Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2364 del 31/01/2018


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Civile Ord. Sez. 3 Num. 2364 Anno 2018
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: PELLECCHIA ANTONELLA

ORDINANZA

sul ricorso 12577-2015 proposto da:
MUNI’ CARMELO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
TINTORETT0,88, presso lo studio dell’avvocato CIRO
GALIANO, rappresentato e difeso dall’avvocato
CRISTIANO PAGANO giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente contro

DI GRIGOLI ANTONINO, elettivamente domiciliato in
2017
2387

GUIDONIA MONTECELIO ROMA, VIALE ROMA 17/B, presso lo
studio dell’avvocato MARCELLA ESPOSITO, rappresentato
e difeso dall’avvocato CARMELO MADONIA giusta procura
in calce al controricorso;
– controricorrente –

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Data pubblicazione: 31/01/2018

avverso la sentenza n. 342/2015 del TRIBUNALE di
AGRIGENTO, depositata il 24/02/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di
consiglio del 04/12/2017 dal Consigliere Dott.

ANTONELLA PELLECCHIA;

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Rilevato che:
1. Con sentenza n. 3/2014, il Giudice di Pace di Cammarata, in
accoglimento della domanda formulata da Carmelo Munì, accertato che
Antonino Di Grigoli, proprietario di un fondo confinante con quello
dell’attore, aveva invaso ed occupato quest’ultimo fondo, apponendovi
una recinzione metallica e incorporando al suo interno alcune piante e

patiti, quantificati in via cquitativa nell’importo di € 3.000,00.
2. La decisione è stata riformata dal Tribunale di Agrigento, con
sentenza n. 342/2015 del 23 febbraio 2015.
Il Tribunale ha rilevato preliminarmente che il Di Grigoli, in relazione
ai medesimi fatti per cui è causa, in sede penale — all’esito di
un’istruttoria in cui aveva trovato piena conferma quanto esposto dal
Munì —, era stato riconosciuto responsabile per i reati di cui agli artt. 81,
632, 633, 635 c.p., per aver invaso occupato il terreno del medesimo
Munì apponendovi una recinzione metallica in modo tale da
rideterminare unilateralmente il confine e incorporando nell’occasione
anche alcune piante del ricorrente.
Il Tribunale di Agrigento ha quindi ritenuto che, essendo preclusa ai
sensi dell’art. 651 c.p.p. la sindacabilità del fatto posto in essere dal Di
Grigoli e della sua illiceità penale, non possano essere rimesse in
discussione le circostanze relative al mutamento unilaterale ed arbitrario
del confine preesistente e dell’occupazione del terreno vicino.
Tuttavia, il giudice dell’appello ha osservato che il Munì, al fine di
ottenere il risarcimento invocato, avrebbe dovuto comunque
dimostrare i danni effettivamente patiti. Infatti, secondo la
giurisprudenza di legittimità, il danno patrimoniale da occupazione
abusiva di un immobile non potrebbe ritenersi in re ipsa e coincidente
con l’evento, dovendo il danneggiato provare di aver subito un’effettiva
lesione del proprio patrimonio, per non aver potuto locare o altrimenti
3

alberi dell’attore, condannò il convenuto a risarcire il Munì dei danni

direttamente utilizzare il bene, ovvero per aver perso l’occasione di
venderlo ad un prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni
pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito.
Nella specie, invece, tale prova non sarebbe stata fornita.
Infatti, la ridotta misura dello sconfinamento e la circostanza che il
tratto di terreno occupato sia incolto c venga di solito utilizzato dai

che da tale occupazione sia disceso un qualche reale nocumento
patrimoniale per il Munì.
Inoltre, dalle prove orali non sarebbe emerso l’abbattimento di piante di
fico d’india addebitato al Di Grigoli, né l’effettiva proprietà degli alberi
di pero, ulivo e mandorlo asseritamente incorporati all’interno del
fondo del convenuto, né l’esistenza di reali danni materiali causati dal
solco tra le due proprietà, peraltro esistente da più di vent’anni e
presumibilmente costruito con il consenso di tutti i proprietari
interessati.
Infine, il Munì non avrebbe nemmeno fornito la prova del danno
morale asseritamente patito in dipendenza della unilaterale alterazione
del confine.
Pertanto, non era invocabile l’art. 1226 c.c. al fine della liquidazione dei
danni, potendo tale norma essere invocata solo in caso di difficoltà
nell’esatta quantificazione di un pregiudizio certo nella sua esistenza.
3. Avverso tale decisione, propone ricorso in Cassazione il signor
Carmelo Munì, sulla base di un unico motivo.
3.1 Resiste con controricorso il signor Antonino Di Grigoli.

