Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23625 del 24/09/2019

Cassazione civile sez. III, 24/09/2019, (ud. 12/03/2019, dep. 24/09/2019), n.23625

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2508-2018 proposto da:

VITTORIA ASSICURAZIONI SPA, in persona del legale, presso lo studio

dell’avvocato MASSIMILIANO VANNICOLA, rappresentata e difesa

dall’avvocato EBE NANNEI;

– ricorrente –

contro

ATTREZZATURE TURISTICHE INTERNAZIONALI SRL, in persona

dell’Amministratore Unico B.S., domiciliata ex lege in

ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata

e difesa dall’avvocato ANTONINO MARIA CREMONA;

– controricorrente-

avverso la sentenza n. 1226/2017 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 26/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/03/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La società Vittoria Assicurazioni S.p.a. (d’ora in poi, “Vittoria”) ricorre, sulla base di otto motivi, per la cassazione della sentenza n. 1226/17, del 26 giugno 2017, della Corte di Appello di Palermo, che rigettando il gravame da essa esperito avverso la sentenza n. 1007/10, del 31 luglio 2010, del Tribunale di Agrigento – ha confermato la reiezione dell’opposizione, ex art. 645 c.p.c., proposta dall’odierna ricorrente avverso il decreto emesso dallo stesso Tribunale agrigentino, che le aveva ingiunto il pagamento di Euro 231.114,61 in favore della società Attrezzature Turistiche Internazionali S.r.l. (d’ora in poi, “ATI”), nella sua qualità di fideiussore per un debito della società Grand Hotel dei Templi S.r.l. (d’ora in poi, “Grand Hotel”).

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente che – in data 1 marzo 1999 – interveniva, tra le società ATI e Grand Hotel, contratto di affitto di azienda alberghiera in forza del quale, a garanzia dell’obbligazione di pagamento dei canoni di locazione posta a carico della seconda, era prevista (dall’art. 5 del contratto) la prestazione di fideiussione da parte della società Vittoria.

Essendosi, tuttavia, ATI resa inadempiente rispetto all’obbligazione contrattuale di eseguire opere di ristrutturazione e adeguamento dell’immobile sede dell’azienda alberghiera, Grand Hotel radicava un giudizio finalizzato alla risoluzione del contratto di affitto, nonchè alla restituzione dei canoni di locazione di novembre e dicembre 2005 (e dell’IVA corrisposta per tutti quelli versati fino a quel momento), oltre che al risarcimento dei danni, sia per i lavori eseguiti dalla conduttrice, che per l’anticipato scioglimento del rapporto. Detto giudizio si concludeva – quanto alle sue fasi merito con l’accoglimento di ciascuna di tali domande, all’esito del primo grado, e, invece, dopo la proposizione dell’appello da parte della soccombente, con la condanna di ATI esclusivamente al pagamento del (minore) importo di Euro 123.215,90, per i lavori eseguiti da Grand Hotel, oltre alla conferma della condanna della prima al versamento della somma Euro 1.050.000,00, più interessi, per anticipato scioglimento del contratto; sentenza, questa, oggetto di ricorso per cassazione da parte di ATI.

Nelle more di tali giudizi, tuttavia, ATI conseguiva il già menzionato decreto ingiuntivo per escutere la polizza fideiussoria dalla società Vittoria, la quale proponeva opposizione ex art. 645 c.p.c., chiedendo – senza, però, esservi autorizzata – di chiamare in causa Grand Hotel.

Rigettata l’opposizione dal primo giudice, la società Vittoria esperiva gravame innanzi alla Corte panormita. Peraltro, in occasione dello scambio delle comparse conclusionali (avendo ATI riferito della verificazione di non meglio precisati “fatti nuovi”), l’odierna ricorrente apprendeva che questa Corte – con sentenza n. 13198 del 26 luglio 2012 – aveva rigettato il ricorso proposto dalla medesima ATI avverso la sentenza recante la declaratoria di risoluzione, per suo inadempimento, del contratto di affitto di azienda intercorso con Grand Hotel. Su tali basi, pertanto, Vittoria – sul presupposto della decisività/indispensabilità dell’acquisizione di tale documento chiedeva rimettersi la causa in istruttoria.

