Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23642 del 24/09/2019

Cassazione civile sez. III, 24/09/2019, (ud. 07/06/2019, dep. 24/09/2019), n.23642

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 21458-2017 R.G. proposto da:

BIESSECI SRL, in persona del legale rappresentante pro-tempore

C.R.S., rappresentata e difesa dall’Avv. Vladimiro

Pegoraro e dall’Avv. Michele Greggio, con domicilio in Roma presso

la Cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

F.M., rappresentata e difesa dall’Avv. Gian Alberto Tuzzato

e dall’Avv. Vincenzo Giangiacomo, con domicilio eletto in Roma

presso lo Studio legale di ques’ultimo, via A. De Petris, n. 6;

– controricorrente-

avverso la sentenza n. 385/17 della Corte d’Appello di Trieste,

depositata il 21/06/2017;

Udita la relazione svolta nella Pubblica Udienza dal Consigliere

Dott. Marilena Gorgoni;

Udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. Cardino Alberto, che ha chiesto

l’accoglimento del primo motivo di ricorso;

Udito l’Avv. Vincenzo Giangiacomo per F.M..

Fatto

FATTI DI CAUSA

Biesseci S.r.l. ricorre per la cassazione della sentenza n. 385/2017 della Corte d’Appello di Trieste, pubblicata il 21 giugno 2017, affidandosi a quattro motivi.

F.M. resiste con controricorso.

La società ricorrente espone di aver esercitato, in data 10/10/2012, il recesso, L. n. 392 del 1978, ex art. 27, u.c., dal contratto di locazione dell’immobile ad uso commerciale stipulato con F.M. il 5/05/2011, dopo aver ripetutamente tentato di raggiungere con la proprietaria un accordo per un aggiornamento in diminuzione del canone al fine di fronteggiare la crisi economico-finanziaria che, dalla fine del 2011 e per tutto il 2012, aveva coinvolto il campo della moda al dettaglio.

In data 26/04/2013 F.M. otteneva la riconsegna del locale e riconosceva all’attuale ricorrente la restituzione del deposito cauzionale da portare in detrazione dai canoni di locazione successivamente pagati.

Nel novembre 2014 locava a terzi l’immobile, sia pure ad un canone inferiore.

Il 4/05/2015 F.M. promuoveva ricorso ex art. 447 bis c.p.c. nei confronti della società ricorrente, chiedendo che il Tribunale di Pordenone accertasse l’illegittimità o l’inefficacia del recesso e la condannasse al risarcimento dei danni per la somma, corrispondente ai canoni non percepiti, di Euro 96.561,00, o il diverso importo da accertarsi in corso di causa.

Il Tribunale adito, con la sentenza n. 113/2017, rigettava la richiesta risarcitoria sul presupposto che l’andamento della congiuntura economica e i dati economici forniti dalla società ricorrente in merito al calo del fatturato del 22,6% costituissero gravi motivi idonei a giustificare il recesso anticipato.

La decisione veniva impugnata, con ricorso ex art. 433 c.p.c., da F.M., dinanzi alla Corte d’Appello di Trieste che, con la sentenza oggetto dell’odierna impugnazione, accoglieva l’appello e riformava parzialmente la decisione di prime cure, dichiarando illegittimo il recesso dal contratto esercitato da Biesseci S.r.l., condannando la società conduttrice al pagamento di Euro 96.561,60, oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo ed alle spese di entrambi i gradi di giudizio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la società Biesseci S.r.l. deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 421 c.p.c., art. 437 c.p.c., comma 2, e dell’art. 447 bis c.p.c., commi 1 e 3, e L. n. 391 del 1978, art. 47 in riferimento all’asserita ed immotivata inammissibilità della produzione documentale di parte appellata.

La mancata ammissione dei bilanci degli anni 2010-2013, della relazione tecnico-commerciale di parte e delle lettere di licenziamento dei dipendenti del negozio di (OMISSIS) è stata giustificata dal giudice a quo solo ricorrendo alla novità della loro produzione (p. 3 della sentenza).

