Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23630 del 11/11/2011

Cassazione civile sez. I, 11/11/2011, (ud. 04/10/2011, dep. 11/11/2011), n.23630

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

N.G., in proprio e nella qualità di legale

rappresentante p.t. della NICOGEST DI NOBILIA GIANFRANCO & C.

S.A.S.,

elettivamente domiciliato in Roma, alla via del Banco di S. Spirito

n. 3, presso l’avv. CLEMENTI GIORGIO, dal quale è rappresentato e

difeso in virtù di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

FALLIMENTO DELLA NICOGEST DI NOBILIA GIANFRANCO & C. S.A.S. E

DI

N.G.;

– intimato –

e

TIESSE 84 S.R.L.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte di cassazione n. 1313/09, pubblicata

il 22 gennaio 2009;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4

ottobre 2011 dal Consigliere dott. Guido Mercolino;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale dott. APICE Umberto.

Fatto

E’ stata depositata in cancelleria la seguente relazione, in applicazione dell’art. 380-bis cod. proc. civ.:

“1. – Con sentenza del 22 gennaio 2009, questa Corte ha rigettato il ricorso per cassazione proposto da N.G., in proprio e nella qualità di legale rappresentante della Nicogest di Gianfranco Nobilia & C. S.a.s., avverso la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Roma il 9 gennaio 2007, che aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione della sentenza dell’8 luglio 2004, con cui il Tribunale di Roma aveva rigettato l’opposizione alla dichiarazione di fallimento dei ricorrenti, pronunciata con sentenza del 12 febbraio 2003.

2. -Avverso la predetta sentenza i ricorrenti propongono impugnazione per revocazione, articolata in due motivi. Gl’intimati non hanno svolto attività difensiva.

3. – La sentenza impugnata per revocazione ha affermato, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., correggendo la motivazione della sentenza di appello, il principio di diritto secondo cui i termini di prescrizione e quelli perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, che a norma della L. 23 febbraio 1999, n. 44, art. 20, comma 3 sono suscettibili di sospensione per trecento giorni, sono soltanto quelli che sono scaduti o che scadono entro un anno dalla data dell’evento lesivo, e conformemente a tale principio ha ritenuto che nella specie fosse stata correttamente esclusa l’applicabilità della predetta disposizione, con la conseguente dichiarazione d’inammissibilità dell’appello.

3.1. -Avverso la predetta sentenza i ricorrenti precisano di aver già proposto impugnazione per revocazione, ai sensi dell’art. 391- bis c.p.c. e dell’art. 395 c.p.c., n. 4, dichiarata inammissibile con ordinanza del 5 luglio 2010, n, 15826, avendo questa Corte ritenuto che i ricorrenti non avessero denunciato alcun errore di fatto, ma si fossero limitati a proporre una diversa lettura della norma di cui alla L. n. 44 del 1999, art. 20 quanto all’individuazione dell’evento lesivo, rispetto a quella accolta dalla sentenza revocanda, in tal modo prospettando, al più, un errore di diritto.

La sentenza impugnata aveva infatti identificato l’evento lesivo (e, quindi, il dies a quo dei termini di cui all’art. 20 cit.) in quello verificatosi per effetto della perpetrazione dei reati contemplati dalla L. n. 44 del 1999, o quanto meno nella dichiarazione di fallimento conseguente alla commissione di quei reati, senza distinguere a seconda che esso fosse emerso o meno a seguito di denuncia o indagini preliminari, laddove i ricorrenti avevano dedotto che l’evento lesivo doveva essere individuato nella conoscenza che la vittima aveva avuto del danno subito, coincidente con la comunicazione dell’avviso di garanzia.

4. – A fondamento della nuova impugnazione, i ricorrenti denunciano l’errore di fatto su un punto decisivo della controversia, sottolineandone la diversità rispetto a quello posto a fondamento del precedente ricorso.

Sostengono infatti che la sentenza impugnata ha fatto coincidere l’evento lesivo con la data della dichiarazione di fallimento o con fatti avvenuti anteriormente alla stessa, senza considerare che nella specie si verteva in un’ipotesi di emersione giudiziale dei fatti che attribuivano loro la facoltà di chiedere i benefici previsti dalla norma invocata, ed obliterando quindi del tutto la successiva data in cui, all’esito della chiusura delle indagini preliminari, essi hanno avuto contezza della sussistenza degli elementi costitutivi di tali reati.

5. – Il ricorso è inammissibile.