Il secondo giudice, dopo aver provveduto in tal senso, ed assegnato nuovi termini alle parti per lo scambio di memorie conclusionali e note di replica, decideva – inopinatamente, a dire dell’odierna ricorrente – per la reiezione del proposto gravame.

3. Avverso la decisione della Corte di Appello palermitana ha proposto ricorso per cassazione la società Vittoria sulla base, come detto, di otto motivi.

3.1. In particolare, il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – nullità della sentenza per violazione dell’art. 102 c.p.c.

La sentenza è impugnata nella parte in cui ha ritenuto incensurabile la decisione del primo giudice di non autorizzare la chiamata in causa di Grand Hotel “in manleva e/o regresso”, trattandosi “di intervento ad istanza di parte, non attinente alla necessaria integrazione del contraddittorio”.

Si reputa, per contro, che nel caso di specie sussiste un’ipotesi di litisconsorzio processuale, da ravvisare allorchè le cause proposte nei confronti di più condebitori siano in rapporto di dipendenza, allorchè la responsabilità dell’uno presupponga quella dell’altro (è citata Cass. Sez. 3, sent. 6 luglio 2001, n. 9210), nonchè, più in generale, quando una controversia costituisca il presupposto logico imprescindibile di un’altra.

3.2. Il secondo motivo – proposto nuovamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in ragione di omessa pronuncia.

Si censura la sentenza della Corte territoriale perchè avrebbe omesso di pronunciarsi sul capo dell’atto di appello che eccepiva la non rilevabilità d’ufficio, da parte del primo giudice, della sussistenza, nel contratto di fideiussione, di una clausola “solve et repete”.

3.3. Il terzo motivo si connette strettamente al precedente, in quanto deduce – anch’esso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – nullità, del pari, della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in ragione della non rilevabilità d’ufficio della suddetta clausola “solve et repete”.

Si censura la sentenza impugnata poichè sarebbe incorsa nel vizio di ultrapetizione, laddove ha ritenuto corretta la decisione del primo giudice, secondo cui le parti del contratto di fideiussione, “oltre ad aver previsto la rinuncia al beneficio della preventiva escussione ex art. 1944 c.c.”, avrebbero pattuito la clausola “solve et repete”. In questo modo, anche la Corte palermitana avrebbe contravvenuto al principio secondo cui costituisce una vera e propria eccezione, non rilevabile d’ufficio, e non una semplice difesa, la contestazione della pretesa di pagamento della controparte basata su una clausola siffatta (è citata Cass. Sez. 3, sent. 24 maggio 1993, n. 5819).

3.4. Il quarto motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. “sulla natura e il contenuto della garanzia”.

Si censura la sentenza impugnata laddove essa, nell’interpretare l’art. 5 del contratto come clausola “solve et repete”, avrebbe contravvenuto all’art. 1362 e, soprattutto, art. 1363 c.c., norma che impone il coordinamento delle varie clausole contrattuali persino quando il loro significato non sia equivoco. In particolare, la Corte territoriale non avrebbe posto detta clausola in correlazione con quella dell’art. 6, che prevede una clausola di compensazione (“La società avrà diritto di dedurre, dal risarcimento dovuto all’assicurato, l’importo di ogni eventuale credito del contraente verso l’assicurato stesso e degli eventuali recuperi effettuati da quest’ultimo prima del pagamento del risarcimento da parte della società”). Il coordinamento delle due clausole avrebbe imposto la mancata qualificazione di quella di cui all’art. 5 come clausola “solve et repete”, giacchè non avrebbe senso prevedere la possibilità di eccepire controcrediti e, al tempo stesso, ritenere che nel contratto vi sia un obbligo di pagamento immediato. Ad avviso della ricorrente, dunque, la clausola in esame dovrebbe intendersi come deroga alle modalità di escussione della garanzia previste dall’art. 1957 c.c., comma 1, nel senso che il beneficiario, per evitare l’estinzione della garanzia, lungi dal dover inviare un’istanza giudiziale (per tale intendendosi, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la “istanza” di cui all’art. 1957 c.c.) dopo la scadenza dell’obbligazione, si sarebbe potuto limitare ad inviare una richiesta scritta.