Tale motivazione è censurata dalla società ricorrente con una pluralità di rilievi critici: a) il contrasto con la volontà del legislatore di non porre rigide barriere preclusive ai mezzi di prova, al fine di garantire i rapporti economici e i diritti inviolabili costituzionalmente tutelati, come risulterebbe provato dall’art. 447 bis c.p.c., comma 3, che consente al giudice di disporre d’ufficio l’ammissione di ogni mezzo di prova, dalla L. n. 391 del 1978, art. 47 il quale attribuisce al giudice la facoltà di disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, dall’art. 437 c.p.c., comma 2, che, in appello, consente nuovi mezzi di prova, ove il collegio anche d’ufficio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa; b) il potere, anzi il dovere, del giudice di sopperire alle lacune probatorie delle parti, conformando, anche al di fuori della materia locatizia, il principio dispositivo con la ricerca della verità materiale, al fine di assicurare la ? realizzazione del giusto processo.

La tesi della società ricorrente è che se la Corte d’Appello avesse vagliato, come avrebbe dovuto fare in forza dei rilievi precedenti, la documentazione prodotta avrebbe dovuto ritenere provata la ricorrenza di gravi motivi per il recesso anticipato: motivi rispondenti ai richiesti caratteri della imprevedibilità, della sopravvenienza e della involontarietà.

2. Con il secondo motivo parte ricorrente imputa alla sentenza impugnata:

a) di avere omesso l’esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in merito ai requisiti di imprevedibilità, involontarietà e sopravvenienza dei calo del fatturato, tale da rendere gravoso per il conduttore il prosieguo della locazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; b) di aver violato e/o falsamente applicato l’art. 115 c.p.c. in merito alla valutazione dei requisiti di imprevedibilità, involontarietà e sopravvenienza del calo del fatturato, tale da rendere gravoso per il conduttore il prosieguo della locazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Pur avendo riconosciuto la ricorrenza di un calo del fatturato, la Corte territoriale, secondo la prospettazione della società Biesseci, avrebbe erroneamente tratto la conclusione che non vi fosse prova certa dell’imprevedibilità e della involontarietà, omettendo di considerare che la repentina contrazione delle vendite nel periodo 2012, comprovata da una serie di documenti, doveva considerarsi un fatto nuovo e sopravvenuto rispetto alla data di stipulazione del contratto, che tale calo non poteva farsi rientrare nell’alea normale del rischio d’impresa, essendo ascrivibile ad un fatto notorio la crisi economica che aveva colpito in particolare il settore dell’abbigliamento, come tale conoscibile dal giudice anche ai sensi dell’art. 115 c.c., che la crisi economica non era un fatto soggettivo e dipendente dalla sua volontà, visto che aveva cercato di attuare una politica di contenimento dei costi e di miglioramento nella gestione del negozio, attraverso la revisione dell’orario dei dipendenti, il tentativo di rinegoziare il canone e di cedere il ramo d’azienda, di stipulare un contratto di franchising, di vendere merce in conto vendita, ecc. Tali circostanze, non contestate da F.M. nei suoi scritti difensivi, avrebbero dovuto essere considerate provate ai sensi dell’art. 115 c.p.c. e idonee a far emergere la ricorrenza di giusti motivi di recesso anticipato.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce: a) l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e mancanza di motivazione in sentenza in merito all’impossibilità di accoglimento della domanda di risarcimento danni proposta da controparte a causa dell’avvenuta risoluzione consensuale del contratto di locazione e conseguente restituzione dell’immobile, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; b) la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1227,1343,1571,1325,1321 e 1372 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La tesi sostenuta dalla Biesseci è che la Corte territoriale non abbia esaminato il verbale del 26/04/2013 di rilascio e riconsegna delle chiavi alla proprietaria, non contestato nè disconosciuto e anzi prodotto in giudizio dalla resistente. Da tale verbale sarebbe emerso che le parti si erano accordate per la risoluzione del contratto, tant’è che i locali tornavano nella disponibilità della proprietaria, sicchè poterono essere rilocati, e che il debito per i canoni non pagati ammontava a complessivi Euro 14.400,00, da cui avrebbe dovuto essere sottratto un bonifico, effettuato lo stesso giorno, di Euro 1.600,00 e l’importo del deposito cauzionale di Euro 3.100,00.

