Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23686 del 01/10/2018

Cassazione civile sez. trib., 01/10/2018, (ud. 10/07/2018, dep. 01/10/2018), n.23686

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21989-2311 proposto da:

ARCO SRL IN LIQUIDAZIONE, elettivamente domiciliato in ROMA VIA

CRESCENZIO 91, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO POMPEI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO DE CESARI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI LUCCA in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

e contro

MINISTERO DELLE FINANZE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 95/2010 della COMM.TRIB.REG. di FIRENZE,

depositata l’08/07/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/07/2018 d Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.

Fatto

RILEVATO

che:

La ARCO s.r.l. in liquidazione ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 95/21/10, depositata l’8.07.2010 dalla Commissione Tributaria Regionale della Toscana;

ha rappresentato che a seguito della notifica di avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 2004 – con il quale l’Agenzia delle Entrate, rilevando un sensibile scostamento dei ricavi dichiarati dalla contribuente rispetto agli studi di settore, aveva provveduto a rideterminare il reddito ai fini Ires, Irap ed Iva – era promosso il giudizio dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Lucca, che con sentenza n. 714/08 rigettava il ricorso. Il giudice di primo grado riteneva corretta la ricostruzione dei ricavi, eseguita ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) perchè valutava con idonei e adeguati gli elementi assunti a base dell’accertamento.

La Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con la sentenza ora impugnata, confermava la correttezza del ricorso all’accertamento analitico-induttivo riducendo tuttavia i ricavi del 50%.

La società censura la sentenza con due motivi:

con il primo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies conv. in L. n. 427 del 1993, degli artt. 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente ritenuto legittimo l’accertamento induttivo fondato esclusivamente sul calcolo delle bottiglie di acqua minerale servite nello svolgimento dell’attività di ristorazione;

con il secondo per omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver adeguatamente risposto alle critiche mosse dalla contribuente agli esiti dell’accertamento;

chiedeva pertanto la cassazione della sentenza.

Si è costituita l’Agenzia con controricorso, contestando le avverse difese e chiedendo il rigetto del ricorso.

Il Ministero dell’Economia, cui pure il ricorso era notificato, non si costituiva.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Deve preliminarmente dichiararsi l’inammissibilità del ricorso nei confronti del Ministero della Economia per la sua carenza di legittimazione passiva, atteso che nelle sue posizioni processuali sono ormai subentrate le Agenzie fiscali, e in particolare quella delle Entrate per i rapporti tributari, a partire dai contenziosi introdotti successivamente alla data in cui le Agenzie sono divenute operative (1 gennaio 2001).

Esaminando il merito, il primo motivo è infondato. Con esso la contribuente lamenta che la sentenza abbia ritenuto legittimo l’accertamento induttivo fondato esclusivamente sul numero delle bottiglie presumibilmente vendute nell’esercizio di ristorazione condotto dalla contribuente, elemento di per sè insufficiente a garantire la gravità, precisione e concordanza delle presunzioni semplici.

La giurisprudenza ha affermato che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente; in tale sede quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le allegazioni del contribuente. L’esito del contraddittorio tuttavia non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, il cui onere probatorio grava sull’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente (Cass., Sez. U., sent. n. 26635 del 2009; più di recente, Sez. 5, sent. 9484/2017; Sez. 5, sent. n. 21754/2017; Sez. 5, sent. 14091/2017).

Quanto alla corretta applicazione delle regole sulla prova presuntiva, che con il ricorso il contribuente critica, denunciando sostanzialmente un loro malgoverno da parte del giudice regionale, deve ribadirsi che compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poichè se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., ord. n. 10973/2017, Cass., sent. n. 1715/2007).

Peraltro, ai fini dell’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti accertarti dalla amministrazione (Cass., sent. n. 1575/2007), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova. Nel caso di specie il ricorrente ritiene che l’unico elemento assunto dalla Amministrazione a fondamento dell’accertamento induttivo, e come tale riconosciuto anche dal giudice regionale, sia un indizio irrilevante, privo dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, sicchè mancherebbe la prova presuntiva richiesta dall’art. 2729 c.c. e dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d).

La giurisprudenza di legittimità ha tracciato il corretto procedimento logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorchè preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perchè è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (tra le più recenti cfr. Cass., sent. n. 12002/2017; Cass., ord. n. 5374/2017). Ciò che rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria. Quanto alla ipotesi dell’unico indizio, anche di recente si è affermato che in tema di accertamento induttivo del reddito di impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di maggiori ricavi non dichiarati da un’impresa commerciale può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purchè grave e precisa (Sez. 5, ord. n. 30803 del 2017).