3.5. Il quinto motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione dell’art. 1458 c.c. in ordine agli effetti “ex tunc” della risoluzione, nel caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica.

Si censura la sentenza impugnata laddove essa ha affermato che la disposta risoluzione del contratto di affitto d’azienda, trattandosi di contratto a prestazioni periodiche, opera “ex nunc”, non incidendo, quindi, sulla maturazione dei canoni precedenti alla risoluzione stessa, che rimarrebbero dovuti in capo a Grand Hotel.

Si tratta, ad avviso della ricorrente, di affermazione “all’evidenza gravemente viziata”, visto che in base a costante giurisprudenza la pronuncia di risoluzione per inadempimento di un contratto ad esecuzione continuata, sebbene di carattere costitutivo, ha efficacia retroattiva dal momento dell’inadempimento, non estendendo i propri effetti solamente nei confronti delle “prestazioni già eseguite”, tali dovendosi intendere soltanto quelle con cui il debitore, nella specie ATI, abbia pienamente soddisfatto le ragioni del creditore, ovvero, nel presente caso, Grand Hotel.

Orbene, poichè l’obbligazione fideiussoria è accessoria rispetto a quella principale, l’estinzione di quest’ultima – secondo la ricorrente determina anche l’estinzione della prima, e ciò sin dal momento in cui si è verificato, nella specie, l’inadempimento di ATI, ovvero, come accertato dalla sentenza della Corte d’Appello di Palermo ormai passata in giudicato, dal novembre del 1999.

3.6. Il sesto motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione dell’art. 295 c.p.c., in ordine all’obbligo del giudice di primo grado di sospendere il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

In questo caso, la censura si indirizza verso quella statuizione della sentenza impugnata che ha escluso la sussistenza, da parte del primo giudice, della necessità di sospendere il presente giudizio, in attesa della definizione di quello relativo alla risoluzione per inadempimento del contratto di affitto di azienda.

Si rammenta, al riguardo, come la sospensione necessaria operi tutte le volte in cui tra due giudizi sussista un rapporto di pregiudizialità-dipendenza, ovvero quando una situazione sostanziale rappresenti fatto costitutivo, o comunque elemento della fattispecie, di un’altra situazione sostanziale, ciò anche a prescindere – come sottolineato da autorevole dottrina – dalla identità soggettiva dei due giudizi.

3.7. Il settimo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 1243 e 1372 c.c., in ordine alla compensabilità e/o deducibilità del credito vantato da ATI nei confronti di Grand Hotel con quello vantato da quest’ultima nei confronti della prima.

La sentenza della Corte palermitana è censurata, in questo caso, laddove ha confermato la decisione del primo giudice che ha escluso la possibilità di una compensazione fra le somme pagate da Vittoria a titolo di polizza e quelle che sarebbero, eventualmente, risultate a carico di ATI all’esito del giudizio di risoluzione per inadempimento del contratto di affitto di azienda. Siffatto diniego, in particolare, è stato motivato in base alla considerazione che la sentenza della Corte di Appello Palermo (poi confermata da questa Corte), che ha dichiarato risolto, per inadempimento di ATI, il suddetto contratto, subordinava la sua efficacia esecutiva alla prestazione di una cauzione da parte di Grand Hotel, cauzione, in realtà, mai fornita.

Rileva, per contro, la ricorrente come il già citato art. 6 del contratto di fideiussione prevedesse la possibilità di compensazione senza stabilire ulteriori condizioni, come, per l’appunto, l’esigibilità del credito spettante a Grand Hotel.

3.8. Infine, l’ottavo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione dell’art. 1957 c.c., in ordine alla legittimità dell’escussione operata da ATI nei confronti di Vittoria.

In questo caso, si censura la sentenza impugnata per aver rigettato l’eccezione di estinzione della fideiussione formulata ai sensi della norma sopra richiamata, quantunque agli atti del presente giudizio risultasse accertato che la morosità di Grand Hotel, nei confronti di ATI, ha avuto origine nel gennaio 2004, mentre la prima diffida ad adempiere sarebbe successiva di oltre 6 mesi, risalendo al mese di aprile del 2006.

Di qui, pertanto, l’estinzione – secondo la ricorrente – della garanzia fideiussoria, ai sensi dell’art. 1957 c.c. derogato dalle parti (assume Vittoria) solo in ordine alla necessità di agire in via giudiziale.

