Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23609 del 31/08/2021

Cassazione civile sez. VI, 31/08/2021, (ud. 22/04/2021, dep. 31/08/2021), n.23609

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LEONE Margherita Maria – Presidente –

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20930-2019 proposto da:

INPS – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CESARE BECCARIA 29, presso lo studio dell’avvocato CARLA D’ALOISIO,

che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati EMANUELE DE

ROSE, ESTER ADA SCIPLINO, LELIO MARITATO, ANTONINO SGROI;

– ricorrente –

contro

C.M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DELL’AMBA ARADAM 24, presso lo studio dell’avvocato MATTEO DI PUMPO,

rappresentata e difesa dall’avvocato BARTOLOMEO EMILIO BIUSO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 633/2019 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata 11/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 22/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GABRIELLA

MARCHESE.

 

Fatto

RILEVATO

che:

la Corte d’appello di Bari ha respinto l’appello dell’INPS, confermando la pronuncia di primo grado con cui era stata accolta la domanda di C.M.A. e dichiarata l’insussistenza dell’obbligo di iscrizione alla Gestione separata di cui alla L. n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, in relazione all’attività libero professionale dal medesimo svolta quale avvocato iscritto all’Albo Forense ma non alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense, in ragione del mancato conseguimento del reddito nella misura utile per l’insorgenza del relativo obbligo;

la Corte territoriale ha ritenuto che il dato contabile della percezione, nell’anno oggetto di causa (id est: nel 2009), di un reddito di importo inferiore ai 5.000,00 Euro rappresentasse “un chiaro indice della natura occasionale (rectius, non abituale) dell’attività, tanto più che l’INPS, su cui incombeva l’onere di provare il fondamento della domanda di pagamento, non (aveva) offerto alcun concreto elemento di prova a supporto della natura abituale dell’attività”;

avverso tale sentenza l’INPS ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo; l’avvocato ha resistito con controricorso; entrambe le parti hanno depositato memoria;

la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con l’unico motivo di ricorso l’INPS – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – ha dedotto violazione e/o falsa applicazione della L. n. 335 del 1995, art. 2, commi 26-31, del D.L. n. 98 del 2011, art. 18, commi 1 e 2, conv. con mod. dalla L. n. 111 del 2011, della L. n. 247 del 2012, art. 21, comma 8, del D.L. n. 269 del 2003, art. 44, comma 2, conv. con mod. dalla L. n. 326 del 2003, per avere la Corte di appello ritenuto insussistente l’obbligo di versamento della contribuzione in ragione dell’ammontare del reddito conseguito dal professionista nell’anno di riferimento, inferiore al limite indicato dal D.L. n. 269 del 2003, art. 44, comma 2, (id est: Euro 5.000,00);

l’Istituto ha ribadito l’obbligo di iscrizione alla gestione separata per gli avvocati (per i quali non sorga l’obbligo di iscrizione alla cassa forense) che svolgono in modo abituale l’attività professionale, in base al disposto della citata L. n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, come interpretato autenticamente dal citato D.L. n. 98 del 2011, art. 18, comma 12, non venendo in considerazione del citato D.L. n. 269 del 2003, art. 44, comma 2, che disciplina la diversa ipotesi del lavoro occasionale;

ha sostenuto che, nel caso di specie, in base al dato pacifico secondo cui l’attuale controricorrente svolgeva la professione di avvocato e in mancanza di contestazione sul requisito di abitualità, la Corte di merito avrebbe dovuto affermare il diritto dell’Istituto alla contribuzione pretesa;

il ricorso non può trovare accoglimento;

