Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2359 del 31/01/2018


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Civile Ord. Sez. 3 Num. 2359 Anno 2018
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: FRASCA RAFFAELE

ORDINANZA

sul ricorso 13158-2015 proposto da:
SCIMEMI CORRADO, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIA DELL’AMBA ARADAM 24, presso lo studio
dell’avvocato RICCARDO MARIOTTI, che lo rappresenta e
difende giusta procura speciale a margine del
ricorso;
– ricorrente contro
2017
2344

MINISTERO DIFESA 80425650589 in persona del Ministro
pro tempore, domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, da cui è difeso per legge;
– controricorrente –

1

Data pubblicazione: 31/01/2018

avverso

la

sentenza

n.

2076/2014

della

CORTE

D’APPELLO di ROMA, depositata il 28/03/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di
consiglio del 30/11/2017 dal Consigliere Dott.
RAFFAELE FRASCA;

in persona del Sostituto Procuratore generale ALBERTO
SCARDINO, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

2

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero,

R.g.n. 13158-15 (c.c. 30.11.2(17)

Rilevato che:
1. Corrado Scimemi ha proposto ricorso per cassazione contro il
Ministero della Difesa avverso la sentenza del 28 marzo 2014, con cui la
Corte d’Appello di Roma ha rigettato sia il suo appello principale sia
quello incidentale del Ministero inerente alla giurisdizione, contro la
sentenza del Tribunale di Roma del novembre del 2007, la quale aveva
rigettato la domanda, proposta da esso ricorrente nell’ottobre del 2004,

per ottenere il risarcimento dei danni da aggravamento dell’epatite B da
cui era affetto, a suo dire dovuto alla mancata diagnosi della malattia in
occasione della visita di leva militare cui era stato sottoposto nel 1972.
2. Al ricorso per cassazione, che propone tre motivi, ha resistito con
controricorso il Ministero.
3. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio ai
sensi dell’art. 380-bis.1, cod. proc. civ. e sono state depositate
conclusioni scritte dal Pubblico Ministero e una memoria dal ricorrente.

Considerato che:
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione e falsa
applicazione degli artt. 2935 c.c. e 2947 co. 1 c.c., in relazione all’art.
2043 c.c.”.
Il motivo si articola dalle ultime tre righe della pagina 9 sino alle
prime quattro della pagina 15 e, sebbene con una individuazione in
modo indiretto, cioè tramite taluni rinvii, si correla alla motivazione con
cui la sentenza impugnata ha ritenuto che l’azione fosse stata esercitata
quando il relativo diritto si doveva reputare prescritto, così
disattendendo il primo motivo dell’appello dello Scimemi.
La motivazione in questione ha avuto il seguente tenore: «In
merito alla decorrenza del periodo di prescrizione, la giurisprudenza è
concorde nel ritenere che, nell’ambito dei c.d. danno lungo-latenti da
malattia, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento inizia a
decorrere, a norma dell’articolo 2147, comma primo, cod. civ., non dal
momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno
all’altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno,

241 15
Est. C ns. Raffaele Frasca

R.g.n. 13158-15 (c.c. 30.11.2017)

ma dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere
percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o
colposo di un terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto della
diffusione delle conoscenze scientifiche (Cass. Sez. Un. Civ. n. 581/

2011[rectius: 2008]). È stato precisato, inoltre, che in materia di diritto
al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, qualora si tratti di
un illecito che, dopo un primo evento lesivo, determina ulteriori

conseguenze pregiudizievoli, il termine di prescrizione dell’azione
risarcitoria per il danno inerente a tali ulteriori conseguenze decorre dal
verificarsi delle medesime solo se queste ultime non costituiscono un
mero sviluppo e un aggravamento del danno già insorto, bensì la
manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella
manifestatasi con l’esaurimento dell’azione del responsabile (Cass. Sez.
Un. Civ. n. 580/2008). Nel caso di specie, proprio l’appellante ha
ricordato di essere stato ricoverato già nel 1962 a causa di “epatite in