4. La società ATI ha resistito, con controricorso, alla descritta impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità – in relazione al difetto di autosufficienza e, comunque, di specificità dei singoli motivi – o, in subordine, il rigetto.

5. Entrambe le parti hanno presentato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.

7. In via preliminare, appare utile rammentare che la sentenza impugnata così descrive i motivi di appello (allora) proposti dall’odierna ricorrente: “errata qualificazione ad opera del giudice di prime cure della polizza fideiussoria a prima richiesta, in luogo di “fideiussione semplice”; inapplicabilità della clausola “solve et repete”; omessa sospensione necessaria del giudizio di primo grado fino all’esito del giudizio di cassazione (sulla controversia relativa alla risoluzione per inadempimento del contratto di affitto di azienda intercorso tra ATI e Grand Hotel, n. d.r.); omessa integrazione del contraddittorio nei confronti di Grand Hotel dei Templi s.r.l.; nonchè mancato accoglimento dell’eccezione di estinzione della garanzia ex art. 1957 c.c.”.

Tale era, dunque, il “thema decidendum” devoluto alla Corte palermitana, ciò di cui appare necessario tener conto, nel valutare entro quali limiti il presente giudizio, a critica vincolata, potrà ritualmente svolgersi.

7.1. Ciò premesso, il primo motivo di ricorso non è fondato.

7.1.1. Nella specie, non ricorre alcuna violazione dell’art. 102 c.p.c., alla stregua del principio – richiamato, correttamente, dalla controricorrente nel proprio atto defensionale – secondo cui la “relazione di accessorietà dell’obbligazione fideiussoria rispetto a quella principale non esclude la reciproca autonomia delle due obbligazioni e si traduce sul piano processuale nella non configurabilità del litisconsorzio necessario tra creditore, debitore principale e fideiussore, a meno che il giudice non ordini l’intervento in causa del fideiussore ai sensi dell’art. 107 c.p.c., nel qual caso si realizza una situazione di litisconsorzio necessario di tipo processuale, che produce i medesimi effetti di quello sostanziale” (Cass. Sez. 3, sent. 17 luglio 2002, n. 10400, Rv. 555868-01). Del resto, è stato anche specificato che “nella solidarietà fideiussoria l’interesse passivo non è collettivo, come nell’ordinaria solidarietà, ma è individuale di ciascuno dei coobbligati ed eterogeneo, sicchè appare di maggiore evidenza l’autonomia della posizione del fideiussore rispetto al rapporto fra creditore e debitore principale e, dunque, l’autonomia delle azioni esperibili contro i coobbligati”, con la conseguenza che se “il creditore può utilmente ed efficacemente agire contro uno solo dei coobbligati per sentirlo condannare alla prestazione dovuta, a norma dell’art. 1306 c.c., non ricorre alcuna delle ipotesi di litisconsorzio necessario” (Cass. Sez. 1, sent. 17 novembre 2016, n. 23422, Rv. 642655-02).

7.2. I motivi secondo, terzo e quarto – suscettibili di trattazione unitaria, data la loro connessione, investendo da diversi angoli visuali la qualificazione che la Corte territoriale ha fatto, del contratto di fideiussione intercorso tra ATI e Vittoria, come recante una clausola “solve et repete” – sono, invece, inammissibili.

7.2.1. In particolare, quanto al secondo motivo (che denuncia omessa pronuncia su un motivo di appello), non risulta rispettata la previsione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e ciò alla stregua del principio secondo cui è da ritenere “inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte” (Cass. Sez. 2, sent. 20 agosto 2015, n. 17049, Rv. 636133-01).

Nè, d’altra parte, tale esito appare precluso dalla circostanza che quello denunciato è un “error in procedendo” (rispetto ai quali la Corte è anche giudice del “fatto processuale”, con possibilità di accesso diretto agli atti del giudizio; da ultimo, Cass. Sez. 6-5, ord. 12 marzo 2018, n. 5971, Rv. 647366-01; ma nello stesso senso già Cass. Sez. Un., sent. 22 maggio 2012, n. 8077, Rv. 622361-01). Se è vero, infatti, che – qualora il ricorso per cassazione denunci una nullità del procedimento o della sentenza – il giudice di legittimità “è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda”, resta, nondimeno, inteso che l’ammissibilità del sindacato demandato a questa Corte è comunque subordinata alla condizione che “la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4” (Cass. Sez. Un., sent. n. 8077 del 2012, cit.), sicchè, anche la “deduzione con il ricorso per cassazione di “errores in procedendo”, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, non esclude che preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6014, Rv. 648411-01).

