Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23613 del 27/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 27/10/2020, (ud. 09/07/2020, dep. 27/10/2020), n.23613

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso 3875-2016 proposto da:

P.A.V., elettivamente domiciliata in ROMA VIA FLAMINIA,

109 presso lo studio dell’Avvocato BIAGIO BERTOLONE, rappresentata e

difesa dall’Avvocato ROSARIO PIZZINO;

– ricorrente —

contro

PA.CA.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 16/01/2015 R.G.N. 546/2010.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

CHE:

1. La Corte di appello di Catania, con sentenza n. 2 del 2015, in accoglimento del gravame di Pa.Ca., ha condannato P.A. al pagamento, in favore dell’appellante, della somma di Euro 13.990,87, oltre accessori, a titolo di differenze retributive, tredicesima mensilità e TFR in relazione all’intercorso rapporto di lavoro.

2. Pa.Ca. aveva adito il Giudice del lavoro del Tribunale di Catania esponendo di avere lavorato alle dipendenze di P.A. a decorrere dal 10 marzo 2002, data in cui era stata assunta dalla convenuta per occuparsi dell’anziana zia, L.V., sino alla morte di quest’ultima, avvenuta il 25 marzo 2005, e che era stata la convenuta P. a provvedere alla gestione del rapporto di lavoro e al pagamento della retribuzione.

3. La resistente, costituitasi in giudizio, aveva eccepito di essersi limitata a mettere in contatto le parti e che il rapporto di lavoro si era svolto esclusivamente tra la ricorrente e la L..

4. Il Giudice di primo grado aveva rigettato la domanda per mancanza di prova della titolarità del rapporto di lavoro in capo alla resistente. In particolare, aveva ritenuto non dimostrato in giudizio che la P. si fosse obbligata in proprio, non avendone interesse, e che al più poteva ritenersi che la stessa avesse agito quale mandataria della L..

5. La Corte di appello, accogliendo l’appello della Pa., ha affermato che era stata la convenuta ad assumere la ricorrente per assistere la zia, contrattando la retribuzione; che spetta a chi si assume di avere agito come rappresentante fornire la prova di avere concluso il contratto nel nome del rappresentato e cioè di avere, ai momento della stipulazione del contratto, espressamente dichiarato di agire in virtù di un potere rappresentativo a lui conferito; che la convenuta non aveva neppure allegato di avere esteriorizzato alla lavoratrice, all’atto dell’assunzione, di agire in nome e per conto della L..

6. La Corte di appello ha precisato che, qualora manchi la contemplati domini, che rende possibile l’imputazione degli effetti del contratto nella sfera di un soggetto diverso da quello che lo ha concluso, gli effetti del negozio si consolidano direttamente in capo al rappresentante, anche se l’altro contraente abbia avuto comunque conoscenza dell’interesse del mandante nella conclusione del contratto e che, nel caso in esame, non vi era nè l’allegazione nè la prova che la convenuta avesse agito in nome della zia, nè ciò poteva desumersi da un comportamento concludente, con la conseguenza che, in difetto di tale prova, gravavano sulla convenuta gli obblighi derivanti dal contratto.

7. Per la cassazione di tale sentenza P.A. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi. Pa.Ca. è rimasta intimata.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

8. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., per avere la Pa. formulato una domanda nuova in appello, atteso che in primo grado era stato chiesto l’accertamento di un rapporto di lavoro alle dipendenze dirette della P. e in secondo grado l’accertamento che “il contratto del rapporto di lavoro a favore del terzo si è sostanziato tra le parti in causa”, richiesta implicante una diversa causa petendi e nuovi accertamenti di fatto, inammissibili in appello.

9. Il motivo è infondato.

10. Non costituisce domanda nuova, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., la prospettazione, in appello, di una qualificazione giuridica del contratto oggetto del giudizio diversa da quella effettuata dalla parte in primo grado, ove basata sui medesimi fatti (Cass. n. 4384 del 2016), atteso che è rimesso al giudice di merito, anche in appello se investito dal gravame, il potere-dovere di qualificazione delle domande delle parti con l’unico limite che resti invariato il bene della vita domandato (Cass. n. 24055 del 2008).