Successivamente la proprietaria, con comunicazione scritta trasmessa per fax il 20/12/2013, chiedeva il pagamento del saldo di Euro 9.700,00: saldo che le veniva corrisposto con bonifico il 30/12/2013.

Tali circostanze – il ritorno dell’immobile nella piena disponibilità di fatto e giuridica della proprietaria, la restituzione del deposito cauzionale, la richiesta di pagamento dei canoni fino al 26/04/2013 – avrebbero dovuto indurre il giudice a quo a ritenere che tra le parti fosse intercorsa una risoluzione consensuale del contratto.

In aggiunta, il giudicante avrebbe dovuto anche prendere atto che, avendo ricevuto l’immobile il 26/04/2013, la proprietaria aveva deliberatamente deciso di concederlo in locazione a terzi un anno e mezzo dopo e per un canone inferiore, senza mai provare di avere tentato di locarlo prima o di poterne ricavare un canone maggiore. Tale comportamento avrebbe dovuto essere considerato fonte di danno, da valutare ai sensi dell’art. 1227 c.p.c, comma 2.

Quanto al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’assunto cassatorio di Biesseci è che l’eventuale illegittimità del recesso avrebbe dovuto comportare il diritto della conduttrice di godere l’immobile fino alla scadenza naturale del contratto. La società Biesseci non aveva potuto, invece, utilizzare l’immobile per causa imputabile a F.M.; di tale mancato godimento il giudice a quo avrebbe dovuto tener conto ai fini della determinazione del risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 1227 c.c.

Non solo: se F.M. avesse davvero ritenuto illegittimo il recesso, quindi se le parti non avessero sciolto consensualmente il contratto, avrebbe dovuto chiedere l’adempimento ovvero la risoluzione del contratto, non avendolo fatto, quindi, persistendo il contratto di locazione, non avrebbe dovuto privare la società conduttrice della facoltà di godimento dell’immobile, pretendendo poi da essa il risarcimento del danno.

4. Con il quarto ed ultimo motivo la ricorrente denuncia: a) l’omesso esame delle reali circostanze riferite dal teste P. in merito al periodo e alla congiuntura economica di fine 2011, che avrebbero dovuto deporre a favore della Biesseci, anche in connessione ai requisiti di imprevedibilità, involontarietà e sopravvenienza della crisi economica di gravità tale da impedire, in quel determinato periodo di fine 2011, di dare in locazione a terzi l’immobile, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; b) la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere la sentenza omesso di porre a fondamento della decisione i fatti e le circostanze reali e concrete riferite dal teste, dando risalto invece alle sue opinioni e valutazioni personali e, comunque, omettendo un esame integrale della prova testimoniale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Dalla deposizione testimoniale, ad avviso della società Biesseci, sarebbe emersa la ricorrenza di una difficoltà a fine 2011, cioè quando la crisi economica era già in atto, di locare l’immobile al canone richiesto, dato l’abbassamento dei prezzi, nessuna valutazione era stata espressa dal teste con riferimento alla congruità del canone prima della crisi, all’epoca della stipulazione del contratto; peraltro, il testimone aveva dichiarato di non conoscere la piazza di (OMISSIS) e quindi non avrebbe dovuto essere considerato capace di offrire una valutazione seria ed attendibile.

La ricorrente contesta anche che il teste abbia riferito di contrazioni economiche sin dal 2008, come ritenuto dalla Corte territoriale, avendo egli solo riportato che dal 2008 c’erano state continue flessioni del mercato, cioè contrazioni economiche, ma un andamento tra alti e bassi; e nega ogni rilievo alla possibilità di stipulare un canone di natura variabile in relazione al fatturato, non essendo rispondente alla regola del mercato nè nella intenzione della locatrice.