Si tratta, peraltro, di un’esigenza – come è stato icasticamente osservato – che “non è giustificata da finalità sanzionatorie nei confronti della parte che costringa il giudice a tale ulteriore attività d’esame degli atti processuali, oltre quella devolutagli dalla legge”, ma che “risulta, piuttosto, ispirata al principio secondo cui la responsabilità della redazione dell’atto introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente ed il difetto di ottemperanza alla stessa non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nell’individuazione di quali atti o parti di essi siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 82, Rv. 621100-01).

7.2.2. Quanto, invece, al terzo e quarto motivo, l’inammissibilità, anche in questo caso ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), discende dal seguente rilievo.

Invero, a fronte della già ricordata ricostruzione – contenuta nella sentenza impugnata – del motivo di gravame relativo alla clausola “solve et repete” come concernente, “sic et simpliciter”, la “inapplicabilità” della stessa al contratto di fideiussione oggetto di causa, e dunque in difetto di una migliore specificazione (nell’odierno ricorso) della portata della censura allora formulata, trova applicazione il principio secondo cui, qualora “una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 24 gennaio 2019, n. 2038, Rv. 652251-02; Cass. Sez. 6-1, ord. 13 giugno 2018, n. 15430, Rv. 649332-01; Cass. Sez. 1, sent. 18 ottobre 2013, n. 23675, Rv. 627975-01).

Tale è la situazione verificatasi nel caso di specie, giacchè la ricorrente propone due “questioni giuridiche” – l’una, relativa all’impossibilità del rilievo officioso della clausola “solve et repete”, l’altra concernente la mancata interpretazione sistematica di tale clausola, in correlazione ad altra che consentirebbe al fideiussore di opporre in compensazione, al creditore beneficiario, i crediti verso di esso spettanti al debitore – delle quali non ha minimamente allegato la già “avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito”, nei termini, peraltro assai rigorosi, richiesti dall’indirizzo giurisprudenziale sopra richiamato.

7.3. Anche il quinto motivo – per analoghe ragioni – è inammissibile.

7.3.1. Difatti, la ricorrente, neppure in questo caso, ha allegato quale sia stata la sede di deduzione della questione relativa all’efficacia retroattiva – dal momento dell’inadempimento – della pronuncia che risolva anche un contratto ad esecuzione continuata o periodica, con il solo limite delle “prestazioni già eseguite”, e non di quelle non ancora eseguite.

Omissione, per vero, che risulta tanto più rilevante, ove si consideri che di tale questione non vi è alcuna traccia nella ricostruzione dei motivi di appello, contenuta nella sentenza qui impugnata, ed inoltre che la stessa – a conferma, in definitiva, della mancanza di un suo autonomo rilievo – risulta affrontata dalla Corte territoriale come “argomento” per rigettare la censura relativa alla violazione dell’art. 295 c.p.c., per mancata sospensione del giudizio sulla polizza fideiussoria, in attesa della definizione di quello risolutorio del contratto di affitto di azienda intercorso tra ATI e Grand Hotel (questione oggetto del sesto motivo di ricorso).

7.4. Il sesto motivo non è fondato.

7.4.1. Ancora di recente questa Corte ha affermato, in relazione ai giudizi che investano, separatamente, l’obbligazione del fideiussore e quella del debitore principale, che la “particolare autonomia delle due obbligazioni, pur collegate tra loro dalla comune finalità di un medesimo adempimento, nell’escludere ogni rapporto di pregiudizialità dell’una all’altra, non autorizza neppure il ricorso alla sospensione necessaria del processo, configurabile, per il preciso disposto di cui all’art. 295 c.p.c., nei casi di pendenza di altro procedimento, avente ad oggetto una questione, che dev’essere preventivamente decisa con efficacia di giudicato” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 20 febbraio 2014, n. 4038, Rv. 630325-01, tra l’altro concernente il caso in cui il giudizio, asseritamente pregiudiziale rispetto a quello in cui si era chiesto il pagamento della polizza fideiussoria, aveva ad oggetto la risoluzione per inadempimento del contratto fonte dell’obbligazione garantita).

