Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 236 del 05/01/2011

Cassazione civile sez. II, 05/01/2011, (ud. 24/11/2010, dep. 05/01/2011), n.236

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

R.E. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIALE ANGELICO 301, presso lo studio dell’avvocato PERUGINI

BASILIO, rappresentato e difeso dall’avvocato NASTARI ORESTE;

– ricorrente –

contro

V.P.M. C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CALABRIA 56, presso lo studio dell’avvocato

MORLACCHINI FILIPPO, rappresentato e difeso dall’avvocato FATANO

RAFFAELE ANTONIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 571/2004 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 08/10/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/11/2010 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

LETTIERI Nicola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

V.P., coniuge ed erede dell’avv. P.F., conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Lecce, R. E. per sentirlo condannare al pagamento della somma di L. 20.033.250, quale residuo corrispettivo di prestazioni professionali svolte dal de cuius e consistite in attività difensiva di vario genere (sette giudizi di cognizione, un procedimento camerale ex art. 2409 c.c. e un atto di diffida stragiudiziale).

Il convenuto nel resistere in giudizio deduceva eccessività e non conformità del compenso preteso in relazione alle tariffe professionali e alle questioni trattate dal professionista, tutte aventi un oggetto tra loro consimile.

Il Tribunale accoglieva la domanda, condannando il convenuto al pagamento della somma di L. 24.213.925, oltre interessi e rivalutazione dalla domanda al saldo.

R.E. proponeva appello innanzi alla Corte salentina la quale, con sentenza n. 571 dell’8.10.2004, rigettati tutti gli altri motivi d’impugnazione, in parziale riforma della sentenza del primo giudice escludeva la rivalutazione monetaria del credito vantato dalla V..

In particolare il giudice di secondo grado riteneva – per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità – che: a) era inutile l’acquisizione, richiesta dal R., della documentazione depositata presso il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, atteso che l’art. 2233 c.c. pone una gerarchia di carattere preferenziale riguardo ai criteri di liquidazione del compenso, indicando nell’ordine l’accordo delle parti, le tariffe professionali ovvero gli usi, e in estremo subordine la liquidazione ad opera del giudice, il quale vi provvede previo parere obbligatorio, ma non vincolante, dell’associazione professionale; nello specifico, potendosi far ricorso alle tariffe professionali, da applicare alle prestazioni indicate nella parcella e non contestate nella loro esistenza, non occorreva acquisire nè ulteriori documenti, nè il parere dei Consiglio dell’Ordine; b) che l’esito dei procedimenti iniziati dall’avv. P. non poteva incidere sul giudizio, sia perchè la relativa argomentazione difensiva era stata introdotta per la prima volta dal R. nella comparsa conclusionale d’appello, sia in quanto l’esito stesso non era riconducibile al defunto professionista, il quale aveva svolto soltanto una parte del mandato, portato poi a compimento da altro avvocato; c) che doveva ritenersi congrua la liquidazione operata dal giudice di prime cure, poichè gli atti predisposti dall’avv. P., pur riflettendo per la maggior parte impugnazioni di delibere assembleari, erano tutti di contenuto ed oggetto diverso.

Per la cassazione di quest’ultima sentenza ricorre R. E., articolando due motivi di censura.

Resiste con controricorso V.P..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo parte ricorrente deduce la violazione dell’art. 2233 c.c. e l’insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto decisivo dell’acquisizione del parere del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce.

Lamenta al riguardo che il giudice d’appello non ha considerato che la parcella è stata redatta non dal professionista, ma dalla sua erede, e dunque da soggetto che, non potendosi previamente rivolgere all’ordine professionale (non essendo ella iscritta all’albo) al fine di ottenere un parere di congruità della parcella stessa, avrebbe dovuto avvalersi di quanto dispone la L. n. 36 del 1934, art. 67 che consente agli eredi del professionista, entro tre anni dalla morte di lui, di seguire la speciale procedura prevista dalla L. n. 794 del 1942, artt. 28, 29 e 30. Avendo, invece, la V. optato per il giudizio ordinario di cognizione, non poteva escludersi la necessità del parere del Consiglio dell’Ordine, da cui il giudice avrebbe potuto discostarsi motivatamente e con valutazione di tutti i criteri previsti dai D.M. di approvazione delle tariffe.

1.1. – Il motivo è infondato.

1.2. – L’art. 2233 cod. civ., nello stabilire che la liquidazione del compenso spettante al professionista, in difetto di espressa pattuizione tra le parti, debba essere effettuata a termini di tariffa e, quando questa manchi o non sia vincolante, debba essere determinata ope iudicis, secondo un criterio discrezionale, previo parere obbligatorio (anche se non vincolante) della competente associazione professionale, impone al giudice l’obbligo della richiesta, e della conseguente acquisizione, del detto parere, dal quale egli può, poi, legittimamente discostarsi a condizione di fornire adeguata motivazione e di non ricorrere al criterio dell’equità (Cass. nn. 5111/98, 9514/96 e 6438/94; v. anche Cass. n. 694/00, secondo cui l’obbligatoria richieste del parere dell’ordine professionale costituisce, insieme con la necessità di adeguare la misura del compenso all’importanza dell’opera e al decoro della professione, un limite al potere del giudice di determinare discrezionalmente il compenso).

