Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23604 del 09/10/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 09/10/2017, (ud. 07/07/2017, dep.09/10/2017),  n. 23604

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15637/2016 proposto da:

I.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSSERIA 2,

presso lo studio del Dott. ALFREDO PLACIDI, rappresentato e difeso

dall’avvocato NAZZARENA ZORZELLA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2056/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 15/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 07/07/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO

LAMORGESE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 15 dicembre 2015, in accoglimento del gravame del Ministero dell’interno, ha negato a I.P., cittadina pakistana, la protezione umanitaria riconosciuta dal Tribunale di Bologna, oltre che la protezione internazionale.

L’interessata aveva riferito di essere stata costretta a fuggire dal proprio paese d’origine (Rawalpindi) e di temere per la propria incolumità in caso di rientro forzato, avendo subito forti pressioni dalla famiglia presso la quale lavorava come baby sitter perchè, essendo di fede cristiana, si convertisse alla religione mussulmana con la minaccia di essere denunciata per il reato di blasfemia (severamente punito in Pakistan anche con la morte), con il pretesto che lei fosse responsabile di avere gettato nel cestino dell’immondizia alcuni fogli del Corano, cui erano seguiti la sottrazione del cellulare e un tentativo di sequestro di persona, cui era riuscita a sottrarsi.

Avverso questa sentenza I.P. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi; il Ministero dell’interno non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,6,7,8 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere ritenuto non credibile il proprio racconto e sfornita di prova documentale la riferita denuncia di blasfemia nei suoi confronti.

Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., n. 5, per avere, al fine di negare il riconoscimento della protezione sussidiaria, escluso l’esistenza di una situazione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, riferendo che la sorella continuava a vivere e lavorare senza particolari problemi nella propria città, mentre il ricorrente aveva dedotto il rischio della pena di morte o di trattamenti inumani o degradanti, in relazione alla minaccia di denuncia per blasfemia e in considerazione del fatto che erano diffusi gli attentati e le violenze alla comunità cristiana a Rawalpindi e nel Punjab.

I motivi in esame, da esaminare congiuntamente, sono fondati nei termini che seguono.

La sentenza impugnata, negando la protezione internazionale nella forma della protezione sussidiaria, ha ritenuto non credibili le dichiarazioni dell’interessata, la quale aveva riferito di una persecuzione nei suoi confronti di carattere religioso conseguente ad una denuncia di blasfemia non documentata, circoscritta al solo ambito lavorativo e relativa a fatti di natura privata.

Questa motivazione è perplessa e apparente (quindi censurabile a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nuova versione) laddove si afferma che la denuncia di blasfemia non era documentata, mentre la ricorrente non aveva riferito che tale denuncia fosse stata presentata ma solo che il datore di lavoro avesse minacciato di presentarla. Inoltre, la Corte di merito, pur avendo confermato che nel paese di origine vi erano guerre religiose e che il reato di blasfemia era punito gravemente, non ha valutato la domanda di protezione a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a-b, limitandosi a riferire che comunque la ricorrente era riuscita a sottrarsi al sequestro anche grazie all’aiuto della sorella che ivi risiedieva senza problemi, a dimostrazione della mancanza di una situazione di pericolo in quella zona del Paese. Tuttavia, essere riusciti a sottrarsi a un sequestro non dimostra di per sè, ovviamente, la mancanza di un pericolo di “danno grave”, nell’accezione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14; nè la Corte ha considerato che l’interessata aveva riferito che il datore di lavoro continuava a cercarla presso la sorella, la quale era stata costretta a trasferirsi in altra località molto distante dalla sua città.

Inoltre, il rilievo dato nella sentenza impugnata al fatto che la vicenda descritta da I.P. si fosse verificata in un contesto privato e che le minacce provenissero da agenti privati è dissonante rispetto al sistema normativo della protezione internazionale e si risolve in una falsa applicazione di norme di diritto. Infatti, da un lato, il “rischio effettivo di subire un grave danno”, nel caso in cui il cittadino straniero rientri nel Paese di origine e “non (possa) o, a causa di tale rischio, non (voglia) avvalersi della protezione di detto Paese” (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 1, lett. g; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. f), è ravvisabile anche nelle situazioni in cui lo Stato non sia in grado di offrire una protezione “effettiva e non temporanea (che) consiste nell’adozione di adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi tra l’altro di un sistema giuridico effettivo…” (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 6, comma 2); dall’altro, nel caso in cui taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, il giudice di merito deve valutare se il richiedente la protezione abbia compiuto “ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda” e se abbia prodotto “tutti gli elementi pertinenti in suo possesso” e abbia fornito “una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi” (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5).

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, per avere negato anche la protezione umanitaria (permesso di soggiorno per motivi umanitari), erroneamente ancorandola ai presupposti previsti per le misure di maggiore tutela concernenti lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria e senza valutare le gravi conseguenze di un suo forzato rientro in patria, in considerazione della sua condizione di estrema vulnerabilità, a causa della minaccia di denuncia da parte del datore di lavoro per un reato punito dalla legge pakistana con la pena di morte e della probabilità di rimanere sprovvista di tutela dei diritti da parte delle autorità istituzionali a ciò preposte.

Il motivo è fondato.

La Corte di merito ha fatto implicito ed erroneo riferimento ai medesimi presupposti (ritenuti insussistenti) della protezione internazionale, in tal modo falsamente applicando i parametri normativi propri della protezione umanitaria, non avendo la Corte di merito esaminato in concreto l’esistenza di “gravi motivi di carattere umanitario” (D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3). Nella giurisprudenza di legittimità la protezione “umanitaria” ha carattere atipico e residuale, nel senso che copre tutta una serie di situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba perciò provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in una condizione di “vulnerabilità” (Cass. 15466/2014, n. 26566/2013).

Il ricorso è accolto e la sentenza impugnata è cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

PQM

 

La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata; rinvia alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2017

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