questa Corte ha affermato che l’obbligatorietà dell’iscrizione alla Gestione separata da parte di un professionista iscritto ad albo o elenco è collegata all’esercizio abituale, ancorché non esclusivo, di una professione che dia luogo ad un reddito non assoggettato a contribuzione da parte della cassa di riferimento; la produzione di un reddito superiore alla soglia di Euro 5.000,00 costituisce invece il presupposto affinché anche un’attività di lavoro autonomo occasionale possa mettere capo all’iscrizione presso la medesima Gestione, restando invece normativamente irrilevante qualora ci si trovi in presenza di un’attività lavorativa svolta con i caratteri dell’abitualità (Cass. n. 4419 del 2021; Cass. n. 12419 del 2021; Cass. n. 12358 del 2021);

dirimente, ai fini dell’obbligo di iscrizione alla Gestione separata, deve considerarsi, secondo le sentenze richiamate, il modo in cui è svolta l’attività libero-professionale, se in forma abituale o meno; con la precisazione che nell’accertamento in fatto del requisito di abitualità possono rilevare “le presunzioni ricavabili, ad es., dall’iscrizione all’albo, dall’accensione della partita IVA o dall’organizzazione materiale predisposta dal professionista a supporto della sua attività” oppure, in senso contrario, “la percezione da parte del libero professionista di un reddito annuo di importo inferiore ad Euro 5.000,00”, senza che nessuno di tali elementi possa di per sé imporsi all’interprete come univocamente significativo;

nel caso di specie, la sentenza impugnata ha valorizzato, quale indice negativo di abitualità, la percezione da parte dell’avvocato nell’anno in contestazione di un reddito inferiore al limite dei 5.000,00 Euro nonché l’assenza di elementi probatori di segno diverso della cui deduzione era onerato l’INPS;

il motivo di ricorso dell’INPS, che fa leva sul dato pacifico dell’esercizio della professione di avvocato della controparte e sulla mancata contestazione del requisito di abitualità, risulta anzitutto inammissibile per difetto di autosufficienza, non essendo trascritto il contenuto degli atti processuali da cui dovrebbe desumersi l’operare del meccanismo di non contestazione;

non solo, ma lo stesso principio di non contestazione appare invocato in modo improprio, cioè come mancata contestazione della insussistenza del requisito di abitualità. L’onere di contestazione concerne, infatti, le sole allegazioni in punto di fatto, cioè i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, ovvero i fatti materiali che integrano la pretesa sostanziale dedotta in giudizio, e non si estende alle circostanze che implicano un’attività di giudizio (Cass. n. 11108/07; Sez. 6 n. 6606 del 2016). In relazione al caso di specie, il requisito di abitualità, elemento costitutivo della pretesa avanzata dall’INPS, non ha una dimensione meramente fattuale ma implica un’attività di valutazione e, come tale, si sottrae all’operare del principio di non contestazione;

sotto diverso profilo, deve osservarsi come il motivo di ricorso dell’INPS sia stato prospettato in termini di violazione e/o falsa applicazione di legge mentre l’accertamento della abitualità pone una questione di fatto;

la Corte di appello, diversamente da quanto denunciato dall’INPS, ha effettuato, al riguardo, un tipico accertamento di merito, sicché la pronuncia è conforme ai principi di diritto innanzi esposti;

i giudici, come sopra osservato, hanno considerato la percezione da parte del libero professionista di un reddito annuo di importo inferiore ad Euro 5.000,00 e valutato detto elemento indiziario in uno alla condotta processuale dell’Ente per escludere, in concreto, che l’attività fosse stata svolta con carattere di abitualità. In presenza di tale giudizio, l’INPS avrebbe dovuto censurare il ragionamento decisorio nei termini tracciati dalla Suprema Corte in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. Cass., S.U. n. 5083 del 2014);

sulla base delle svolte argomentazioni, il ricorso va dunque complessivamente rigettato;

le spese seguono la soccombenza (v. in merito alle spese, in analoga fattispecie, Cass. n. 7231 del 2021) e si liquidano come da dispositivo, con attribuzione all’avv.to Bartolomeo Emilio Biuso;

sussistono, altresì, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ove il versamento risulti dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 500,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge, con distrazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 22 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2021

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