evoluzione verso la cirrosi”; di aver avuto nel 1963 diagnosi di “epatite
cronica post epatica”; di essere stato chiamato al servizio di leva nel
1972 e di essere stato ricoverato più volte, dapprima all’ospedale
militare di Chieti in data 11.1.1973 e, successivamente, all’Ospedale
militare di Roma, in data 15.2.1973; di essere stato ricoverato altre tre
volte a distanza di pochi mesi, fino al congedo definitivo per fine ferma
avvenuta il 31.8.1973. Inoltre, l’appellante ha ricordato che, a distanza
di circa tredici anni dall’ultimo ricovero ed a seguito dell’insorgenza di
malesseri, nel 1986 era stato nuovamente ricoverato presso il Policlinico
Umberto I di Roma e gli era stata riscontrata “cirrosi epatica già in fase

di scompenso”, mentre nel 1990 gli era stata per ultimo diagnosticata la
irreversibilità della patologia di cui soffriva. Ebbene, alla luce dei
suddetti avvenimenti e tenuto conto che l’ultima diagnosi della malattia,
avvenuta nel 1986, certificava un aggravamento della patologia già
presente prima e durante il servizio di leva svolto nel 1973, si desume
che l’appellante già a decorrere dal 1986 avrebbe potuto, usando
l’ordinaria diligenza, rendersi conto della sussistenza di quella ragione
3
Est. Con Raffaele Frasca

R.g.n. 13158-15 (c.c. 30.11.2017)

che egli stesso ha posto alla base della domanda giudiziale, cioè della
pretesa correlazione tra l’omessa diagnosi e l’aggravamento della
malattia. In altri termini, fu lo stesso attore a dichiarare, già nell’atto
introduttivo del giudizio di primo gado di aver fatto presente agli organi
dell’amministrazione militare la patologia da cui era affetto. Fu lo stesso
appellante, inoltre, ad affermare di aver condotto una vita regolare e
tranquilla fino al novembre del 1985, dato del suo ricovero per grave

astenia presso l’ospedale di Civitavecchia, cui era seguito nel 1986 il
trasferimento presso il Policlinico Umberto I di Roma. Orbene, proprio la
ricomparsa della malattia a distanza di circa 13 anni avrebbe dovuto
ingenerare, in una persona di media diligenza, la consapevolezza della
correlazione che – sempre secondo le tesi dell’appellante – sarebbe
esistita tra la sua situazione di salute e la mancata diagnosi in sede
militare. Pertanto, tenuto conto che il periodo di prescrizione
quinquennale – vertendosi in materia risarcitoria – deve ritenersi
ricorrente in epoca non successiva all’anno 1986, e che l’atto di
citazione venne notificato solo il 12.10.2004, risulta ampiamente
prescritto il termine utile per far valere il diritto al risarcimento del
danno».
1.1. La critica svolta nel motivo, dopo una serie di considerazioni
relative a quanto accertato dalla c.t.u. e dalla c.t.p., viene
effettivamente enunciata a partire dalla pagina 13 nei seguenti termini:
«Nell’impugnata sentenza […] sono falsamente applicati o, comunque
violati gli artt. 2935 e 2947 co. 1 c.c., laddove la Corte d’Appello ritiene
che lo Scimemi, al momento degli accertamenti con ricovero dal
21.11.1985 al 30.11.1985 presso l’Ospedale di Civitavecchia (v. all. 6
dei documenti del fascicolo di parte depositato in primo grado) e dal
21.12.1985 al 13.1.1986 presso l’Ospedale Umberto I di Roma (v. all. 6
dei documenti del fascicolo di parte attrice depositato in primo grado) o all’esito degli stessi – avrebbe dovuto avere chiara la percezione che il
ripresentarsi, precoce e in forma aggravata, della malattia fosse
causato/concausato dall’erronea diagnosi e dall’erroneo giudizio reso dai
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Est. Cons. F4affaele Frasca

R.g.n. 13158-15 (c.c. 30.11.2017)

medici militari negli anni 1972/1973 nonché dal conseguente suo
mancato esonero e/o congedo anticipato e che tale negligente
comportamento dei medici militari, compresa la mancanza di idonea
diagnosi e di percezione, abbia costituito errore colposo professionale
risarcibile. Peraltro, non è affatto vero quanto indicato dalla sentenza
impugnata, ossia che “l’ultima diagnosi della malattia, avvenuta nel

