Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23622 del 24/09/2019

Cassazione civile sez. III, 24/09/2019, (ud. 28/02/2019, dep. 24/09/2019), n.23622

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29033-2016 proposto da:

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, P.ZA ADRIANA

15, presso lo studio dell’avvocato WALTER DE AGOSTINO, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (OMISSIS);

– intimato –

sul ricorso 29296-2016 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

M.G.;

– intimato –

avverso il decreto n. 5937/2016 del TRIBUNALE di ROMA, depositato in

data 11/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/02/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE TOMMASO che ha concluso per l’accoglimento del ricorso del

M. e del Ministero;

udito l’Avvocato DE AGOSTINO WALTER.

Fatto

FATTI DI CAUSA

M.G. ha proposto ricorso per cassazione, basato su due motivi e illustrato da memoria, avverso il decreto n. 5937/16, depositato in data 11 maggio 2016, con il quale, pronunciando sul ricorso proposto dal M. L. n. 354 del 1975, ex art. 3-ter, comma 3, depositato il 24 dicembre 2014 e volto ad ottenere la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento del danno per aver subito detenzione inumana e degradante nel tempo in cui era stato detenuto in periodi compresi tra il (OMISSIS) (e non (OMISSIS), come indicato, per evidente lapsus calami, nel ricorso per cassazione, v. ricorso introduttivo dinanzi al Tribunale e decreto impugnato) e il 28 agosto 2014 presso vari istituti di pena (Rebibbia N. C., Regina Coeli, Vigevano e Cassino), il Tribunale di Roma, ha rigettato la domanda in relazione ai periodi detentivi trascorsi sino al 26 febbraio 2010 per intervenuta prescrizione, ha accolto la domanda in relazione ai periodi detentivi correnti dal 13 luglio 2011 al 26 luglio 2014 e dal 27 luglio 2014 al 28 agosto 2014 e, per l’effetto, ha condannato il predetto Ministero al pagamento della somma di Euro 9.144,00, oltre interessi, come indicato nella motivazione di quel decreto, e ha compensato integralmente tra le parti le spese di lite.

Il Ministero della Giustizia, a sua volta, con atto notificato in data 9 dicembre 2016, ha proposto ricorso per cassazione avverso il già indicato decreto (per evidente lapsus calami qualificato ordinanza in tale ultimo ricorso) del Tribunale di Roma, articolato in due motivi.

M.G. ha depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Trattandosi di ricorsi proposti avverso il medesimo provvedimento del Giudice del merito, va disposta la riunione dei ricorsi aventi NRG 29033/16 e NRG 29296/16.

2. Con il primo motivo del ricorso proposto dal M., si lamenta “Violazione e/o erronea e/o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2947 c.c. anche in combinato disposto con l’art. 35-ter Ordinamento Penitenziario introdotto dal D.L. n. 92 del 2014, difetto di presupposti legali/Violazione dell’art. 12 preleggi e dei criteri ermeneutici e di interpretazione legislativa per non conformità alla Costituzione ed in particolare agli art(t). 107 e 111 Cost. in tema di interpretazione costituzionalmente e “convenzionalmente” orientata e di giusto processo nonchè dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo oltre che dei principi sanciti dalla Corte EDU nella cd, sentenza Torreggiani e altri c. Italia, n. 43517/09, 8 gennaio 2013/Violazione di legge per omessa applicazione degli artt. 1173,2051 e 2946 c.c., error in procedendo et in iudicando” (art. 360 c.p.c., n. 3).

Il ricorrente sostiene che la statuizione del Tribunale sarebbe:

a) viziata da un evidente e palese erroneo inquadramento sistematico nonchè frutto di erronee valutazioni e interpretazioni della normativa di settore applicabile con particolare riferimento all’art. 35-ter dell’O.P. anche con riferimento all’individuazione del dies a quo della prescrizione ritenuta quinquennale dal Tribunale, sostenendo il ricorrente che con il D.L. n. 92 del 2014 sarebbe stato introdotto un rimedio “compensativo”, laddove, invece, il Tribunale avrebbe erroneamente sussunto la vicenda nell’alveo della responsabilità extracontrattuale risarcitoria; l’art. 35-ter dell’O.P. non disciplinerebbe, ad avviso del M., una fattispecie di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito ex art. 2043 c.c. ma avrebbe semplicemente previsto una forma di ristoro predeterminata e tipizzata da liquidarsi in favore del ricorrente che abbia subito detenzione in condizioni inumane e degradanti in violazione dell’art. 3 CEDU;