5. Va in primo luogo esaminata l’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dalla resistente, a p. 8.

La tesi sostenuta da F.M. è che, essendo stata la notificazione della sentenza impugnata eseguita con modalità telematica, per soddisfare l’onere di deposito della copia autentica, il difensore del ricorrente, destinatario della suddetta notifica, avrebbe dovuto estrarre copie cartacee del messaggio di posta elettronica certificata pervenutagli e della relazione di notificazione, attestare con propria sottoscrizione autografa la conformità agli originali delle copie analogiche formate e depositare queste ultime presso la cancelleria della Corte.

Nel caso di specie, invece, la ricorrente avrebbe omesso di attestare la conformità della copia analogica del messaggio di posta elettronica rispetto all’originale ricevuto, in violazione dell’art. 369 c.p.c., n. 2.

Giova osservare che la società Biesseci ha esposto in ricorso che la sentenza, pubblicata in data 21/06/2017, era stata notificata a mezzo PEC in data 17/7/2017 al proprio difensore e che il ricorso risultava notificato l’11/11/2017 ai difensori del F.M. costituiti in grado di appello.

Orbene, con riguardo alla copia notificata della sentenza impugnata, questa Corte ha avuto modo di affermare che, qualora la notificazione della sentenza impugnata sia stata eseguita con modalità telematiche – come riferito dalla ricorrente (p. 9 del ricorso) – il difensore del ricorrente, destinatario della suddetta notifica, per soddisfare l’onere di deposito della copia autentica della decisione con la relazione di notificazione, deve: estrarre copia cartacea del messaggio di posta elettronica certificata pervenutogli e dei suoi allegati (relazione di notifica e provvedimento impugnato), attestare con propria sottoscrizione autografa la conformità agli originali digitali della copia formata su supporto analogico, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1 bis e 1 ter e depositare nei termini quest’ultima presso la cancelleria della S.C., mentre non è necessario provvedere anche al deposito di copia autenticata della sentenza estratta dal fascicolo informatico (Cass. 22/12/2017, n. 30765; Cass. 25/09/2018, n. 22757).

Nel caso in esame mancano la copia cartacea del messaggio di posta elettronica certificata pervenuto al difensore della ricorrente ed i suoi allegati, nonchè l’attestazione del difensore stesso con propria sottoscrizione autografa della conformità agli originali dai quali riscontrare la corrispondenza dell’effettiva data della notifica detta sentenza con quella indicata nel ricorso, al fine del computo dei giorni per la verifica di tempestività del ricorso entro il termine breve.

Dal fascicolo si evince che la ricorrente ha depositato la copia della sentenza impugnata corredata dall’attestazione della conformità apposta dalla Cancelleria della Corte di appello in data 18 settembre 2017, ma tale copia è priva della relazione di notifica. Tale deposito non è sufficiente, mancando in atti la documentazione analogica relativa alla notificazione via pec della sentenza necessaria per individuare in maniera indiscutibile il dies a quo da cui computare il termine breve per la notifica del ricorso.

Vi sarebbero astrattamente, insomma, i presupposti per dichiarare il ricorso improcedibile, come eccepito da F.M..

Sennonchè questa Corte rileva che la controricorrente non ha tenuto in alcun conto il fatto che la sentenza impugnata, pubblicata il 21 giugno 2017, come risulta dalla copia autentica depositata, era stata fatta oggetto di correzione di errore materiale, con ordinanza del 18 luglio 2017, la quale aveva modificato il dispositivo del provvedimento relativamente all’entità della condanna alle spese processuali.

La sentenza notificata (la notifica, come si è detto, è avvenuta in 17 luglio 2017) non era, dunque, quella risultante dalla sopravvenuta ordinanza di correzione.

La questione è se la notificazione della sentenza gravata prima della correzione valesse a garantire a chi aveva un interesse ad impugnarla una conoscenza legale piena dell’oggetto della impugnazione.