1986, certificava un aggravamento della patologia già presente prima e

durante il servizio di leva svolto nel 1973” (pag. 6 della sentenza): nella
documentazione medica depositata in atti da parte attrice non vi è
alcuna certificazione siffatta; si verifichi l’ali. 7 dei documenti depositati
in primo grado (cartella clinica relativa al ricovero presso l’Ospedale
Umberto I di Roma al 21.12.1985 al 13.1.1986): la diagnosi finale di
Ospedale recita “cirrosi epatica in fase di iniziale scompenso, HbsAg

positivo”. Non vi è alcuna certificazione attestante “un aggravamento
della patologia già presente prima e durante il servizio di leva svolto nel
1973”, tanto meno nei termini necessari ai fini che ci occupano, ossia
nei termini di una evoluzione più grave (nel tempo nell’intensità)
rispetto a ciò che, secondo i medici legali Dott.ssa Corsi e Dott.
Manduca, è il processo evolutivo “normale” della patologia. Lo stesso
può dirsi con riferimento anche all’altra documentazione medica del
1986 agli atti, depositata come all. 8 dei documenti del fascicolo di parte
attrice in primo grado, relativa al ricovero dello Scimemi dal 25.8.1986
al 4.9.1986 presso l’Ospedale Maggiore di Milano (la successiva
documentazione del 1986 e attinente al

10 trapianto di fegato, cui

hanno fatto seguito i successivi controlli e complicazione sino al 2°
trapianto di fegato nel 1190). L’analisi sintetica del contenuto dell’ampia
documentazione medica in atti è presente nella relazione del CTU (pagg.
3-13). Il comportamento colposo dei medici militari all’atto della leva e
durante il servizio militare dello Scimemi ha operato come elemento
concausale “aggravante” dell’evoluzione della malattia del medesimo.
Non vi è alcun elemento agli atti che possa far ritenere (o fondatamente
ritenere), di contro a quanto – erroneamente – ritenuto nell’impugnata
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Est. Cons. Raffaele Frasca

R.g.n. 13158-15 (c.c. 30.11.2017)

sentenza della Corte d’Appello di Roma, che lo Scimemi, nell’anno 1986
(al momento della diagnosi di dimissioni dal Policlinico Umberto I dopo il
ricovero o anche successivamente in tale anno) avesse la dovuta
consapevolezza che la sua salute avesse subito un danno, in termini di
aggravamento, a causa della condotta dei medici militari negli anni
1972/1973 e che tale condotta fosse colpevole e risarcibile (in altri
termini, secondo il principio indicato dagli Ermellini con la citata

sentenza Sezioni Unite n. 580/2008, che l’attuale ricorrente nell’anno
1986 fosse in grado di percepire la propria malattia, in termini di
aggravamento rispetto alla sua “normale” evoluzione, “quale danno
ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo dei medici
militari). Né vale a far ritenere il contrario il richiamo, contenuto nella
sentenza impugnata, all’ordinaria diligenza (pag. 6 della sentenza).
Nessun uomo comune, quale lo Scimemi, privo di conoscenze specifiche
e specialistiche in materia, avrebbe potuto comprendere nell’anno 1986,
sulla base di quanto risulta in atti (documentazione medica), facendo
ricorso solo all’ordinaria diligenza e pur tenendo conto della diffusione
delle conoscenze scientifiche, che le manifestazioni della patologia in
tale anno costituissero un “danno ingiusto”, in termini di aggravamento,
“conseguente al comportamento colposo dei medici militari al momento
della visita di leva nell’anno 1972 durante il servizio militare negli anni
1972-73. Non vi sono elementi sufficienti agli atti che possano far
ritenere la sussistenza nell’anno 1986 di tutti i requisiti necessari
affinché nel caso de quo, ai sensi dell’art. 2935 c.c. e dell’art. 2947
comma 1 c.c., secondo l’interpretazione in materia di danni lungo-latenti
fatta da codesta Suprema Corte, lo Scimemi o, comunque, un uomo
comune, usando solo l’ordinaria diligenza, potesse avere chiara
consapevolezza del proprio diritto al risarcimento dei danni, in virtù del
nesso eziologico che avrebbe dovuto percepire esistente, in termini di
danno da aggravamento, tra la patologia come accertata e diagnosticata
in tale anno e l’operato dei medici militari negli anni 1972/73, e, in
particolare, fosse in grado di ritenere l’operato dei medici, al momento
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ons. Raffaele Frasca

