, per essere il provvedimento sanzionatorio del novembre 1999 e, comunque, in data antecedente all’entrata in vigore della nuova regolamentazione sugli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari recata dal D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109) di cui al R.D. 31 maggio 1946, n. 511, art. 21, comma 6, (recante “Guarentigie della magistratura”), in forza del rinvio ad essa effettuato dalla L. 27 aprile 1982, n. 186, art. 32, (Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali).

Ciò per le seguenti ragioni in diritto, che sono assorbenti di ogni censura (ed anche delle osservazioni, ex art. 379 c.p.c., depositate all’esito delle conclusioni del pubblico ministero) mossa dal ricorrente sul piano dell’interpretazione della normativa rilevante.

8.3.1. – Viene in rilievo la fattispecie della sanzione disciplinare del trasferimento d’ufficio, in quanto accessoria ad altra sanzione disciplinare (nella specie – come dedotto nel controricorso, senza contestazioni da parte del ricorrente, che sul punto non fornisce specifiche indicazioni – quella della perdita dell’anzianità per due anni), nei confronti di magistrato amministrativo e, segnatamente, di Tar.

L’ambito specifico della materia implicata, ossia quello “disciplinare”, porta a considerare come immediato e diretto referente della regolamentazione normativa il Capo IV della citata L. n. 186 del 1982, per l’appunto dedicato alla “Sorveglianza e disciplina” e, specificamente, gli artt. da 32 a 34.

La prima norma (recata dall’art. 32) – che assume centralità nell’esegesi richiesta dalla presente controversia – è rubricata proprio “Disciplina” e stabilisce, testualmente: “Per quanto non diversamente disposto dalla presente legge si applicano ai magistrati le norme previste per i magistrati ordinari in materia di sanzioni disciplinari e del relativo procedimento”.

Gli artt. 33 e 34, seguenti regolano esclusivamente profili “procedurali”, attinenti alla “Titolarità dell’azione disciplinare ed istruttoria del procedimento” (il primo) e la “Decisione del procedimento disciplinare” (il secondo), ma non dettano norme, “sostanziali”, in tema di sanzioni o di presupposti illeciti disciplinari.

Di qui, il rilievo per cui, quanto alla materia disciplinare, ove “non diversamente disposto” dalla stessa L. n. 186 del 1982, il rinvio alle norme stabilite per i magistrati ordinari (R.D. n. 511 del 1946, artt. 18, 19, 20 e 21) è da ritenersi completo, da queste ultime dovendo trarsi esaustivamente la relativa regolamentazione sostanziale.

8.3.2. – La L. n. 186 del 1982, all’art. 13, comma 4, richiama il R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 5, (Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato), il quale, a sua volta, dispone – in ambito disciplinare – unicamente sulla rimozione (per aver i magistrati “ricusato di adempiere ad un dovere del proprio ufficio imposto dalle leggi o dai regolamenti” o per aver “dato prova di abituale negligenza, ovvero, con fatti gravi,… compromessa la loro riputazione personale o la dignità del collegio al quale appartengono”) e sospensione dall’ufficio (“per negligenza nell’adempimento dei loro doveri o per irregolare e censurabile condotta”).

La stessa legge n. 186, là dove disciplina le “Garanzie, incompatibilità, trattamento economico” (Capo 3^), prevede, in via più generale, che la dispensa o la sospensione dal servizio, nonchè la destinazione “ad altra sede o funzione”, possano avvenire, previa deliberazione del Consiglio di Presidenza, solo con il “consenso” del magistrato amministrativo “o per i motivi stabiliti dalla legge” (art. 24).

Inoltre, il successivo art. 25 stabilisce che i “trasferimenti d’ufficio possono essere disposti esclusivamente nelle ipotesi e con i criteri stabiliti dalla legge”, dettando poi la regolamentazione dell’invio “in missione” di magistrato presso il Tar che “non possa funzionare per mancanza del numero di magistrati necessari a formare il collegio giudicante”.

L’art. 28 dispone, poi, in ordine alle cause di “incompatibilità e di ineleggibilità”, rinviando alla disciplina dettata per i magistrati ordinari.