Il Collegio rileva che la regula iuris da applicare al caso concreto non possa essere la stessa delle ipotesi in cui l’impugnazione si rivolga alle parti corrette della sentenza impugnata, relativamente alle quali la giurisprudenza di questa Corte regolatrice ha espresso un orientamento consolidato nel senso che il termine per l’impugnazione decorre dalla notificazione dell’ordinanza se il ricorso riguardi le parti della sentenza corrette e sempre che l’ordinanza sveli errores in iudicando o in procedendo oppure l’errore corretto sia tale da ingenerare un dubbio obiettivo sull’effettivo contenuto della decisione (di recente, cfr. in senso Cass. 10/04/2018, n. 8863). Il problema, infatti, in questo caso è un altro e precisamente quello del momento in cui chi ha interesse all’impugnazione del provvedimento viene a conoscenza dell’effettivo ed integrale contenuto del medesimo, onde decidere se impugnare e quali capi della sentenza impugnare.

La fattispecie presenta profili di maggiore contiguità con quelli di deposito di sentenza incompleta che questa Corte ha risolto dichiarando improcedibile il ricorso (Cass. 21/01/2015, n. 1012; Cass. 16/05/2001, n. 6749), ai sensi dell’art. 369 c.p.c. che impone di equiparare all’onere di produzione di copia autentica della decisione quello della produzione di copia integrale della stessa.

Da tali ipotesi si ricava non già la soluzione del caso concreto, perchè le fattispecie non sono sovrapponibili, ma l’individuazione di una comune regula iuris applicabile, l’art. 369 c.p.c., la cui finalità è quella di permettere attraverso la produzione del provvedimento impugnato la sua effettiva conoscenza.

Sennonchè bisogna intendersi: un conto è la conoscenza finalizzata a rendere possibile lo scrutinio dei vizi cassatori denunciati – è tanto vero che l’improcedibilità del ricorso viene esclusa quanto sia possibile ricostruire il contenuto del provvedimento impugnato o quando le parti mancanti non siano quelle aggredite con il ricorso per cassazione – un altro è la conoscenza necessaria a far decorrere, come in questo caso, il termine impugnatorio.

Va ribadito che nel nostro ordinamento permane la facoltà di notificazione della sentenza impugnata a cura della parte interessata al fine di far decorrere il termine breve di impugnazione: facoltà qualificata in termini di diritto potestativo – di circoscrivere, in funzione sollecitatoria e acceleratoria, l’esercizio del potere di impugnazione dell’altra parte (destinataria della notifica) entro il termine breve previsto dall’art. 325 c.p.c. – per chi se ne avvale, cui corrisponde la soggezione della controparte che subisce la modificazione unilaterale della propria sfera giuridica, atteggiandosi a soggetto passivo di una scelta di convenienza processuale altrui (Cass., Sez. Un., 09/06/2006, n. 6278).

Tale accelerazione del termine per impugnare non solo è condizionata al fatto che la notificazione della sentenza sia effettuata al “procuratore costituito” della controparte, secondo la previsione degli artt. 285 e 170 c.p.c.; ovverosia ad un soggetto professionalmente qualificato in grado di assumere, nel minor tempo concesso dall’art. 325 c.p.c., le più opportune decisioni in ordine all’eventuale esercizio del potere impugnazione; ma è da ritenersi vincolata anche quanto all’oggetto, nel senso che il provvedimento notificato deve essere coincidente con quello emesso dall’organo giudicante e tale coincidenza non può non implicarne l’integralità: integralità nel caso di specie garantita dalla sommatoria della sentenza emessa e della sua successiva correzione.

L’attività notificatoria soddisfa l’esigenza di porre la controparte nella cognizione di tutti gli elementi atti ad una valutazione completa del provvedimento nel quale in tutto o in parte sia stata soccombente. A ciò si collega il termine breve di impugnazione, la cui perentorietà è indice della necessità che il provvedimento da impugnare sia tutto, e nella sua interezza, nella disponibilità del soccombente per le valutazioni relative alle possibilità di efficacemente impugnarlo.