Considerato che:
4. Con l’unico motivo, il ricorrente lamenta la “violazione ed errata
applicazione delle norme di diritto art. 651 c.p. e art. 1226 c.c.”, nonché
l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un
punto decisivo della controversia”.
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pastori della zona per il pascolo delle pecore consentirebbe di escludere

Il Tribunale, nel ritenere non raggiunta la prova circa l’incorporazione
da parte del Di Grigoli, all’interno del proprio fondo, di alcuni alberi,
non avrebbe posto nel doveroso rilievo né le dichiarazioni rese dal Di
Grigoli in sede di interrogatorio formale, né le dichiarazioni dei testi né
soprattutto le risultanze processuali del giudizio penale, conclusosi con
sentenza di condanna passata in giudicato.

patrimoniali e non, patiti a seguito della mancata fruizione degli alberi
per dieci anni. Pertanto, il giudice avrebbe dovuto liquidare il danno in
via equitativa
Inoltre, nel giudizio penale — vincolante per il giudice civile quanto
all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e
all’affermazione che l’imputato lo ha commesso — era emerso che il De
Grigolini aveva privato il Munì della materiale disponibilità di alcune
piante, ed aveva occupato una parte del fondo in maniera illecita.
Pertanto, in tale giudizio era già emersa la prova certa della
responsabilità e dei danni causati.
Non avrebbe di conseguenza alcun pregio giuridico l’affermazione da
parte del giudice di primo grado che il ricorrente non ha dato prova di
un danno quantificato nel suo ammontare, sia perché lo stesso
ricorrente si sarebbe prodigato nel darne prova, sia perché nel caso, la
liquidazione sarebbe dovuta avvenire in via equitativa.
Il motivo è inammissibile.
Premesso che secondo la giurisprudenza di questa Corte, il danno da
occupazione illegittima di immobili è in re ipsa e discende dalla perdita
della disponibilità del bene e dall’impossibilità di conseguire l’utilità
ricavabile dal bene medesimo in relazione alla sua natura normalmente
fruttifera, onde la relativa liquidazione può ben essere operata dal
giudice sulla base di presunzioni semplici, con riferimento al cosiddetto
danno figurativo, qual è il valore locativo del bene usurpato (cfr., in
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Nel caso di specie, peraltro, era impossibile provare i danni,

proposito, ex multis, Cass. civ. Sez. 2, n. 20823 del 15/10/2015; Sez. 3,
n. 9137 del 16/04/2013; Sez. 2, Sentenza n. 11992 del 28/05/2014;
Sez. 3, Sentenza n. 10498 del 08/05/2006; Sez. 3, Sentenza n. 3251 del
11/02/2008; Sez. 3, Sentenza n. 3223 del 10/02/2011).
Occorre tuttavia precisare che l’esistenza di un danno

in re ipsa

costituisce oggetto di una presunzione iuris tantum. Ne consegue, in

positivamente accertato che il proprietario si sia intenzionalmente
disinteressato dell’immobile ed abbia omesso di esercitare su di esso
ogni forma di utilizzazione, non potendosi, in tal caso, ragionevolmente
ipotizzare la sussistenza di un concreto pregiudizio derivante dal
mancato godimento del bene per effetto dell’illecito comportamento
altrui.
Nella specie, risulta accertato (perché affermato dalla sentenza
impugnata e non contestato dal ricorrente), che il terreno in questione
era lasciato incolto dal Munì e veniva anzi utilizzato da terzi per il
pascolo delle pecore.
Inoltre, lo stesso ricorrente ammette che la mancata fruizione del
terreno degli alberi era durata per dieci anni (cfr. p. 11 del ricorso).
Pertanto il giudice dell’appello con logica motivazione scevra da
qualsivoglia vizio logico giuridico ha affermato che non è stato provato
alcun danno considerato che l’omissione di ogni forma di uso diretto o
indiretto dei beni in questione, tanto da non accorgersi nemmeno della
loro occupazione e sottrazione, è espressione di un intenzionale
disinteresse da parte del proprietario.
Inoltre con il motivo il ricorrente chiede, a fronte di una congrua
motivazione, una nuova e rivalutazione del merito della controversia
non consentita in questa sede. Oltre che essere per la seconda parte del
motivo fuori dai limiti posti da Cass. S.U. 8053-8054/2014.

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particolare, che la presunzione in parola non può operare allorché risulti

Il motivo comunque sarebbe anche inammissibile per violazione
dell’art. 366 n. 6 c.p.c. perché fa riferimento a documenti, verbali e
prove testimoniali, senza indicare dove sono stati prodotti (Cass. S.U.
n. 7161/2010 ; Cass. S.U. n. 28547/2008).
5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
6. Infine, dal momento che il ricorso risulta notificato successivamente

atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002,
art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla citata L. n. 228 del 2012, art. 1,
comma 17.

P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in
favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che
liquida in Euro 2.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella
misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in curo 200, ed agli
accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito
dall’art. 1, comma 17 della 1. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza
dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis del citato art.
13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza
Civile della Corte Suprema di Cassazione in data 4 dicemb e 2017.
Il Pres
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al termine previsto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 18, deve darsi

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