R.g.n. 13158-15 (c.c. 30.11.2017)

della visita di leva e in occasione dei controlli/ricoveri durante il servizio
militare, quale errore professionale (o, comunque, comportamento
colposo) potenzialmente lesivo, e fosse in grado di percepire il
collegamento tra tale operato/errore e la nuova manifestazione,
aggravata, della malattia in termini di conseguenze dannose (da
aggravamento), risarcibile. Senza considerare che la diagnosi di
“irreversibilità” – o comunque di non guaribilità – della patologia si è

avuta solo nel 2004 (v. certificato del Prof. Fassati del 19.6.2004). E
l’onere della prova del dies a quo della (eventuale) percezione è a carico
di chi sollevi l’eccezione (Cass. sent. n. 2797 del 6.2.2008)..
1.2. Il Collegio rileva che è palese che la critica qui riprodotta si
fonda sul contenuto di una serie di documenti, ma, pur indicando dove
sarebbero prodotti, con riferimento al fascicolo di parte depositato in
primo grado, che viene indicato, poi, come prodotto in chiusura del
ricorso, si astiene dal riprodurre direttamente il loro contenuto per la
parte che sarebbe d’interesse o dal riprodurlo indirettamente con
indicazione della parte del documento in cui l’indiretta riproduzione
troverebbe riscontro.
Ed anzi rinvia genericamente ad una «analisi sintetica» presente
nella c.t.u., alla quale si è fatto – prima della parte di motivazione
riprodotta – riferimento (come alla c.t.p.), ma senza indicare se e dove
essa sarebbe esaminabile in questo giudizio di legittimità (in particolare,
come imponeva l’art. 366, n. 6 cod. proc. civ., non si dice se essa sia
stata prodotta e dove e non si fa neppure riferimento, per il caso di
mancata produzione, ad una presenza nel fascicolo d’ufficio del giudizio
di appello, come ammette Cass., Sez. Un. n. 22726 del 2011).
In tal modo il motivo risulta violare il requisito di cui all’art. 366 n. 6
cod. proc. civ., inerente all’onere di indicazione specifica dei documenti
su cui il ricorso si fonda.
L’asserto che nella documentazione in atti non risultava una diagnosi
certificante un aggravamento della malattia rasenta, poi, il contenuto di
un errore revocatorio, che avrebbe dovuto denunciarsi ai sensi dell’art.
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Est. ons. Raffaele Frasca

R.g.n. 13158-15 (c.c. 30.11.2017)

395 n. 4 cod. proc. civ. contro la sentenza qui impugnata, mentre
l’asserto che non vi era una certificazione attestante nei termini di una
evoluzione più grave della malattia rispetto al suo normale processo
evolutivo non solo contraddice l’asserto precedente, ma è anch’esso
dedotto in violazione dell’art. 366 n. 6 , atteso che si omette, a parte la
localizzazione dei due atti, l’indicazione del contenuto cui si fa
riferimento.