A F.M. deve imputarsi pertanto di non aver correttamente portato a termine il procedimento notificatorio, perchè, se è vero che l’ordinanza di correzione fu emessa dopo la notificazione della sentenza, la controricorrente avrebbe potuto, stante che l’onere era suo carico, essendo suo l’interesse di vincolare la società Biesseci al termine breve di impugnazione, provvedere alla rinotificazione della sentenza risultante dall’ordinanza di correzione, anzi avrebbe dovuto farlo, ove avesse inteso persistere – come ha fatto – nell’interesse ad una più sollecita proposizione dell’eventuale ricorso.

La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che i “vizi” del procedimento acceleratorio, di cui è onerata la parte che intenda vincolare l’altra ai termini brevi di impugnazione (sia che coinvolgano il procedimento notificatorio, sia l’oggetto della notifica), debbono essere tutti posti a svantaggio del notificante.

Non può addursi, infatti, alcun onere di accertamento diretto dell’intelligibilità del contenuto del provvedimento e della sua individuazione nei suoi elementi essenziali posto a carico del destinatario della notifica, stante che, come si è detto, il rapporto processuale che la notificazione della sentenza determina pone il destinatario in un posizione di soggezione alle altrui determinazioni di convenienza; neppure sulla base di un obbligo processuale di collaborazione e di correttezza espressione di lealtà e di probità (art. 88 c.p.c.), correttezza che non può richiedersi quando la collaborazione di una parte debba avvenire con proprio pregiudizio e per sanare una manchevolezza attribuibile alla controparte.

Del resto, è consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la conoscenza sostanziale dell’atto acquisita aliunde, cioè indipendentemente dalla notifica, non è idonea a creare le condizioni perchè sorga l’onere di impugnazione nel termine breve (Cass. 01/06/1990, n. 5133).

La notificazione, infatti, non ammette equipollenti, occorrendo, al fine di far decorrere il termine impugnatorio, “un atto non ad altro destinato, che a provocare l’impugnazione” (Cass. 26/02/2019, n. 5495).

E’ da ritenersi altresì escluso che l’impugnazione successivamente proposta dalla parte destinataria della notificazione abbia comportato, in applicazione dell’art. 156 c.p.c., il raggiungimento dello scopo di quella notificazione ai fini del decorso del termine breve di impugnazione, atteso che l’impugnazione successiva ha carattere autonomo rispetto alla notificazione della sentenza, senza presupporla necessariamente come avvenuta in una data precisa e quindi senza realizzare lo scopo dell’utile decorrenza del termine per impugnare dalla data della notifica.

Anche a tal riguardo soccorre (ancora) la giurisprudenza di questa Corte che ha dato risposta negativa al quesito se una notificazione invalida raggiunga lo scopo (di per sè non raggiunto per tale invalidità) di segnare la data iniziale di decorrenza del termine breve suddetto, quando il destinatario della notifica abbia proposto impugnazione, in quanto “l’impugnazione è un atto indubbiamente successivo, ed eventualmente anche conseguente, ma del tutto neutro rispetto alla data d’inizio della decorrenza del termine, e peraltro neppure (come è stato osservato) necessariamente presupponente la notifica della sentenza impugnata. Cioè, l’impugnazione successiva non si presenta come espressione, risultato materiale di una data di notificazione della sentenza piuttosto che di un’altra. Essa semmai (lo si è accennato, non necessariamente) presuppone una notifica della sentenza, ma senza data precisa, solo genericamente anteriore, e quindi in combinazione con la notifica invalida non fa realizzare lo scopo della utile decorrenza del termine per impugnare dalla data della notifica stessa”.

Va precisato, in aggiunta, che neppure la eventuale dichiarazione dei destinatario di aver ricevuto la notifica avrebbe l’effetto di far decorrere il termine breve per impugnare (Cass. 15/03/2007, n. 6021).