11. La Corte di appello, come si evince dalla sentenza, ha qualificato giuridicamente i fatti allegati in primo grado affermando che, in difetto di prova della contemplatio domini, doveva escludersi che la convenuta avesse agito in nome della L. e che, per l’effetto, restavano in capo alla stessa gli effetti del contratto concluso e i relativi obblighi retributivi per la prestazione lavorativa resa dalla Pa., il cui effettivo espletamento er pacifico in giudizio.

12. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del giudicato (art. 329 c.p.c.) per avere la Corte di appello omesso di considerare che non era stato specificamente impugnato il capo della sentenza di primo grado in cui si era affermato che “a tutto voler concedere la P. è mandataria della L. per incarico della quale ha cercato una badante”.

13. Il motivo è infondato.

14. Dal contenuto della sentenza, si evince che oggetto del devoluto in appello era proprio la qualificazione giuridica della fattispecie in cui, a fronte della mera affermazione della convenuta di avere agito su incarico e per conto della L., vi era il difetto di prova (e pure di allegazione) della contemplatio domini. Nessun giudicato interno può dunque essersi formato su una questione ancora sub iudice, in quanto oggetto del devoluto in appello.

15.11 terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte di appello pronunciato oltre i limiti della domanda, poichè la Pa. non aveva mai eccepito, nell’atto introduttivo o nell’atto di appello, la mancata spendita del nome della sig.ra L. quale dominus negotii.

16. Il motivo è infondato.

17. In tema di mandato con rappresentanza, l’onere della prova della contemplatio domini, che rende possibile l’imputazione degli effetti del contratto nella sfera di un soggetto diverso da quello che lo ha concluso, incombe su chi afferma avere assunto la veste di rappresentante e, ove sia mancata l’allegazione e la prova del predetto comportamento, è insufficiente, ai fini di una diretta imputazione degli effetti dell’atto al mandante, la circostanza che l’atto sia stato posto in essere nel suo interesse (cfr. Cass. n. 7510 del 2011; da ultimo, v. pure Cass. n. 11897 del 18 giugno 2020).

18. Dunque, non spettava alla originaria ricorrente dimostrare che la convenuta non avesse agito in veste di rappresentante della beneficiaria della prestazione lavorativa, atteso che la Pa. era stata assunta dalla P., dalla quale aveva ricevuto le disposizioni ed era stata retribuita.

19. Nei contratti a forma libera, l’esternazione del potere rappresentativo non richiede la espressa dichiarazione di spendita del nome del rappresentato o formule sacramentali, ma può essere manifestata anche attraverso un comportamento del rappresentante che, per univocità e concludenza, sia idoneo a portare a conoscenza dell’altro contraente la circostanza che egli agisce per un soggetto diverso, nella cui sfera giuridica gli effetti del contratto sono destinati a prodursi direttamente (Cass. n. 22616 del 2019; v. pure Cass. n. 5681 del 2020, Cass. n. 13978 del 2005).

20. Correttamente, la Corte di appello ha basato la propria decisione sulla mancanza di prova (ed invero pure di allegazione) circa la spendita del nome della mandante L. – o contemplati domini – da parte della P. nei confronti della ricorrente Pa. al momento dell’assunzione di quest’ultima.

21. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., per avere la sentenza escluso che fosse stata la L. a incaricare la P. di contattare qualcuno che poi sarebbe stato assunto direttamente dalla prima.

22. Il motivo è inammissibile, in quanto con esso non si denuncia una violazione di legge, ma si contesta la ricostruzione in fatto operata dalla Corte territoriale e l’apprezzamento delle risultanze di causa, di competenza del giudice di merito. E’ poi da rilevare che la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma (Cass. 17 giugno 2013, n. 7 15107): ciò che nel caso in esame non è avvenuto.

23. In conclusione, il ricorso va rigettato. Nulla va disposto quanto alle spese del presente giudizio, stante l’assenza di attività difensiva di parte intimata.

24. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se è dovuto (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2020

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