Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23652 del 21/11/2016


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Cassazione civile sez. lav., 21/11/2016, (ud. 27/09/2016, dep. 21/11/2016), n.23652

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26465-2010 proposto da:

G.A. S.R.L., C.F. (OMISSIS), in persona

dell’Amministratore Unico e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PREMUDA 16, presso lo studio

dell’avvocato GIUSEPPE DONNANGELO, che la rappresenta e difende,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS), in

persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli

Avvocati LUIGI CALIULO, LELIO MARITATO, ANTONINO SGROI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 694/2010 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 27/05/2010 R.G.N. 1519/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/09/2016 dal Consigliere Dott. ROBERTO RIVERSO;

udito l’Avvocato DONNANGELO GIUSEPPE;

udito l’Avvocato SGROI ANTONINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza n.694/2010 la Corte d’Appello di Catanzaro accoglieva l’appello proposto dall’INPS contro la sentenza del Tribunale di Rossano che su opposizione di A.G. srl aveva annullato parzialmente, per prescrizione, la cartella esattoriale ivi indicata (n. (OMISSIS)) fino alla concorrenza di Euro 11.260,31 confermando la debenza della residua somma di Euro 1606,06. A sostegno della decisione di riforma la Corte affermava che l’INPS aveva depositato nel giudizio d’appello un avviso bonario, regolarmente notificato all’appellato, dal quale risultava l’interruzione dei termini prescrizionali, avviso che l’INPS non aveva depositato in primo grado per mancanza di disponibilità, come constava dalla riserva effettuata dall’Istituto nella memoria di costituzione in primo grado. Secondo la Corte territoriale tale documentazione, in quanto indispensabile ai fini della decisione, poteva essere prodotta nel giudizio d’appello in applicazione del principio della ricerca della verità materiale cui è ispirato il rito del lavoro e della previdenza, ai sensi degli artt. 421 e 437 c.p.c..

Avverso detta sentenza A.G. Srl ha proposto ricorso per cassazione affidando le proprie censure a quattro motivi, cui resiste l’INPS con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorso deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 276 c.p.c., artt. 437 e 132 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4) in quanto la decisione impugnata è stata adottata da un collegio giudicante diverso da quello che aveva assistito alla discussione e pronunziato il dispositivo, come si evince dalla copia autentica del verbale di udienza del 13.5.2010 e dall’intestazione della successiva sentenza pubblicata il 27.5.2010.

1.1 Il motivo è infondato in quanto, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte (cfr. sentenza n. 15879 del 06/07/20109), la nullità della sentenza deliberata da giudici diversi da quelli che hanno assistito alla discussione, che è insanabile e rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 158 c.p.c., può esser dichiarata solo quando vi sia la prova della non partecipazione al collegio deliberante di un giudice che aveva invece assistito alla discussione della causa; tale prova non può evincersi dalla sola omissione, nella intestazione della sentenza, del nominativo del giudice non tenuto alla sottoscrizione, quando esso sia stato invece riportato nel verbale dell’udienza di discussione, sia perchè l’intestazione della sentenza non ha una sua autonoma efficacia probatoria, riproducendo i dati del verbale d’udienza, sia perchè da quest’ultimo, facente fede fino a querela di falso dei nomi dei giudici componenti il collegio e della riserva espressa degli stessi giudici a fine udienza di prendere la decisione in camera di consiglio, nasce la presunzione della deliberazione della sentenza da parte degli stessi giudici che hanno partecipato all’udienza collegiale, ulteriormente avvalorata dalla circostanza che, ai sensi dall’art. 276 c.p.c., tra i compiti del presidente del collegio vi è quello di controllare che i giudici presenti nella camera di consiglio siano quelli risultanti dal verbale dell’udienza di discussione. Ne consegue che l’omissione nella intestazione della sentenza del nome di un giudice, indicato, invece, nel predetto verbale, ovvero l’errata indicazione ivi contenuta di un giudice al posto di un altro, si presume determinata da errore materiale emendabile ai sensi degli artt. 287 e 288 c.p.c..

1.2 Per di più nel caso in esame risulta dagli atti che la Corte d’Appello di Catanzaro, con ordinanza in data 3.5.2011, abbia proceduto alla correzione dell’errore materiale in questione sostituendo il nominativo del giudice indicato erroneamente con quello che doveva essere indicato nell’intestazione della sentenza.

2. Con il secondo motivo il ricorso deduce violazione, falsa ed errata applicazione dell’art. 437 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) in quanto la documentazione relativa all’interruzione della prescrizione era stata prodotta tardivamente in appello, mentre in primo grado la difesa dell’INPS aveva dato atto di non averne la materiale disponibilità ed aveva chiesto un termine per produrla senza poi ottemperarvi. La norma citata non consente di sanare decadenze in cui la parte sia incorsa, nemmeno esercitando il potere officioso del giudice.

2.1 Il motivo è fondato. Nel caso di specie il giudice d’appello ha deciso la causa, riformando la sentenza di primo grado e rigettando la domanda introduttiva di opposizione alla cartella esattoriale, sulla scorta di un documento prodotto tardivamente dall’INPS con l’atto d’appello, dopo la decadenza maturata nel corso del primo giudizio. Per di più nel caso in esame l’INPS aveva espresso, all’interno della propria memoria di costituzione in primo grado, una riserva di produrre il documento in questione senza darvi alcun seguito fino alla impugnazione della sentenza di primo grado.

2.2. Deve invece ritenersi, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, che l’art. 437 c.p.c. non consentiva la produzione della nuova prova in questione ad opera della parte, trattandosi di documentazione di formazione precedente al giudizio di appello e sulla quale era intervenuta una decadenza.