Di conseguenza, deve ritenersi che la notificazione della sentenza gravata, non seguita dalla notificazione della sentenza conseguente all’ordinanza di correzione eseguita da F.M., non abbia instaurato un valido rapporto processuale tra le parti e non abbia assoggettato la società Biesseci all’impulso acceleratorio che la notificante intendeva raggiungere. Pertanto, deve rigettarsi l’eccezione di tardività del ricorso proposto dalla società Biesseci.

6. Possono, dunque, esaminarsi i motivi di ricorso.

7. Il primo motivo è inammissibile perchè la società ricorrente non ha soddisfatto il principio di autosufficienza. La giurisprudenza di questa Corte è univocamente orientata nel senso di ritenere che il ricorrente, il quale, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione circa un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o in merito alla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere, a pena di inammissibilità del ricorso, di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato o erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività del fatto da provare e, quindi, delle prove stesse.

Tale condizione non è stata soddisfatta nel caso di specie, impedendo a questa Corte tanto di verificare, sulla base soltanto del ricorso e senza necessità di indagini integrative non consentite, la pertinenza e la decisività di quelle risultanze documentali, quanto di valutare se la motivazione di inammissibilità di quelle prove avesse violato i principi, richiamati dalla ricorrente, volti a contemperare il regime delle preclusioni processuali con quello dell’accertamento della verità materiale. Per far prevalere l’accertamento della volontà materiale sul regime delle preclusioni processuali, come preteso dalla società Biesseci, sarebbe stato necessario per il giudice avere nella propria disponibilità una significativa “pista probatoria” necessitante di chiarimenti e approfondimenti.

In particolare – avendo il ricorrente censurato la sentenza rilevando che il giudice d’appello, ritenuto che non fosse stata sufficientemente provata la ricorrenza dei gravi motivi a sostegno della legittimità dell’esercizio del recesso anticipato, avrebbe dovuto, in omaggio al principio di “ricerca della verità reale”, provvedere d’ufficio all’acquisizione di ulteriori elementi di prova – giova rilevare che, per costante giurisprudenza di questa Corte regolatrice, il potere-dovere del giudice di provvedere d’ufficio agli atti istruttori necessari a superare eventuali incertezze sussiste solo nell’ipotesi in cui le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine e cionondimeno il giudice reputi non sufficienti le prove già acquisite. Tali condizioni non risultano nel caso di specie, posto che il giudice d’appello non si è limitato ad affermare che quanto addotto dalla Biesseci non fosse sufficiente a provare il legittimo esercizio del diritto di recesso, ma ha altresì aggiunto che le prove tempestivamente prodotte ed esaminate, nonchè contestate dalla controparte, non offrivano un quadro probatorio “significativo” a fronte del quale una eventuale residua incertezza fosse superabile con il suo intervento officioso.

Sempre in osservanza del principio di autosufficienza, la ricorrente avrebbe dovuto allegare di avere espressamente e specificamente richiesto l’intervento officioso del giudice, posto che, onde non sovrapporre la volontà del giudicante a quella delle parti in conflitto di interessi e non valicare il limite obbligato della terzietà, sarebbe stata necessaria la specifica sollecitazione dell’esplicazione dei poteri istruttori del giudice con riguardo alla richiesta di una integrazione probatoria qualificata (Cass. 04/07/2018, n. 17505).

8. Nella fattispecie esaminata, si verte nell’ipotesi di recesso legale, invocabile ed esperibile dal conduttore, proprio perchè si tratta di una facoltà di svincolarsi dal contratto che la legge gli riconosce a prescindere dagli accordi assunti con il locatore, allorquando ricorrano determinati presupposti che non gli consentano l’ulteriore prosecuzione della locazione (gravi motivi).

La valutazione circa la ricorrenza di tali gravi motivi è una valutazione di fatto, rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità se non sotto il profilo motivazionale.