L’art. 58, quale norma di chiusura, stabilisce l’abrogazione di “ogni disposizione contraria alla presente legge o con essa incompatibile” e, di conseguenza, l’abrogazione della L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 13, (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), che prevedeva disposizioni anche in tema di trasferimenti e cause di incompatibilità dei (soli) magistrati amministrativi regionali.

8.3.3. – La L. n. 186 del 1982, ha operato, quindi, una sorta di parallelismo con il sistema di guarentigie della magistratura ordinaria, delineando anch’essa un assetto diversificato tra l’ambito delle garanzie amministrative-organizzative e quelle che attengono alla disciplina e relative sanzioni, con il necessario rinvio alla “legge”, ogni volta imposto al fine di presidiare il principio di inamovibilità del magistrato amministrativo, che è attributo della sua indipendenza, assicurata, in quanto appartenente a giurisdizione speciale, per l’appunto, dalla legge, ai sensi dell’art. 108 Cost., (e, quanto, alla funzione consultiva del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 100 Cost.).

Del resto, alla stregua del menzionato parallelismo con l’assetto ordinamentale della magistratura ordinaria, giova evidenziare come lo stesso R.D. n. 511 del 1946, art. 2, (sia nella formulazione originaria, sia in quella successiva alla novella legislativa del 2006, che, comunque, ha mantenuto l’assetto previgente, seppur con talune significative modifiche) delinea le ipotesi di trasferimento d’ufficio prive del carattere sanzionatorio e correlate, invece, ad esigenze amministrative-organizzative, ossia: 1) quella per incompatibilità di cui al R.D. n. 12 del 1941, artt. 16, 18 e 19, (comma 2, prima parte); 2) quella del c.d. trasferimento incolpevole (cfr. anche Corte cost., sent. n. 457 del 2002), per cui la situazione di obiettiva inidoneità del magistrato a proseguire l’attività in un determinato ufficio (comma secondo, ultima parte) prescinde dalla ascrivibilità al magistrato stesso di un illecito; 3) quelle per soppressione di ufficio o riduzione di organico (commi terzo e quarto).

8.3.4. – Dunque, al di là del rinvio posto dall’art. 13, della legge al R.D. n. 1054 del 1924, art. 5, la medesima L. n. 186, non dispone “diversamente” in materia disciplinare e non lo fa neppure in ambito di “trasferimenti d’ufficio”, correlandosi la previsione dell’art. 25 – dato il contesto stesso nel quale è collocata – al trasferimento per ragioni organizzative e funzionali, di cui è direttamente regolamentato un aspetto particolare e rinviandosi alla legge per le ulteriori ipotesi.

Sicchè, per quanto rileva nella specie, in ambito disciplinare rimane pieno il rinvio della citata L. n. 186 del 1982, art. 32, al R.D. n. 511 del 1946, art. 21, comma 6, il quale prevede: “Il Tribunale disciplinare (successivamente, la sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura), quando infligge una sanzione più grave dell’ammonimento, può stabilire che il magistrato, anche se inamovibile, sia trasferito di ufficio”. Rinvio della cui piena operatività la stessa giurisprudenza amministrativa non dubita (Cons. Stato, sez. 4^, sent. 26 maggio 2006, n. 3161) e ciò a presidio del principio di legalità.

Tale sanzione, dunque, è accessoria ad altra autonoma sanzione ed è volta a salvaguardare la dignità della funzione giurisdizionale e con essa la buona amministrazione della giustizia, vulnerata dalla obiettiva inidoneità del magistrato a proseguire l’attività in un determinato ufficio, quale situazione addebitabile ad illecito disciplinare (Cass., sez. un., 12 dicembre 1989, n. 5542; Cass., sez. un., 28 settembre 2009, n. 20730), così da distinguersi, per natura e funzione, dal già menzionato trasferimento d’ufficio disposto ai sensi dell’art. 2, comma secondo, ultima parte, dello stesso R.D. n. 511 del 1946, e, come tale, da potersi applicare anche là dove non trovi applicazione, invece, il trasferimento d’ufficio cd. incolpevole (Cass., sez. un., 12 dicembre 1989, n. 5542).

