Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23658 del 27/10/2020

Cassazione civile sez. III, 27/10/2020, (ud. 30/06/2020, dep. 27/10/2020), n.23658

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30514-2018 proposto da:

G.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO

GRAMSCI, 20, presso lo studio dell’avvocato MANLIO LENTINI,

rappresentato e difeso dall’avvocato CALOGERO DI STEFANO;

– ricorrente –

contro

P.T., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI

SAVORELLI 11, presso lo studio dell’avvocato ANNA CHIOZZA,

rappresentata e difesa dall’avvocato MASSIMO BLANDI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1207/2018 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 03/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/06/2020 dal Consigliere Dott. PAOLO PORRECA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

G.G. intimava a P.T. lo sfratto per morosità, con richiesta di convalida, in relazione a un contratto di locazione immobiliare; l’intimata si costituiva controdeducendo:

– che i canoni venivano pagati a mani di V.R., moglie del locatore e sorella di V.G., proprietario dell’immobile, che aveva siglato “per avallo” il contratto in parola;

– che la V. aveva rifiutato di ricevere in consegna l’assegno a decorrere dai pretesi mesi di mora, e poi si era resa irreperibile;

– che, subito dopo, V.G. l’aveva convenuta in giudizio per rispondere di occupazione senza titolo, vedendo accolta la domanda con condanna al pagamento di una somma, per indennità di occupazione, corrispondente a circa due terzi del canone;

il Tribunale, esclusa la convalida dello sfratto stante l’opposizione manifestata, ordinava il rilascio dell’immobile, che veniva eseguito, e con sentenza dichiarava risolta per inadempimento la locazione;

la Corte di appello riformava la decisione di primo grado, osservando che il locatore non aveva garantito il pacifico godimento dell’immobile alla locataria, posto che questa si era vista convenire in giudizio per occupazione senza titolo dal proprietario, sicchè era evincibile che, violando la buona fede contrattuale e in concorso con V., il locatore avesse fatto in modo di creare una situazione di apparente inadempimento, in realtà senza colpa della conduttrice che, da parte sua, aveva giustificato il mancato pagamento dei ratei con l’impossibilità di eseguirlo nelle mani dell’incaricata alla ricezione, resasi irreperibile;

avverso questa decisione ricorre per cassazione G.G. articolando due motivi;

resiste con controricorso P.T..

Diritto

RILEVATO

che:

con il primo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175,1176,1375,1453,1460,1575,1587,1209,1220, c.c., artt. 112,115,116, c.p.c., poichè la Corte di appello avrebbe errato valutando erroneamente le risultanze dell’incarto processuale., e in particolare mancando di considerare che:

– la firma “per avallo” apposta al contratto di locazione era stata disconosciuta nel giudizio sull’occupazione “sine titulo” e non era stata oggetto d’istanza di verificazione;

– V. viveva negli (OMISSIS) e non aveva partecipato alla formazione del contratto di locazione;

-l’azione di V. non poteva ritenersi interferire con quella di risoluzione contrattuale;

– era stata rilevata d’ufficio l’eccezione ex art. 1460, c.c., invece riservata alla disponibilità della parte;

– la decisione era stata basata su prove non offerte dalla parte onerata ma su fatti labilmente esposti dalla conduttrice;

– non vi era infatti prova del rifiuto di accettazione del pagamento dei canoni dovuti da parte del deducente o di una sua incaricata, nè della lesione del pacifico godimento dell’immobile;

– non era stata formulata offerta formale o informale di pagamento per innescare la “mora credendi” o escludere quella “debendi”;

– il deducente, venuto a conoscenza della domanda di rilascio per occupazione senza titolo e pagamento – neppure avvenuto – della correlativa indennità, aveva rinunciato alla pretesa per canoni, come attestato dalla sentenza di prime cure;