Questa Corte ha infatti affermato che alla revocazione ordinaria delle proprie sentenze si applica il principio di consumazione dell’impugnazione, desumibile dall’art. 387 cod. proc. civ. (cfr.

Cass., Sez. 1^, 15 marzo 1995, n. 2986; Cass., Sez. 2^, 5 giugno 1993, n. 6322), il quale esclude da un lato la facoltà di riproporre il ricorso per cassazione dichiarato inammissibile o improcedibile, anche se non sia scaduto il termine previsto dalla legge, dall’altro la possibilità, per la parte che abbia ritualmente proposto l’impugnazione, di notificare successivamente un altro ricorso, alfine di dedurre nuovi motivi di censura, rispetto a quelli proposti in precedenza (cfr. Cass., Sez. Un., 10 marzo 2005, n. 5207; Cass, Sez, lav., 26 settembre 2005, n. 18756).

La diversità dei motivi può assumere rilievo, ai fini dell’ammissibilità della nuova impugnazione, soltanto in riferimento alle ipotesi di revocazione straordinaria, previste dai nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 cod. proc. civ. (richiamati, per i provvedimenti con cui questa Corte abbia deciso la causa nel merito, dall’art. 391-ter cod. proc. civ.), le quali, non trovando fondamento in vizi riscontrabili direttamente attraverso l’esame della sentenza impugnata, ma in circostanze esteriori suscettibili di emergere anche a distanza di tempo dalla sua pronuncia, possono essere fatte valere indipendentemente dall’avvenuta proposizione di un precedente ricorso, fondato su un distinto motivo di revocazione (cfr. Cass., Sez. 2^, 5 giugno 1993, n. 6322, cit.).

Tale non è il caso dell’impugnazione proposta dai ricorrenti, la quale, in quanto avente ad oggetto una sentenza che non ha deciso nel merito, e volta a far valere un errore di fatto risultante dalla stessa, è riconducibile all’art. 395 c.p.c., n. 4 con la conseguente impossibilità di dedurre censure ulteriori, rispetto a quelle fatte valere con il precedente ricorso.

E’ irrilevante, in proposito, la circostanza che il nuovo ricorso sia stato notificato anteriormente alla dichiarazione d’inammissibilità di quello precedente e nel rispetto dei termini di legge, non trovando applicazione, nella specie, il principio secondo cui la consumazione del potere d’impugnazione non si verifica fino a che l’inammissibilità o l’improcedibilità non sia stata dichiarata:

tale principio si riferisce infatti all’ipotesi in cui la prima impugnazione risulti viziata e la seconda sia stata proposta in sua sostituzione, alfine di porre rimedio al vizio, e non è pertanto applicabile nel caso in cui il primo ricorso sia stato ritualmente proposto (cfr, Cass., Sez. lav., 26 settembre 2005, n. 18756, cit.).

6. – La dichiarazione d’inammissibilità del primo motivo preclude l’esame del secondo, attinente alla fase rescissoria dell’impugnazione, con cui i ricorrenti, sul presupposto dell’ammissibilità dell’appello proposto avverso la sentenza di rigetto dell’opposizione alla dichiarazione di fallimento, chiedono a questa Corte di pronunciare nel merito dell’opposizione, affermando l’insussistenza dello stato d’insolvenza”.

Diritto

Il collegio, esaminato il ricorso, la relazione e gli scritti difensivi in atti, ha condiviso gli argomenti svolti nella relazione e la soluzione da essa proposta, con le seguenti precisazioni.

1. – Nella memoria depositata ai sensi dell’art. 30-bis c.p.c., comma 2, il ricorrente sostiene che il principio di consumazione non ha portata generale, applicandosi ai soli mezzi d’impugnazione cui si riferiscono gli artt. 358 e 387 cod. proc. Civ., e solo in presenza di determinate condizioni; nega pertanto l’operatività di tale principio in tema di revocazione, affermando che la particolare natura della stessa giustifica un trattamento diverso da quello destinato alle impugnazioni ordinarie, ed opponendo in subordine l’illegittimità costituzionale dell’art. 387 cod. proc. civ., per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.

