Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23708 del 01/10/2018

Cassazione civile sez. trib., 01/10/2018, (ud. 17/07/2018, dep. 01/10/2018), n.23708

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26463/2011 R.G. proposto da:

Società C. & D. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Vito Barbuzzi,

elettivamente domiciliata in Roma, Via Cicerone n. 18, presso lo

studio dell’Avv. Elisabetta Rampelli;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici domiciliano, in Roma, Via dei Portoghesi

n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Basilicata, n. 237/1/2010, depositata il 19 ottobre 2010;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 luglio

2018 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento nei confronti della società C e D s.r.l., in relazione all’anno 2003, recuperando a tassazione una sopravvenienza attiva conseguente a contributi pubblici, trattandosi di contributo “misto”, in quanto solo in parte il contributo era stato utilizzato per il finanziamento di beni ammortizzabili, mentre la parte restante era stata destinata al finanziamento di oneri pluriennali e per l’acquisto del terreno. La società, invece, aveva iscritto l’intero contributo nella situazione patrimoniale “attraverso la tecnica del risconto passivo”. I contributi relativi al finanziamento di opere pluriennali, come pure quelli per studi e progettazioni, costituivano sopravvenienze attive che concorrevano alla determinazione del reddito nell’esercizio in cui erano stati incassati.

2. La Commissione tributaria provinciale accoglieva solo parzialmente il ricorso, dichiarando legittimo il recupero a tassazione, ma annullando le sanzioni.

3. La Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello dell’Agenzia delle entrate, dichiarando dovute le sanzioni.

4. Proponeva ricorso per cassazione la società.

5. Resisteva con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 101,161,149 e 330 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione del principio del contraddittorio – nullità della sentenza di 2^ grado”, in quanto l’atto di appello non è stato mai notificato all’appellato. Nel mandato difensore nel giudizio di primo grado, dott. P.P., si faceva riferimento all’elezione di domicilio presso lo studio del professionista, ma senza specificazione dell’indirizzo. L’atto, poi, è stato spedito per posta presso il domicilio del difensore ed è stato ritirato presso l’ufficio postale da Pl.Mi., che non è la segretaria del dott. P.. Nè la notifica è stata effettuata alla parte personalmente presso la sede della società.

1.1. Tale motivo è infondato.

Invero, risulta che l’appello è stato spedito per posta allo studio professionale del dott. P., in (OMISSIS) presso il quale la società aveva eletto domicilio con il ricorso di primo grado.

L’atto è stato, poi, ritirato presso l’Ufficio postale da Pl.Mi., incaricata al ritiro, sicchè a nulla rileva che la stessa non sia la segretaria del dott. P..

Infatti, per giurisprudenza di legittimità, ai fini della notificazione a mezzo del servizio postale, l’incaricato al ritiro del piego depositato nell’ufficio postale a causa dell’assenza del destinatario, non deve avere i requisiti stabiliti dalla L. n. 890 del 1982, art. 7 per i soggetti abilitati a ricevere il plico nel luogo indicato sul piego postale, essendo sufficiente, in considerazione della circostanza che il destinatario ha conferito l’incarico a chi provvede a ritirare il plico all’ufficio postale, che il delegato sottoscriva l’avviso di ricevimento con la indicazione della specifica qualità e l’agente postale certifichi con la sua firma in calce al documento la ritualità della consegna (Cass.Civ., 5 dicembre 2017, n. 29019; Cass. Civ., 29 novembre 2017, n. 28627).

Deve evidenziarsi che, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, comma 2, “l’indicazione della residenza o della sede e l’elezione del domicilio hanno effetto anche per i successivi gradi di giudizio”. Tale elezione di domicilio, effettuata dalla parte nel giudizio di primo grado, mantiene la sua efficacia nel giudizio di appello, in assenza di revoca.

Tra l’altro, l’indirizzo del dott. P., pur non presente sulla procura, era “agevolmente desumibile dall’esame del ricorso cui la procura accede” (cfr. pagina 4 del controricorso).

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 “, in quanto, poichè l’Agenzia non ha impugnato con l’appello il capo della sentenza della Commissione provinciale con cui sono state annullate le sanzioni amministrative, la Commissione tributaria regionale, nel riformare la sentenza di prime cure, ritenendo dovute le sanzioni, è incorsa nel vizio di ultrapetizione, in assenza di uno specifico motivo di impugnazione sul punto. L’appello, dunque, è nullo non solo per violazione del “principio di corrispondenza di quanto devoluto con quanto deciso”, ma anche per assenza “della specificità dei motivi”.

2.1. Tale motivo è inammissibile.

Invero, a prescindere dalla circostanza che la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ai sensi dell’art. 112 c.p.c., come pure la genericità dei motivi di appello, dovevano essere dedotti come censure ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, quali errores in procedendo, tuttavia si rileva l’inammissibilità del motivo per difetto di autosufficienza.

Infatti, quanto alla censura di difetto di specificità dei motivi di appello, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass.Civ., sez. 5, 29 settembre 2017, n. 22880).

Allo stesso modo, con riguardo alla pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c.., l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo, sicchè, laddove sia stata denunciata la falsa applicazione della regola del “tantum devolutum quantum appelatum”, è necessario, ai fini del rispetto del principio di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione, che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli dell’atto d’appello con cui le censure ritenute inammissibili per la loro novità sono state formulate (Cass.Civ., 8 giugno 2016, n. 11738).

Nella specie, la ricorrente nel ricorso per cassazione non ha riportato il contenuto dell’atto di appello articolato dall’Agenzia delle entrate, non consentendo alla Corte di comprendere in alcun modo nè il tenore dei motivi dell’appello nè l’eventuale decisione ultra petitum contestata alla Commissione tributaria regionale.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la società si duole della “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Art. 360 c.p.c., n. 5”, in quanto tutte le censure sollevate nel merito dell’accertamento da parte della società “sono state rigettate dalla Commissione tributaria regionale…che pur ha confermato l’accertamento senza che sia stata spesa una parola in merito alla fondatezza delle censure all’accertamento mosse dalla società ricorrente”.

3.1. Tale motivo è infondato.

Invero, dopo che la Commissione provinciale ha accolto il ricorso della contribuente limitatamente alle sanzioni, annullandole, ma rigettando il ricorso per le censure di merito sollevate, l’appello è stato proposto solo dalla Agenzia delle entrate per il capo relativo alle sanzioni, con richiesta, quindi, di ripristino delle stesse.

In assenza di una impugnazione specifica da parte della società, le questioni di merito sono state coperte dal giudicato “interno”, sicchè è ovvio che la Commissione regionale non abbia dedicato la sua attenzione alle questioni di merito, ormai irrimediabilmente cristallizzatesi.

L’appello della Agenzia delle entrate era diretto solo avverso il capo della sentenza della Commissione provinciale che aveva annullato le sanzioni, mentre la società non ha proposto appello incidentale in ordine alla conferma dell’avviso di accertamento con riguardo alle questioni di merito, attinenti alla natura di sopravvenienza attiva o meno dei contributi erogati.

4. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 4.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2018

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