– non vi era quindi il pure paventato contrasto di giudicati tra la pronuncia di risoluzione e quella per occupazione senza titolo; con il secondo motivo si chiede la riforma della statuizione sulle spese processuali in ragione della necessaria cassazione della sentenza di secondo grado;

Rilevato che:

il primo motivo è in parte inammissibile, in parte infondato, con assorbimento del secondo;

le deduzioni relative alla firma “per avallo” e alla residenza del V. sono del tutto inammissibili perchè concernenti altro giudizio la prima e nuova la seconda, il tutto devoluto nella prospettiva di escludere alcuni elementi indiziari vagliati come si sta per constatare dalla Corte di appello, nell’ambito della valutazione in fatto riservata al giudice di merito e non sindacabile in questa sede se non nei limiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5, con censura qui non formulata;

la Corte di appello, poi, pur scrivendo che la P. aveva “sospeso il pagamento dei canoni, in correlazione con la condanna a pagare l’indennità di occupazione” (che non vuol dire necessariamente in esatta concomitanza con la sentenza che riconobbe la debenza dell’indennità di occupazione, come prospettato a pag. 8 del ricorso), ha, nel contesto della motivazione, sostanzialmente affermato:

– non la fondatezza di un’eccezione d’inadempimento, ma – che l’interruzione del pagamento dei ratei per un verso era stata “giustificata” con l’impossibilità di rintracciare l’incaricata alla riscossione, e “comunque” – che – essendo “impossibile” ritenere esigibile sia il pagamento dell’indennità di occupazione che del canone, in favore la prima del proprietario e il secondo del locatore, in “evidente concorso” tra loro il quadro delle risultanze complessive conduceva, tenuto anche conto della condotta del proprietario pur a conoscenza della locazione, a escludere la colpa della locataria e, dunque, anche l’imputabilità dell’inadempimento ritenuto solo “apparente”, ovvero oggetto di una condotta abusivamente finalizzata, ledendo il godimento del cespite locato, a giustificare l’elisione del contratto locativo, legittimando ripresa della disponibilità del cespite;

ora, la valutazione delle risultanze istruttorie nel senso appena descritto è, come già anticipato, propria del giudizio di merito e non suscettibile di revisione in sede di legittimità;

nella cornice fattuale verificata, non vi è quindi spazio per ritenere la violazione del regime legale delle obbligazioni in capo al conduttore, così come per negare l’esclusione della “mora debendi” e, specularmente, affermare e imputare il grave inadempimento, così ricostruiti, a prescindere dall’allegata rinuncia alla domanda di pagamento dei ratei;

al contempo, è stato reiteratamente ribadito (Cass., 10/09/2019, n. 22525, Cass., 07/11/2019, n. 28619) che in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli invocati artt. 115 e 116, c.p.c., opera sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè, in questa chiave, la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, bensì un errore di fatto, che dev’essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo, qui non dedotto, del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., 12/10/2017, n. 23940);

ciò posto, la violazione dell’art. 116 c.p.c., è idonea per altro verso a integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, solo quando il giudice di merito disattenda il sopra ricordato principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta a un diverso regime; mentre la violazione dell’art. 115 c.p.c., può essere dedotta come analogo vizio solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha finito per attribuire maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass., 10/06/2016, n. 11892, Cass., Sez. U., 05/08/2016, n. 16598, pag. 33);

come visto, nella fattispecie vi è a ben vedere il tentativo di una rilettura istruttoria diretta a una nuova valutazione dei fatti, rispetto a quella complessivamente operata secondo il suo proprio sindacato dalla Corte territoriale, che li ha poi sussunti per escludere la mora del debitore e, soprattutto, l’imputabile gravità dell’affermato inadempimento (cfr. Cass., 10/01/2019, n. 434, Cass., 27/05/2015, n. 10995, Cass., 22/10/2014, n. 22346);

spese secondo soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali della controricorrente liquidate in Euro 2.000,00, oltre 200,00 Euro per esborsi, 15% di spese forfettarie e accessori legali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2020

 

 

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