b) viziata da manifesta contraddizione laddove, pur riconoscendo che la ratio e la finalità della novità normativa di cui al D.L. n. 92 del 2014 convertito in L. n. 117 del 2014 erano volte ad introdurre un rimedio su richiesta della CEDU con la sentenza Torreggiani, il Tribunale avrebbe fondato il suo assunto su due profili erronei e privi di agganci nomativi che in concreto vanificherebbero e/o ridurrebbero gli effetti concreti di tale norma: 1) l’espressione letterale del testo legislativo, quale “rimedi risarcitori” come unico canone interpretativo”; 2) la (presunta) concorde qualificazione, in dottrina e in giurisprudenza dell’azione de qua come risarcitoria e non indennitaria.

Secondo il ricorrente si tratterebbe nella specie di un illecito contrattuale e tale inquadramento maggiormente valorizzerebbe il sottostante rapporto e contatto tra Amministrazione penitenziaria e soggetto detenuto e sarebbe più idoneo a tutelare i diritti che da tale contatto sociale derivano.

2. Il secondo motivo proposto dal M., veicolato espressamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, è così rubricato: “Violazione e/o erronea applicazione degli artt. 2043 e 2947 c.c., anche in combinato disposto con la L. n. 354 del 1975, art. 35 ter, comma 3, (così come modificato dal D.L. n. 92 del 2014) per quanto concerne la decorrenza della prescrizione – difetto di presupposti legali, dell’art. 111 Cost. in tema di giusto processo nonchè dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo oltre che dei principi sanciti dalla C.E.D.U. nella cd. sentenza Torreggiani ed altri c. Italia 8 gennaio 2013, ricorso n. 43517/09. Error in procedendo et in iudicando”.

Il ricorrente sostiene che il Tribunale avrebbe rigettato il ricorso sulla base di un ulteriore assunto contrario alle norme indicate nella rubrica del ricorso oltre che non previsto dalle stesse, laddove ha ritenuto di individuare il dies a quo della prescrizione nel giorno in cui si è verificato il fatto lesivo (e, quindi, considerato che il ricorso introduttivo del presente giudizio è stato notificato il 26 febbraio 2015, la prescrizione sarebbe maturata in relazione ai periodi detentivi trascorsi sino al 26 febbraio 2010) e non nella data di entrata in vigore dell’art. 35-ter dell’O.P. (28 giugno 2014), nel qual caso la domanda sarebbe stata proposta anche nei termini di prescrizione quinquennale, pur a voler considerare nella specie ricorrente un illecito extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c., pur ribadendo il M. che nella specie la prescrizione applicabile sarebbe quella decennale.

3. Con il primo motivo proposto dal Ministero si lamenta violazione degli artt. 2935 e 2947 c.c. nonchè della L. n. 354 del 1975, art. 35-ter in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il ricorrente lamenta che il Tribunale abbia rigettato l’eccezione di prescrizione proposta con riferimento alla domanda di risarcimento dei danni subiti per il periodo di detenzione anteriore al quinquennio a far data dalla proposizione del ricorso, notificato in data 26 febbraio 2015, ed abbia, pertanto accolto la domanda in relazione a periodi “anteriori” al 6 (recte 26 febbraio, vedi decreto) febbraio 2010, laddove, invece, l’accoglimento dell’eccezione avrebbe dovuto comportare il rigetto della domanda proposta dal ricorrente.

In particolare il ricorrente sostiene che la decisione del Tribunale si baserebbe su due argomenti: 1) la responsabilità dell’Amministrazione discenderebbe da violazione di obblighi imposti dalla legge; 2) il rimedio avrebbe natura indennitaria, considerata la predeterminazione per legge del quantum.