1.1. – In realtà, il principio di consumazione costituisce espressione della medesima esigenza di certezza delle situazioni giuridiche che sta a fondamento della cosa giudicata, e trova pertanto applicazione a tutti i mezzi ordinari d’impugnazione, indipendentemente dall’esistenza di una specifica disposizione che lo preveda. Esso è quindi riferibile anche alla revocazione ordinaria, non ostandovi il carattere eccezionale di tale mezzo d’impugnazione, dovuto al fatto che i motivi che possono farsi valere con lo stesso non consistono in veri e propri vizi della sentenza impugnata, ma in elementi esterni al processo, che presuppongono un giudizio validamente concluso. La particolare natura dei motivi che legittimano l’impugnazione in esame non ne esclude infatti, nei casi previsti dall’art. 395 cod. proc. civ., nn. 4 E 5l’assoggettamento ad un termine avente la medesima decorrenza di quelli previsti per le impugnazioni ordinarie, trattandosi di circostanze che possono essere rilevate immediatamente dalla lettura della sentenza, allo stesso modo dei vizi deducibili con le altre impugnazioni. Non può quindi ritenersi consentito alla parte che abbia impugnato la sentenza per uno di tali motivi di proporre una nuova impugnazione, avente il fine non già di porre rimedio ad un vizio di quella precedente, ma di dedurre nuovi motivi di censura, in tal modo sot-traendosi all’osservanza del termine a tal fine previsto.

In quanto giustificata dalle medesime ragioni che ne legittimano l’applicazione agli altri mezzi ordinari d’impugnazione, la riferibilità del principio di consumazione alla revocazione ordinaria si sottrae alle censure d’incostituzionalità sollevate dal ricorrente, il quale, oltre a lamentare l’assoggettamento di fattispecie radicalmente diverse ad un identico trattamento, denuncia la violazione del principio generale di giustizia e di una non meglio precisata riserva di legge in materia di riparazione degli errori giudiziari. La previsione di condizioni e termini per l’impugnazione delle sentenze non contrasta peraltro con il diritto di difesa, la cui garanzia costituzionale, com’è noto, si attua nelle forme e nei limiti stabiliti dall’ordinamento processuale, ferma restando l’esigenza di effettività della tutela di tale diritto, che non può ritenersi pregiudicata nella specie dall’impossibilità di proporre motivi aggiunti, avuto riguardo all’ampiezza del termine concesso alla parte ai fini dell’impugnazione della sentenza per revocazione.

2. – E’ inconferente, invece, l’ulteriore affermazione del ricorrente, secondo cui la L. 23 febbraio 1999, n. 44, art. 20, comma 3 nel prevedere la sospensione dei termini di prescrizione e di quelli perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali comportanti decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, si riferisce anche alla decadenza prevista dall’art. 387 cod. proc. civ., in tal modo escludendo l’operatività del principio di consumazione dell’impugnazione.

In applicazione del principio secondo cui la sospensione prevista dall’art. 20, comma 3, cit. si applica soltanto ai termini che siano scaduti o che scadano entro l’anno dalla data dell’evento lesivo, la sentenza impugnata per revocazione ha ritenuto che la predetta disposizione non potesse trovare applicazione al gravame avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma con cui era stata rigettata l’opposizione del ricorrente alla dichiarazione di fallimento pronunciata dal Tribunale di Roma, in quanto la sentenza di rigetto dell’opposizione era stata pronunciata l’8 luglio 2004, vale a dire oltre un anno dopo la sentenza dichiarativa di fallimento, depositata il 12 febbraio 2003 e fondata su una condizione di illiquidità risalente ad epoca ancora anteriore.

La circostanza che il termine per l’appello non solo non fosse scaduto, ma a-vesse anzi cominciato a decorrere quando era ormai trascorso più di un anno dalla data dell’evento lesivo, individuata al più tardi in quella di deposito della sentenza dichiarativa di fallimento, consente di escludere, a maggior ragione, l’applicabilità della sospensione al termine per proporre l’impugnazione per revocazione, avente ad oggetto la sentenza con cui questa Corte, in epoca ancora successiva, ha rigettato il gravame avverso la sentenza della Corte d’Appello.

E’ pertanto irrilevante anche la circostanza, riferita nella memoria, che con sentenza del 26 agosto 2011, n. 4819/11 il Consiglio di Stato abbia riconosciuto il diritto del ricorrente a percepire l’elargizione provvisionale prevista dalla L. n. 44 del 1999, art. 3 avendo ritenuto che nelle vicende che hanno interessato il N. fossero ravvisabili elementi idonei ad identificare con adeguato grado di certezza un vulnus derivante da intimidazione a fini estorsivi, peraltro posti in essere sin dal 1997 (e quindi in epoca ben anteriore a quella cui questa Corte ha fatto risalire l’evento lesivo).

3. – Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo al mancato svolgimento di attività difensiva da parte degl’intimati.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 4 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2011

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