Occorre allora verificare se nella sentenza gravata sia stato fatto buon governo dei principi appena esposti.

Nella sentenza si afferma che “la Commissione conviene con la sentenza impugnata, là dove giustifica il ricorso all’accertamento induttivo seguito dall’Ufficio ai sensi dell’art. 39 per rideterminare il reddito d’impresa conseguito dalla società di ristorazione, per tutte le motivazioni in essa riportate quali le potenzialità dell’azienda, l’irregolare tenuta delle scritture contabili con particolare riferimento alle giacenze di magazzino, lo scostamento dei valori dichiarati da quelli risultanti dall’applicazione degli studi di settore, gli indici di ricarico inferiori alla media”. La motivazione, apparentemente sintetica ma in realtà integrata dall’argomentato rinvio alla decisione di primo grado, fa comunque espresso richiamo ad una serie di fattori, irregolarità contabili ed indici di ricarico inveritieri, che giustificano ampiamente il ricorso al metodo di accertamento induttivo. Si tratta peraltro di elementi che vanno a combinarsi con quello utilizzato per la quantificazione e rideterminazione dei ricavi (il numero dì bottiglie di acqua minerale), sicchè nel caso di specie emerge che il giudice tributario d’appello ha fatto buon governo delle regole probatorie presuntive.

Da ciò consegue che la contribuente non coglie nel segno quando sostiene che la sentenza abbia riconosciuto la correttezza di un accertamento fondato esclusivamente sul numero delle bottiglie di acqua minerale. Innanzitutto perchè è palese come nella sentenza la correttezza dell’accertamento non sia stata ricondotta alla sola quantificazione dell’acqua minerale, ma all’insieme delle incongruenze elencate nel primo capoverso dei motivi della decisione (irregolare tenuta delle scritture contabili, indici di ricarico inferiori alla media). Quanto al valore probatorio attribuito al numero di bottiglie d’acqua servite in occasione dell’attività di ristorazione, la sentenza, al contrario di quanto suggestivamente pretende di affermare la difesa della contribuente, non ha affatto subito passivamente ed acriticamente il dato considerato dalla Agenzia, ma anzi, avvertendo la “fragilità” del risultato, lo ha autonomamente rivalutato, sia pure nell’alveo di una prova presuntiva, sostenendo che, in presenza di una attività di ristorazione e una di bar, alla prima potesse attribuirsi la metà del consumo di acqua, con il conseguente dimezzamento, nel quantum, dei maggiori ricavi rispetto al dichiarato. In tale ragionamento non si rileva alcuna scorretta applicazione delle regole sulla prova presuntiva, secondo i principi contenuti nell’art. 2729 c.c..

Ogni censura che la contribuente voglia introdurre rispetto al ragionamento logico e critico del giudice d’appello mira solo ad una rivalutazione dei fatti, ma ciò afferisce a giudizi di merito inibiti in sede di legittimità.

Infondato è anche il secondo motivo, con il quale la società censura la sentenza sotto il profilo del vizio motivazionale. La ricorrente lamenta che il giudice regionale non avrebbe dato risposta alle “eccezioni di merito svolte fin dal primo grado di giudizio, riguardanti i macroscopici errori di imputazione del consumo di bottiglie di acqua minerale”.

Il motivo è inammissibile sotto un duplice profilo. E’ inammissibile per difetto di autosufficienza per non aver trascritto nel ricorso le suddette eccezioni, identificando in ogni caso dettagliatamente a quali eccezioni si riferiva e ciò con specifico riferimento a quelle sollevate in sede d’appello e non dinanzi al giudice tributario di primo grado. E’ inammissibile perchè, adombrando una mancata risposta a tali eccezioni, lamenta un vizio di motivazione laddove evidentemente avrebbe dovuto censurare la sentenza sotto il profilo del vizio di legge processuale.

A margine, e per mera completezza, in punto di motivazione non si evidenziano incongruenze o salti logici della sentenza, che invece si dilunga criticamente sul valore da attribuire al numero di bottiglie d’acqua consumate nell’attività di ristorazione, con evidente implicito rigetto di ogni diversa prospettata ricostruzione della vicenda.

Considerato che:

il ricorso va rigettato e all’esito del giudizio deve seguire la soccombenza della ARCO srl nelle spese di causa, nella misura specificata in dispositivo. Nulla va invece regolato in riferimento al Ministero, che non si è costituito.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero; rigetta il ricorso nei confronti della Agenzia; condanna la società ricorrente a rifondere alla Agenzia le spese di causa, che si liquidano in Euro 3.200,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2018

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