Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23576 del 11/11/2011

Cassazione civile sez. III, 11/11/2011, (ud. 14/10/2011, dep. 11/11/2011), n.23576

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 29182/2008 proposto da:

B.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA LAURA MANTEGAZZA 24, presso lo studio dell’avvocato LUIGI

GARDIN, rappresentato e difeso dall’avvocato DI MATTIA Gianfranco

giusto mandato in atti;

– ricorrente –

contro

UNIVERSITA’ STUDI PARMA;

– intimato –

nonchè da:

UNIVERSITA’ STUDI PARMA in persona del Rettore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende per

legge;

– ricorrente incidentale –

e contro

B.A. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 1258/2007 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 06/12/2007 R.G.N. 1047/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/10/2011 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato GIANFRANCO DI MATTIA;

udito l’Avvocato BEATRICE FIDUCCIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso con la cassazione senza rinvio del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p. 1. B.A. ha proposto ricorso per cassazione contro l’Università degli Studi di Parma avverso la sentenza del 6 dicembre 2007, con la quale la Corte d’Appello di Bari ha rigettato l’appello da lui proposto avverso la sentenza resa in primo grado inter partes dal Tribunale di Foggia, che aveva rigettato la domanda da lui proposta contro l’intimata nel marzo del 2001 per sentirla condannare alla corresponsione della borsa di studio, in relazione alla frequenza, fino alla consecuzione del relativo diploma, del corso di specializzazione in geriatria e gerontologia nel quadriennio dal 1985 al 1989.

A sostegno della domanda il B. aveva dedotto che il detto D.Lgs., nel recepire tardivamente le direttive comunitarie CEE 75/362/CEE, 75/363/CEE e 82/76/CEE, rimaste inadempiute a far tempo dal 31 dicembre 1982, aveva illegittimamente limitato l’applicazione della remunerazione ai medici ammessi ai corsi di specializzazione successivi al 1991.

Il Tribunale rigettava la domanda, sia per l’impossibilità di una applicazione in via retroattiva della disciplina del D.Lgs. n. 257 del 1991, sia per la mancata dimostrazione in base alla documentazione prodotta della frequenza del corso di specializzazione a tempo pieno o a tempo ridotto.

La Corte territoriale, pur ravvisando ragioni per disattendere la prima motivazione del Tribunale ha sostanzialmente condiviso la seconda.

p. 2. Al ricorso ha resistito con controricorso e ricorso incidentale l’Università.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Ha anche depositato note di udienza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p. 1. Preliminarmente il ricorso incidentale va riunito a quello principale in seno al quale è stato proposto.

p. 2. Il controricorso e, quindi, il ricorso incidentale dell’Università resistente appaiono tempestivi, perchè la notificazione del ricorso principale valida non è quella presso l’Avvocatura Generale dello Stato, ma quella diretta all’Università, che in appello era rimasta contumace (si veda Cass. n. 20582 del 2008, la quale ha così statuito: “Alle università, dopo la riforma introdotta dalla L. 9 maggio 1989, n. 168, non può essere riconosciuta la qualità di organi dello Stato, ma quella di enti pubblici autonomi, con la conseguenza che, ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato, non opera il patrocinio obbligatorio disciplinato dal R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, artt. da 1 a 11, bensì, in virtù del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, art. 56, non abrogato dalla L. n. 168 del 1989, il patrocinio autorizzato disciplinato dal R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, come modificato dalla L. 3 aprile 1979, n. 103, art. 11 e art. 45 R.D. cit., con i limitati effetti previsti per tale forma di rappresentanza: esclusione della necessità del mandato e facoltà, salvo i casi di conflitto, di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato con apposita e motivata delibera. Sono conseguentemente inapplicabili le disposizioni sul foro erariale e sulla domiciliazione presso l’Avvocatura ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali, salvo – quanto alle notificazioni – alle controversie in materia di lavoro, attesa l’equiparazione alle amministrazioni statali ai fini della rappresentanza e difesa dell’Avvocatura dello Stato ai sensi dell’art. 415 cod. proc. civ., comma 7”).

La notifica diretta all’Università (a differenza di quella fatta all’Avvocatura, perfezionatasi il 10 dicembre 2008) è avvenuta il 12 dicembre 2008 a mezzo posta ed il controricorso e ricorso incidentale sono stati notificati, dal punto di vista della notificante qui resistente, il 21 gennaio 2009 a mezzo posta e, quindi, nel rispetto dell’art. 370 c.p.c., comma 1.

p. 3. I sei motivi sui quali si fonda il ricorso principale, alcuni deducenti vizi di violazione di norme di diritto o del procedimento, altri vizi di motivazione, riguardano tutti la motivazione con cui la Corte territoriale – pur dissentendo dal Tribunale circa la possibilità di riconoscere il beneficio richiesto o comunque una remunerazione al ricorrente o in forza della retroattiva applicazione del D.Lgs. n. 257 del 1991 o in via risarcitoria dell’inadempimento statuale alle direttive comunitarie – ha confermato il rigetto della domanda per non avere il ricorrente provato di avere frequentato il corso di specializzazione con modalità tali da comportare un impegno a tempo pieno o almeno parziale e di non avere svolto altre attività fonte di reddito.