Si tratta, peraltro, di principio consolidato (in tal senso anche Cass. Sez. 6-3, ord. 9 dicembre 2011, n. 26470, non massimata sul punto), fondata, come detto, sull’assunto che “l’obbligazione di garanzia, pur essendo sussidiaria rispetto all’obbligazione garantita, in quanto diretta ad assicurare l’adempimento di una prestazione risultante da un rapporto a cui il fideiussore e rimasto estraneo, ha, tuttavia, una propria individualità giuridica, cioè un oggetto e un titolo del tutto distinti dalla obbligazione principale”, visto che “la fideiussione semplice può essere fatta valere appena il debitore si sia reso inadempiente, non essendo all’uopo necessario che egli venga inutilmente escusso in tutto o in parte, onde l’esercizio della relativa azione non è per nulla condizionato all’esperimento di un separato giudizio diretto a conseguire la prestazione principale” (Cass. Sez. 3, sent. 9 settembre 1963, n. 2454, Rv. 263776-01).

7.5. Anche il settimo motivo è inammissibile, per le stesse ragioni – violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) – illustrate con riferimento ai motivi terzo, quarto e quinto.

7.5.1. Difatti, neppure della questione oggetto del presente motivo (relativa alla possibilità di opporre in compensazione ad ATI i crediti “restitutori” spettanti a Grand Hotel, in ragione dell’avvenuta risoluzione del contratto intercorso tra di essi) vi è traccia nella ricostruzione dei motivi di appello contenuta nella sentenza oggi impugnata, presentandosi, inoltre, quanto affermato, al riguardo, dalla Corte territoriale come un (ulteriore) argomento per escludere la censura di violazione dell’art. 295 c.p.c., per mancata sospensione del giudizio sulla fideiussione, in attesa della definizione di quello concernente il rapporto principale.

Sicchè, per il motivo qui in esame (come anche per il quinto, cui esso si correla), si deve rilevare che a corroborare l’esito della declaratoria di inammissibilità, anche per un sostanziale “assorbimento” (cfr. Cass. Sez. Lav., sent. 10 febbraio 2017, n. 3633, Rv. 643086-01), si pone il rigetto del sesto motivo, con conferma della “ratio decidendi” – ovvero, l’assenza del rapporto di pregiudizialità/dipendenza – utilizzata dalla Corte palermitana per escludere la sussistenza di un’ipotesi di sospensione necessaria, e dunque la violazione dell’art. 295 c.p.c.

7.6. Infine, anche l’ottavo motivo è inammissibile, ma per una diversa ragione.

7.6.1. Al riguardo, va notato, innanzitutto, che la questione da esso posta (violazione dell’art. 1957 c.c.) presuppone l’accoglimento di quella differente interpretazione della clausola – che il giudice di appello ha, invece, qualificato come “solve et repete” proposta da Vittoria attraverso il quarto motivo di ricorso, con il quale, come visto, si assume che detta clausola integri, invece, una mera deroga alle modalità di proposizione dell’eccezione ex art. 1957 c.c.

Si deve, pertanto, ritenere che, essendo rimasta preclusa – in ragione della declaratoria di inammissibilità del quarto motivo – la possibilità di vagliare tale differente interpretazione, ciò solo rende inammissibile anche il motivo di ricorso qui in esame.

Il tutto non senza rilevare, peraltro, che quello denunciato non può considerarsi – come invece prospettato – un “error iuris” nell’applicazione dell’art. 1957 c.c., visto che “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto si lamenta nel caso di specie, dal momento che ci si duole del fatto che la Corte aquilana non ha considerato che la morosità di Grand Hotel risalirebbe al 2004, donde la tardività della diffida – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonchè Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).

8. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

9. A carico della ricorrente sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condannando la società Vittoria Assicurazioni S.p.a. a rifondere alla società Attrezzature Turistiche Internazionali S.r.l. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 9.200,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 12 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2019

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