Ad avviso del Ministero, tali argomentazioni non sarebbero condivisibili e al riguardo il ricorrente sostiene che vi sarebbe piena compatibilità tra il rimedio previsto dall’art. 35-ter dell’O.P. e il termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2947 c.c. e che tale compatibilità sarebbe ammessa dalle prime elaborazioni dottrinali sulla riforma introdotta dal D.L. n. 92 del 2014 e dalle prime decisioni giurisprudenziali che si sono occupate di tale questione; richiama la Delib. CSM 30 luglio 2014, la relazione del Massimario del 13 aprile 2014 il decreto del Tribunale di Roma del 4 giugno 2015.

Asserisce il Ministero che le due argomentazioni poste a base della decisione del Tribunale nel decreto impugnato non sarebbero condivisibili sulla base delle argomentazioni che seguono.

Ad avviso del Ministero, sarebbe dubbio che l’art. 35-ter già indicato abbia introdotto un’azione indennitaria non prevista in precedenza e che l’azione di cui si discute in causa vada, invece, “ricondotta nel modello di cui all’art. 2043 c.c.” (v. ricorso p. 14).

Secondo il Ministero, il rimedio di cui all’art. 35-ter non sarebbe altro che una semplificazione processuale della più generale azione di cui all’art. 2043 c.c..

4. Il primo motivo proposto dal Ministero è infondato mentre risulta fondato il ricorso del M., unitariamente considerato, alla luce del principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 11018 dell’8 maggio 2018, secondo cui “Il diritto ad una somma di denaro pari a otto Euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 della CEDU, previsto dal L. n. 354 del 1975, art. 35 ter, comma 3, come introdotto dal D.L. n. 92 del 2014, art. 1 conv. con modif. dalla L. n. 117 del 2014, si prescrive in dieci anni, trattandosi di un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti “ex lege” sull’amministrazione penitenziaria. Il termine di prescrizione decorre dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni, salvo che per coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del D.L. cit., rispetto ai quali, se non sono incorsi nelle decadenze previste dal D.L. n. 92 del 2014, art. 2 il termine comincia a decorrere solo da tale data” (v., in senso conforme, anche Cass., ord., 3/08/2018, n. 20528).

5. Con il secondo motivo, lamentando violazione della L. n. 354 del 1975, art. 35-ter e dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente Ministero deduce che il Tribunale, ai fini dell’individuazione dei criteri per il calcolo a disposizione del ricorrente durante la detenzione, avrebbe tenuto conto di uno spazio complessivo nella cella pari a mq. 10,17 “calcolata al netto dei servizi igienici” e che, pertanto, dopo aver escluso che il M. fosse stato trattato in maniera disumana nel periodo in cui aveva condiviso la cella con un numero di detenuti inferiore a due, avrebbe ritenuto sussistente la violazione dell’art. 3 CEDU nei periodi in cui la cella era occupata da tre detenuti. In tal modo, ad avviso del ricorrente, il Tribunale avrebbe ritenuto che nel calcolo della superficie disponibile non si debba tener conto di quella dei servizi igienici annessi alla cella.

Sostiene il Ministero che, se il primo Giudice avesse considerato anche tale ulteriore superficie (pari a circa mq. 1,67), lo spazio a disposizione di ogni singolo detenuto, anche nei periodi di occupazione della cella da parte di tre soggetti sarebbe stato superiore a mq. 3.

Inoltre, a parere del ricorrente, che richiama giurisprudenza della Corte E.D.U., oltre che di legittimità e di merito, ai fini del calcolo dello spazio abitabile minimo da garantire pro capite a ciascun detenuto, dovrebbe essere considerata la superficie tout court della camera di pernottamento senza sottrarre l’area occupata dal mobilio presente nella cella e senza scomputare l’area del bagno privato di pertinenza di detta camera e, con particolare riferimento al mobilio, il calcolo dello spazio a disposizione dei ricorrenti andrebbe effettuato dividendo la superficie della cella per il numero dei suoi occupanti.