1.3. Il motivo, in secondo luogo, là dove vorrebbe individuare un
vizio di sussunzione per falsa applicazione degli artt. 2935 e 2947 c.c.,
non lo fa, come sarebbe stato necessario, assumendo una ricostruzione
della quaestio facti nel senso indicato dalla sentenza impugnata, ma, in
realtà, sollecita una ricostruzione della stessa in senso diverso, sicché
sotto le mentite spoglie della denuncia di una falsa applicazione, postula
una diversa ricostruzione del fatto e, dunque, l’insufficienza della
motivazione della sentenza impugnata, del tutto al di fuori della logica in
cui sarebbe stata possibile secondo il paradigma che è relativo a quella
ricostruzione, cioè il n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., nei confini che gli
hanno assegnato Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014.
2. Con un secondo motivo viene prospettata “violazione e/o falsa
applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2938 c.c.”.
Contrariamente a quanto pare avere opinato il Pubblico Ministero,
ancorché si alluda ad una sua deduzione tardiva in primo grado, il
motivo non argomenta alcuna censura alla motivazione della sentenza
impugnata, là dove essa ha affermato che: «A nulla vale quanto
rilevato dall’appellante, secondo il quale il Tribunale avrebbe errato nel
non rilevare che il Ministero non avrebbe potuto eccepire la prescrizione,
perché sarebbe decaduto dal relativo diritto, in quanto costituitosi
tardivamente. Tale doglianza è inammissibile, perché non proposta con
l’atto di appello. Essa non potrebbe essere considerata ora senza violare
il principio di diritto

tantum devolutum quantum appellatum,

pacificamente sancito per regolare l’estensione dei poteri del giudice nel
giudizio d’appello.».
8
Est. Co s. Raffaele Frasca

R.g.n. 13158-15 (c.c. 30.11.2017)

Si duole invece che, essendo stato dedotto nella citazione in appello
che «faceva carico all’Amministrazione della Difesa, che ha eccepito la
prescrizione del diritto azionato, indicare in maniera chiara e precisa il
fatto costitutivo dell’eccezione e, ai fini del computo dell’utile tempo a
prescrivere, la data di inizio del termine prescrizionale; quindi, fornire
argomentazione logico-giuridiche atte a provare e a far ritenere la
sussistenza di tutti gli elementi atti a ritenere decorrente, a tale data, il

periodo prescrizionale.», la sentenza impugnata avrebbe proceduto,
come, del resto, aveva fatto il Tribunale in primo grado, ad individuare il
termine indiziale del decorso della prescrizione.
2.1. Il motivo è privo di fondamento, in quanto nell’esposizione del
fatto si riferisce (pag. 5) che il Ministero aveva dedotto la prescrizione
facendo riferimento alla circostanza che i fatti risalivano al lontano 1973
e, dunque, indicando a torto o a ragione – come dies a quo l’epoca della
sottoposizione alla visita militare. Lo stabilire in concreto quale fosse il

dies a quo, una volta introdotta l’eccezione, ineriva alla valutazione da
compiersi sulla sua fondatezza in iure, sebbene al lume delle risultanze
fattuali emerse nel giudizio.
Sicché, non è nemmeno necessario fare riferimento al principio di
diritto secondo cui: «L’eccezione di prescrizione è validamente
proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, ossia
l’inerzia del titolare, senza che rilevi l’erronea individuazione del termine
applicabile, ovvero del momento iniziale o finale di esso, trattandosi di
questione di diritto sulla quale il giudice non è vincolato dalle allegazioni
di parte.» (da ultimo Cass. n. 15631 del 2016).
Il motivo è, pertanto, infondato.
3. Il terzo motivo denuncia “violazione e/o falsa applicazione dell’art.
112 c.p.c. in relazione agli artt. 61 co. 1 c.p.c., 116 co. 1, c.p.c. e 195
c.p.c.”.
Vi si lamenta che il giudice d’appello non abbia pronunciato
sull’impugnazione che era stata prospettata con il secondo motivo
quanto alla sentenza di primo grado, là dove essa, dopo avere ritenuto
9
Est. C ns. Raffaele Frasca

R.g.n. 13158-15 (c.c. 30.11.2017)

prescritto il diritto fatto valere, aveva anche negato la sua fondatezza
per ulteriori ragioni di merito.
3.1. Il motivo è privo di fondamento.
Avendo ribadito la ragione di rigetto della domanda per prescrizione,
è palese che la corte territoriale è rimasta silente sul secondo motivo,
perché il suo scrutinio era inutile, onde l’ha implicitamente ritenuto

4. Il ricorso è, dunque, rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si
liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n. 55 del 2014. Ai sensi dell’art.
13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto
per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione al
resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro
duemilatrecento, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13
comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza
dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto
per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione
Civile, il 30 novembre 2017.

assorbito.

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