Il giudice di merito è chiamato a tener conto di tutte le caratteristiche del caso concreto e, in particolare, delle caratteristiche soggettive del conduttore e della sua specifica organizzazione aziendale, dovendosi precisare che la ratio della norma è quella di verificare la sussistenza anche solo potenziale dei gravi motivi, sulla base dell’argomento che, diversamente, si negherebbe al conduttore/imprenditore, che si trovasse dinanzi una grave ed imprevista crisi economica, la facoltà di esercitare il recesso sino a quando non venga a trovarsi in stato di decozione. Ne risulterebbe frustrato lo scopo della norma che è evidentemente quello di prevenire la crisi del conduttore (cfr. Cass. 27/03/2014 n. 7217 che ha ritenuto irrilevante, al fine di escludere la legittimità del recesso anticipato, il fatto che altri rami dell’azienda del conduttore conseguissero risultati economici favorevoli).

Le ragioni che danno concretezza alla gravità dei motivi devono essere determinate da avvenimenti: a) sopravvenuti rispetto alla costituzione del rapporto locatizio; b) estranei alla volontà del recedente; c) imprevedibili, cioè eccedenti l’ambito della normale alea contrattuale, tali non solo da determinare un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie non altrimenti rimediabile (Cass. 13/06/2017, n. 14623; Cass. 27/03 2014, n. 7217), ma anche da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda globalmente considerata.

Ribadito che i gravi motivi non possono attenere alla soggettiva ed unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine alla opportunità o meno di continuare a godere dell’immobile locato – in tal caso, si ipotizzerebbe la sussistenza di un recesso ad nutum, contrario alla interpretazione letterale oltre che allo spirito della L. n. 392 del 1978, art. 27, u.c.; tale recesso costituisce, infatti, un’eccezione al principio generale posto dall’art. 1372 c.c. da interpretarsi rigorosamente, onde evitare che la scelta di proseguire il rapporto di locazione derivi dalla mera volontà del conduttore – giova aggiungere, con riferimento all’andamento dell’attività aziendale, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, può integrare grave motivo, legittimante il recesso del conduttore, un andamento della congiuntura economica (sia favorevole che sfavorevole all’attività di impresa), sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile (quando fu stipulato il contratto), che lo obblighi ad ampliare o ridurre la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo (Cass. 13/12/2011, n. 26711).

Ciò stando, ad avviso di questa Corte, la motivazione della Corte d’Appello presenta i tratti paradigmatici della motivazione solo apparente, nel senso che gli enunciati motivazionali contenutivi non consentono di cogliere l’indicazione degli elementi da cui il giudice ha tratto il proprio convincimento.

Premesso che l’omissione di qualsiasi motivazione in fatto e in diritto costituisce una violazione di legge di particolare gravità e che le decisioni di carattere giurisdizionale senza motivazione alcuna sono da considerarsi come non esistenti (così Cass. 03/02/2017, n. 2876), nel novero dei vizi motivazionali rientra quello di motivazione meramente apparente, il quale ricorre, allorquando il giudice, violando l’obbligo impostogli dall’art. 111 Cost., comma 6, e dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, omette di esporre le ragioni di fatto e di diritto della decisione, di specificare o di illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, esternando le tappe del proprio convincimento ed il loro collegamento con le prove su cui si è fondato, sì da permettere di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata (Cass., Sez. Un., 24/03/2017, n. 7667; Cass., Sez. Un., 05/08/2016, n. 16599).

Ne consegue che debbono considerarsi affette da nullità non solo quelle decisioni che difettino di motivazione dal punto di vista grafico o quelle che presentino un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che contengano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 del 2014), ma anche quelle che offrano una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perchè dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato”, venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi”, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrare la motivazione con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., Sez. Un., 03/11/2016, n. 22232).

L’impossibilità di individuare l’effettiva ratio decidendi che ha condotto il giudice a quo a ritenere non dimostrato che il calo delle vendite non fosse sopravvenuto, imprevedibile e non imputabile alla società Biesseci rende meramente apparente la motivazione della decisione impugnata, alla stregua della nozione di “motivazione apparente” innanzi delineata.

9. I motivi numero tre e quattro sono assorbiti.

10. La decisione gravata è cassata e la controversia è rimessa alla Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la controversia alla Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della sezione Terza civile della Corte di Cassazione, il 7 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2019

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