Ad avviso del Ministero, non sarebbe, infatti, condivisibile l’orientamento secondo cui va escluso dal calcolo dello spazio disponibile la superficie degli arredi, in quanto si aprirebbe la strada ad una discutibile distinzione tra spazio disponibile e spazio calpestabile, non sempre facilmente individuabile, e l’accertamento della violazione dell’art. 3 CEDU dipenderebbe da una situazione contingente, ben potendo l’Amministrazione modificare il tipo e il numero degli arredi.

In conclusione, il ricorrente sostiene che la violazione dell’art. 3 CEDU non potrebbe “essere piegata ad un mero calcolo ragionieristico dello spazio disponibile all’interno della cella” ma dovrebbe “essere basata) su una valutazione globale del trattamento sofferto dal ricorrente durante tutto il periodo della detenzione”; il calcolo dello spazio disponibile dovrebbe “partire da una considerazione unitaria dell’alloggio messo a disposizione del ricorrente (comprendendovi anche il servizio igienico che costituisce una pertinenza annessa alla camera di pernottamento), determinando tale spazio – in linea di prima approssimazione – senza tener conto della superficie occupata dagli arredi fissi e mobili. Solo quando il calcolo al lordo di tale superficie induca il giudicante a ritenere sussistente un’incertezza sulla violazione (segnatamente quando lo spazio disponibile sia compreso tra i 3 e i 4 mq), al fine di sciogliere tale incertezza dovranno essere presi in considerazione anche gli altri aspetti relativi alla detenzione sofferta dal ricorrente, nei quali dovrebbero rientrare anche la circostanza che lo spazio a disposizione può essere ulteriormente ridotto dalla presenza dell’arredo. Tale circostanza… anzichè rappresentare un elemento costitutivo della fattispecie della violazione dell’art. 3 della CEDU” dovrebbe costituire “un elemento presuntivo della sua sussistenza idoneo a orientare la decisione del giudicante verso l’affermazione della sussistenza in concreto di tale violazione; ciò sempre che non risultino dagli atti e non siano provati dall’amministrazione elementi che, compensando tale presunzione, inducano a superare tale conclusione”.

Deduce il Ministero che, alla luce di quanto affermato dalla sentenza CEDU del 12 marzo 2015 Mursic c. Croazia, quando risulti che lo spazio a disposizione del detenuto sia stato inferiore a 3 mq, non può escludersi che, allorchè tale condizione non abbia avuto durata eccessiva ed in difetto di ulteriori condizioni degradanti del trattamento (relative ad esempio all’igiene, all’aerazione, al vitto, alla salute), tale limitazione sia compensata dalla possibilità di usufruire liberamente di spazi comuni a disposizione dei detenuti durante un apprezzabile periodo di tempo nel corso della giornata, dovendosi in tali casi escludersi la sussistenza di una violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU..

In tale contesto non assumerebbe, secondo il ricorrente Ministero, particolare rilievo la questione relativa al calcolo dello spazio occupato dal mobilio all’interno della camera di pernottamento se la presenza del mobilio non abbia impedito al detenuto di muoversi liberamente nello spazio restante.

5.1. Il motivo all’esame è infondato.

Con riferimento allo spazio minimo da assicurare a ciascun detenuto, questa Corte, in sede penale, ha più volte avuto modo di affermare che, ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo inframurario, pari o superiore a tre metri quadrati, da assicurare a ogni detenuto affinchè lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, così come interpretato dalla conforme giurisprudenza della Corte EDU in data 8 gennaio 2013 nel caso Torreggiani c. Italia, dalla superficie lorda della cella deve essere detratta l’area occupata dagli arredi (Cass., Sez. 1, pen., n. 5728 del 19/12/2013, dep. il 5/02/2014, imp. Berni).

E’ stato pure di recente evidenziato che “la citata decisione della Corte EDU ha precisato che l’art. 3 della Convenzione, nel sancire il divieto, fra l’altro, di pene o trattamenti inumani o degradanti, non ha tipizzato le condotte integratrici della violazione del divieto…., in corrispondenza, l’art. 27 Cost., comma 2, prescrivendo che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, non ha stabilito alcuno specifico canone per la determinazione dei trattamenti vietati. Con particolare riguardo agli spazi intramurali, la L. n. 354 del 1975, art. 6, commi 1 e 2, stabilisce che i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti devono essere di ampiezza sufficiente e che i locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti, mentre il D.P.R. n. 230 del 2000, art. 6 nemmeno fissa alcuno standard o parametro metrico in ordine alle dimensioni dei locali destinati al soggiorno dei detenuti ed alle celle di pernottamento.