2.3 Le Sez. Unite con sentenza n. 8202 del 20/04/2005 hanno invero statuito che nel rito del lavoro, in base al combinato disposto dell’art. 416 c.p.c., comma 3, che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare – onere probatorio gravante anche sull’attore per il principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977 – e art. 437 c.p.c., comma 2, che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova – fra i quali devono annoverarsi anche i documenti – l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo); e la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello.

2.4. Neppure può ritenersi che nel caso di specie potesse legittimamente esercitarsi il potere officioso del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ex artt. 437 e 421 c.p.c., ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, in quanto, come si evince dalla stessa giurisprudenza cit., il medesimo potere deve essere esercitato “pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse”.

2.5. Nel caso di specie, in base agli atti, risulta soltanto che in primo grado l’INPS avesse eccepito l’interruzione della prescrizione riservandosi di documentarla; senza però neppure specificare quando, come ed in virtù di quale atto l’interruzione si fosse prodotta. Si trattava quindi di una allegazione del tutto generica e non circostanziata che non era idonea a consentire la corretta esplicazione del potere officioso, il quale non può assumere funzione totalmente sostituiva dell’onere di allegazione e di prova, con alterazione del regolare funzionamento dell’iter processuale, della parità delle armi tra le parti, della garanzia del contraddittorio.

2.6 Al riguardo valgono i seguenti principi, oramai indiscussi: gli artt. 421 e 437 c.p.c. attribuiscono al giudice il potere – dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati nell’atto introduttivo e quindi oggetto del dibattito processuale; l’inciso “in qualsiasi momento”, contenuto nell’art. 421 c.p.c., comma 2 depone nel senso che il potere inquisitorio può essere esercitato prescindendo dalle preclusioni e dalle decadenze già verificatesi, ed il richiamo all’art. 420, comma 6, – nel delimitare l’esercizio di tale potere alla fase di discussione, in cui appunto opera il comma 6 – sta a significare che esso deve effettuarsi nel contraddittorio delle parti, conferendo a quella contro cui viene esercitato il diritto di difesa; i poteri istruttori del giudice non sono segnati dai limiti previsti nel codice civile: tuttavia, essi incontrano un duplice limite, poichè, da una parte, devono essere esercitati nel rispetto del principio della domanda e dell’onere di deduzione in giudizio dei fatti costitutivi, impeditivi o estintivi del diritto controverso e, dall’altra, devono rispettare il divieto di utilizzazione del sapere privato da parte del giudice; l’art. 421 (e il art. 437 per il giudizio di appello) dispensa la parte dall’onere della formale richiesta della prova e dagli oneri relativi alle modalità di formulazione dell’oggetto della prova, ma richiede pur sempre che, dall’esposizione dei fatti compiuta dalle parti o dall’assunzione degli altri mezzi di prova, siano dedotti, sia pure implicitamente, quei fatti e quei mezzi di prova idonei a sorreggere le ragioni della parte e a decidere la controversia, e cioè che sussistano significative “piste probatorie” emergenti dagli atti di causa, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado (Cass., 5 febbraio 2007, n. 2379; Cass., 5 novembre 2012, n. 18924; Cass. Sez. Un. 17 giugno 2004, n. 11353; Cass. 6 luglio 2000, n. 9034): solo così, infatti, il giudice non si sostituisce alla parte, ma si limita a riempire le lacune probatorie di un accertamento che, pur se incompleto, presenta tuttavia notevoli gradi di fondatezza.

3.- Il terzo motivo denuncia nullità della sentenza per violazione degli dell’art. 437 c.p.c. alla luce dell’art. 111 Cost. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4) in quanto la Corte dopo l’ammissione del documento, non ha ammesso il ricorrente ad interloquire sulla sua rilevanza e non le ha consentito di formulare nuove richieste istruttorie sul punto.

Questo motivo deve ritenersi assorbito per effetto dell’accoglimento del secondo.

4. Il quarto motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4) per aver omesso di pronunciare su tutta la domanda formulata dalla ricorrente con il ricorso introduttivo e per essere la sentenza assolutamente priva di motivazione sul punto. Ciò in quanto in primo grado il tribunale aveva accolto la domanda parzialmente per prescrizione, ritenendo assorbita ogni ulteriore istanza. Mentre nel giudizio d’appello, nonostante l’appellata nel costituirsi avesse richiamato tutte le deduzioni ed istanze istruttorie che escludevano i fatti posti alla base della pretesa contributiva, la Corte, una volta ritenuto di riformare la sentenza sulla questione preliminare della prescrizione, non ha ritenuto di pronunciarsi sulle stesse istanze; rigettando la domanda senza nemmeno giudicare nel merito della stessa.

Il motivo è inammissibile perchè omette di specificare nel ricorso per cassazione di quali domande od istanze si tratti. Infatti secondo l’orientamento costante di questa Corte (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 6361 del 19/03/2007) perchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile; e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, “in primis”, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi. Ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 c.p.c., riconducibile alla prospettazione di un’ipotesi di “error in procedendo” per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del “fatto processuale”, detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio “per relationem” agli atti della fase di merito, dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca ma solo ad una verifica degli stessi.

5. Per le considerazioni sin qui svolte il ricorso deve essere quindi accolto in relazione al secondo motivo e la sentenza impugnata deve essere cassata. Non essendo necessari altri accertamenti di fatto la causa deve essere decisa con la conferma della statuizione di primo grado. L’INPS soccombente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali del giudizio di appello e di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e conferma la statuizione di primo grado. Condanna l’INPS al pagamento delle spese processuali del giudizio di appello, liquidate in Euro 1600, di cui Euro 1500 per compensi professionali, e del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2100, di cui Euro 2000 per compensi professionali; oltre al 15% di spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2016

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