Quanto, poi, al profilo materiale del trasferimento, esso non implica necessariamente il mutamento di sede, ma può realizzarsi anche nella stessa sede presso altro ufficio giudiziario ivi esistente, anche tramite la destinazione ad altre funzioni, giacchè diversamente da quanto sembra opinare il ricorrente – la locuzione “trasferimento di ufficio” di cui al R.D. n. 511 del 1946, art. 21, comma 6, è da intendersi non già come riferito all’ufficio giudiziario, ma come trasferimento disposto d’ufficio, ossia che prescinde dalla domanda o dal consenso del magistrato, in deroga alla sua inamovibilità.

8.3.5. – Posto, quindi, che si verte nell’ambito dell’alternativa tra trasferimento “officioso” e trasferimento “consensuale”, nei termini anzidetti depone non solo il complessivo sistema delineato dallo stesso R.D. n. 511 del 1946, art. 2, in cui i trasferimenti d’ufficio possono riguardare la sede, l’ufficio giudiziario o le funzioni, ma anche la disciplina successiva, recata dal D.Lgs. n. 109 del 2006, il cui art. 13, nel ribadire la presenza nell’ordinamento della sanzione accessoria del “trasferimento d’ufficio”, ha reso esplicito quanto già presente, sia pure in modo inespresso, nella norma previgente (art. 21 citato) e cioè che il trasferimento può avvenire “ad altra sede o ad altro ufficio” e, là dove si disponga in via cautelare e provvisoria, anche con “destinazione ad altre funzioni”.

8.3.6. – Il che conduce, altresì, a ritenere manifestamente infondati i dubbi di costituzionalità prospettati in ragione di una presunta disparità di trattamento tra magistrati Tar e consiglieri di Stato quanto alla applicabilità della sanzione del trasferimento d’ufficio (in danno dei primi, anche là dove, in ipotesi, l’illecito dei secondi si palesi di maggiore gravità). Manifesta infondatezza che, infatti, non solo si coglie – e, invero, in modo già assorbente – nella diversità (per funzioni, dotazione organica separata e meccanismi di provvista: cfr. in tale prospettiva Corte cost., ord. n. 434 del 2001 e sent. n. 272 del 2008) delle rispettive qualifiche e, dunque, nella disomogeneità delle situazioni poste in comparazione, che priva di consistenza il giudizio di eguaglianza/ragionevolezza, ma anche, in ogni caso, in forza del rilievo che – ove la misura anzidetta si presti a salvaguardare le esigenze di buona amministrazione della giustizia non potrebbe escludersi, in tesi, un mutamento di funzioni del consigliere di Stato, da quelle giurisdizionali a quelle consultive (o viceversa), in ragione della composizione dell’organo come ribadita dalla stessa L. n. 186 del 1982, art. 1.

Peraltro, neppure potrebbe essere in astratto negata l’ipotesi di trasferimento di ufficio e di sede del consigliere di Stato, posto che già alla luce dell’orientamento giurisprudenziale formatosi nella vigenza del D.Lgs. 6 maggio 1948, n. 654(Norme per l’esercizio nella Regione siciliana delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato) – il Consiglio di giustizia amministrativa (C.G.A.) della Regione siciliana “non è giudice speciale autonomo, bensì, pur con alcune peculiarità attinenti al suo funzionamento ed alla sua composizione, una Sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato, considerato come giurisdizione speciale unitaria” (tra le altre, Cass., sez. un., 19 ottobre 1983, n. 6127). E ciò a maggior ragione in forza del D.Lgs. 24 dicembre 2003, n. 373, (Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana concernenti l’esercizio nella regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato), che – in attuazione coerente con il principio di decentramento territoriale degli organi giurisdizionali centrali, di cui all’art. 23 dello statuto speciale della Regione siciliana (cfr. Corte cost., sent. n. 316 del 2004; Cass., sez. un., 2 luglio 2008, n. 18033) – configura come “Sezioni staccate del Consiglio di Stato” le due Sezioni del C.G.A. (art. 1, comma 2), in base ad una dotazione organica (tre presidenti di Sezione e sei consiglieri di Stato: art. 2) per la cui assegnazione “di sede” (con collocamento fuori ruolo) provvede il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa ai sensi della L. n. 186 del 1982, art. 13.

3. – Il ricorso va, pertanto rigettato.

La novità e la complessità della questione costituiscono giusti motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese anche del presente giudizio di legittimità.

PQM

LA CORTE rigetta il ricorso e compensa interamente le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2016

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