In tale cornice, considerati anche i criteri elaborati dal Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti (abbreviato in CPT), la giurisprudenza della Corte EDU ha dunque fissato canoni particolari in funzione di specifici standard dimensionali inerenti alla superficie degli spazi inframurari, indicando in tre metri quadrati lo spazio minimo utile al fine di garantire un’adeguata possibilità di movimento del soggetto recluso nello spazio detentivo, per cui in tale standard non devono essere inclusi gli arredi fissi, in ragione dell’ingombro che essi determinano: è questo l’esito dell’elaborazione giurisprudenziale correlata alla funzione che la nozione dello “spazio minimo vitale” assolve nel quadro della complessa ricostruzione dei parametri di un trattamento carcerario tale da poter essere considerato conforme ai contenuti dell’art. 3 CEDU.

A specificazione pratica della verifica della sussistenza del fissato standard, va ricordato poi che, come pure affermato dalle Sezioni civili di questa Corte, essa comporta la necessità di escludere dal computo, oltre ai servizi igienici, quelle superfici occupate da arredi fissi e, comunque, da strutture tendenzialmente fisse, non invece dagli altri arredi facilmente amovibili, così da stabilire l’effettività della libertà di movimento in esso della persona reclusa” (Cass., Sez. 1, pen., n. 44433 del 19/04/2017, dep. il 26/09/2017, Aricò).

Questa Corte anche in sede civile ha affermato che, in tema di risarcimento del danno L. n. 354 del 1975, ex art. 35-ter, comma 3, lo Stato incorre nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti nei confronti di soggetti detenuti o internati, stabilito dall’art. 3 della CEDU, così come interpretato dalla conforme giurisprudenza della Corte EDU, quando, in una cella collettiva, il detenuto non possa disporre singolarmente di almeno 3 mq. di superficie, calcolati detraendo l’area destinata ai servizi igienici e agli armadi appoggiati, o infissi, stabilmente alle pareti o al suolo ed anche lo spazio occupato dai letti, che riducono lo spazio libero necessario per il movimento, senza che, invece, abbiano rilievo gli altri arredi facilmente amovibili, come sgabelli o tavolini (Cass. 20/02/2018, n. 4096 e Cass., ord., 7/12/2017, n. 29323; v. pure Cass., pen., 10/05/2017, n. 22729 e Cass., pen., 26/05/2017, n. 41211).

Nella specie, peraltro, si evidenzia che, nel motivo all’esame, non è neppure contestata specificamente la superficie occupata dagli arredi cui fa riferimento il decreto impugnato, nè è contestata, in particolare, la superficie occupata da arredi fissi, essendosi il Ministero limitato a rappresentare che, tenendo conto del servizio igienico, nel periodo di detenzione con altri due detenuti il M. avrebbe avuto a disposizione 3 mq. e a dedurre di non condividere l’orientamento secondo cui va escluso dal calcolo dello spazio disponibile la superficie degli arredi in genere, sicchè, sul punto, il mezzo in scrutinio risulta pure generico. Va, inoltre, rimarcato che il Tribunale ha comunque espressamente rilevato che il Ministero non ha confutato le allegazioni del M. e le ha, pertanto, considerate come “ammesse e riconosciute” e tali affermazioni del primo Giudice non risultano specificamente censurate dal Ministero in questa sede.

6. Conclusivamente, vanno riuniti i ricorsi; va accolto il ricorso M. e rigettato il ricorso del Ministero della Giustizia, il decreto impugnato va cassato e la causa va rinviata al Tribunale di Roma, in persona di diverso magistrato, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso proposto da M.G. e rigetta ricorso proposto dal Ministero della Giustizia; cassa il decreto impugnato e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, al Tribunale di Roma, in persona di diverso magistrato.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 28 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2019

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