1.2.1. – Per quanto concerne, in particolare, il compenso spettante all’avvocato per l’attività di patrocinio in giudizio, questa Corte ha altresì rilevato che l’art. 2233 cod. civ. pone una gerarchia di carattere preferenziale riguardo ai criteri di liquidazione del compenso spettante al professionista attribuendo rilevanza in primo luogo alla convenzione che sia intervenuta tra te parti, in difetto alla tariffe o agli usi e in ulteriore subordine rimettendone la determinazione al giudice, previo parere (non vincolante) dell’Associazione professionale. Tuttavia, le tariffe che escludono la discrezionalità del giudice nella determinazione del concreto ammontare dei compensi sono soltanto quelle fisse (cosiddette tariffe obbligatorie) dato che solo queste sono idonee ad integrare direttamente il contratto, non quelle con determinazione del massimo e del minimo, le quali hanno solo la funzione di fissare i limiti dell’autonomia privata, senza pregiudizio del potere del giudice, nel rispetto dei limiti tariffari, di fissare discrezionalmente il compenso e non quella di riservare, entro tali limiti, la determinazione della somma dovuta dal cliente al professionista medesimo (Cass. n. 9514/96).

1.2.2. – L’acquisizione del parere dell’associazione (intesa quale “ordine”) professionale, è obbligatoria soltanto nell’ambito del procedimento di ingiunzione, giusta quanto prescritto dall’art. 636 c.p.c., comma 2 in relazione all’art. 633 c.p.c., comma 1, nn. 2) e 3), quando l’ammontare del relativo credito non è determinato in base a tariffe obbligatorie. Diversamente, la necessità del parere non è in funzione del procedimento giudiziale adottato, camerale o a cognizione piena, nè dipende dal fatto che il credito sia azionato dal professionista stesso o dagli eredi di lui, ma è dettata della tipologia del corrispettivo, nel senso che è indispensabile soltanto se esso non possa essere determinato in base a tariffe, ovvero queste, pur esistenti, non siano vincolanti. Detto parere, dunque, è necessario unicamente nell’ipotesi in cui oggetto di liquidazione siano attività non rientranti nelle previsioni della tariffa professionale, per le quali la liquidazione debba avvenire per opera del giudice.

1.3. – Nello specifico, il compenso di cui si questiona riguarda delle attività di difesa in giudizio e una diffida stragiudiziale, le une e l’altra contemplate nella tariffa professionale in misura fissa, quanto ai diritti, e in misura variabile quanto agli onorari, di guisa che il giudice nella relativa liquidazione, domandata con le forme del processo di cognizione, non è affatto tenuto alla previa acquisizione del parere del Consiglio dell’Ordine degli avvocati competente.

2. – Con il secondo motivo, articolato in due punti logici, si deduce l’errore di diritto sulla valutazione dei criteri per la quantificazione dei compensi.

2.1. – Avendo il R. contestato sin dall’inizio il quantum debeatur, l’esito dei giudizi e il risultato conseguito dal cliente avrebbe dovuto essere considerati indipendentemente da una specifica deduzione al riguardo, trattandosi di uno dei criteri fondamentali in tema di tariffe.

Il fatto, poi, che i giudizi trattati dall’avv. P. siano stati conclusi da altro professionista è irrilevante. L’esito cui si fa riferimento non è costituito da una pronuncia di merito, ma di “inammissibilità per tardiva presentazione del ricorso originario”.

2.2. – Altro grave errore – sostiene il ricorrente – in cui è incorsa la Corte d’appello risiede nel non aver tenuto conto del fatto che i giudizi in questione subito dopo la morte dell’avv. P. erano stati riuniti, a conferma dell’identità soggettiva e delle questioni trattate, tale da richiederne la trattazione unitaria. Ciò posto, la soluzione corretta sarebbe stata quella prevista dalla tariffa professionale, ossia riconoscere come dovuta una sola parcella, con maggiorazione del 20% per ogni causa successiva alla prima, ovvero un’unica parcella applicando i massimi tariffari.

2.3. – Il motivo è inammissibile, in entrambe le sue articolazioni.

2.3.1. – In ordine alla prima censura, va osservato che nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o di nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, a meno che tali questioni o temi non abbiano formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello (Cass. nn. 1474/07 e 5620/06).

2.3.1.1. – Nella specie il ricorrente introduce una questione nuova, non sollevata nè altrimenti trattata nel giudizio d’appello, nel quale l’allora parte appellante si era limitata a dedurre a) l’esistenza di un previo accordo con il professionista, per regolare in via anticipata e forfetaria il compenso spettante a quest’ultimo;

b) l’erronea mancata acquisizione della documentazione esistente presso il Consiglio dell’Ordine degli avvocati; e c) la necessità di considerare per tutte le attività svolte una sola parcella, con maggiorazione del 20% per ogni causa successiva alla prima.

2.3.2. – La seconda censura difetta, invece, del requisito di autosufficienza. La giurisprudenza di questa Corte afferma che, in tema di ricorso per cassazione, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dall’art. 366 cod. proc. civ., n. 6 di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda (e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza), è necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza di detto atto processuale, si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza di documentazione dello svolgimento del processo nel suo complesso, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (Cass. a 6937/10; analogamente, Cass. n. 1707/09, secondo cui gli elementi dedotti con il ricorso, che non siano rilevabili d’ufficio, assumono rilievo in quanto siano stati ritualmente acquisiti nel dibattito processuale nella loro materiale consistenza, nella loro pregressa deduzione e nella loro processuale rilevanza, quale potenzialità probatoria che consenta di giungere ad una diversa soluzione, ed in sede di legittimità siano rievocati in modo autosufficiente).

3. – In conclusione il ricorso va respinto.

4. – Le spese del presente giudizio cassazione, liquidate come in dispositivo, vanno poste a carico della parte ricorrente.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese che liquida in Euro 1.700,00, di cui 200,00 per spese vive.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 24 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2011

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