L’unico motivo del ricorso incidentale dell’Università, viceversa, sostiene l’erroneità dell’affermazione della Corte territoriale circa la possibilità dell’estensione dell’applicazione del D.Lgs. n. 257 del 1991.

p. 4. Il Collegio ritiene che non sia necessario procedere all’esame dei motivi sui quali si fonda il ricorso principale e nemmeno di quello su cui si fonda l’incidentale, perchè – come evidenziato dal relatore nella relazione in pubblica udienza – sussiste una situazione nella quale, senza necessità alcuna di accertamenti di fatto, si palesa che in base all’esatta qualificazione dei fatti posti a base della domanda il diritto fatto valere dal ricorrente sulla base di essi, considerato sulla base della stessa fattispecie giuridica astratta al quale è riconducibile, non sussiste nei confronti dell’Università resistente, ma si sarebbe dovuto far valere verso altro legittimato passivo, costituito dallo Stato italiano. Di modo che si configura una situazione nella quale, non sussistendo la legittimazione sostanziale passiva dell’Università, cioè la titolarità passiva della situazione giuridica soggettiva fatta valere con la domanda, quest’ultima non poteva essere proposta nei suoi confronti.

Queste le ragioni.

p. 4.1. Questa Sezione della Corte ha di recente affrontato la questione della configurazione che i medici che avevano frequentato corsi di specializzazione iniziandoli successivamente al 31 dicembre 1982 e anteriormente all’anno 1991-1992 così posta dal motivo con le sentenze (sostanzialmente gemelle) nn. 10813, 10814, 10815 e 10816 del 2011 ed intende dare continuità ai principi con esse affermati, peraltro seguiti dalle altre sentenze su questioni simili successivamente depositate e relative a ricorsi decisi nella stessa udienza del 18 aprile 2011.

Nelle dette decisioni si è anzitutto inteso dare continuità all’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte, di cui a Cass. sez. un. n. 9147 del 2009, circa l’esatta qualificazione e natura normativamente possibile riguardo all’azione esercitata per pretese come quella del ricorrente e circa il termine di prescrizione applicabile. Tale insegnamento, sopravvenuto alla sentenza impugnata e, quindi, non potuto considerare da essa, ha espresso il seguente principio di diritto: “In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, non autoesecutive, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi) sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto – anche a prescindere dall’esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria – allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all’adempimento di una obbligazione ex lege riconducibile all’area della responsabilità contrattuale, all’ordinario termine decennale di prescrizione”.

In particolare, le citate sentenze di questa Sezione hanno precisato che “il concetto di responsabilità contrattuale è stato usato dalle Sezioni Unite palesemente nel senso non già di responsabilità che suppone un contratto, ma nel senso – comune alla dottrina in contrapposizione all’obbligazione da illecito extracontrattuale – di responsabilità che nasce dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, considerato dall’ordinamento interno, per come esso deve atteggiarsi secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, come fonte dell’obbligo risarcitorio, secondo la prospettiva scritta nell’art. 1173 c.c.”.

Ora, come già questa Sezione ha osservato nella sentenza n. 10813 del 2011, sulla falsariga di quanto aveva ritenuto possibile già proprio dalla citata sentenza delle Sezioni Unite, in questa sede si deve procedere alla sostituzione della qualificazione della domanda in iure corretta ed adeguata al contenuto sostanziale della domanda proposta dal ricorrente. Il che è possibile in questa sede, perchè i fatti storici posti a base della domanda ed il petitum di essa e, dunque, il bisogno di tutela giurisdizionale che ha determinato la controversia (rappresentato dal riconoscimento di quanto si sarebbe dovuto conseguire nel caso di adempimento delle direttive in modo che anche la posizione del ricorrente fosse stata contemplata, mentre il quantum invocato e le sue modalità di determinazione non rappresentano certo elementi individuatori del petitum, bensì elementi che individuano solo possibili modalità della sua soddisfazione), non mutano in alcun modo, ma sono soltanto ricondotti da questa Corte al loro corretto referente normativo astratto, nell’esercizio della mera attività di qualificazione in diritto della vicenda e segnatamente della domanda.

Ebbene, una volta qualificato il diritto fatto valere dal ricorrente nel modo indicato dalle Sezioni Unite e condiviso dalla giurisprudenza di questa Sezione, si ha che alla stregua di tale qualificazione, che corrisponde all’unico diritto configurabile in relazione alla vicenda concreta giudicata, la legittimazione passiva in senso sostanziale all’azione di risarcimento danni basata sull’obbligo insorto per effetto dell’inadempimento statuale quale altro fatto rilevante ai sensi dell’art. 1173 c.c., compete allo Stato Italiano e non, nemmeno concorrentemente, alle Università presso le quali la specializzazione venne acquisita. Al riguardo, proprio nella logica di qualificazione della domanda seguita dalle Sezioni Unite questa Corte si è già pronunciata in questo senso con la sentenza n. 22440 del 2009, alla quale è sufficiente rinviare. E sulla base di quest’ultima la sentenza n. 10814 del 2011, scrutinando uno specifico motivo di ricorso incidentale per cassazione di un’università, tendente a sostenere il difetto di legittimazione passiva, lo ha accolto.

p. 5. Ora, nel presente giudizio l’Università non ha svolto una contestazione riguardo alla sua legittimazione passiva in senso sostanziale in ture con riferimento all’esatta qualificazione della fattispecie astratta cui la vicenda è riconducitele. Non ha cioè dedotto che l’ordinamento non prevede a livello di fattispecie normativa astratta che la pretesa fatta valere dal ricorrente si configuri nei confronti delle università. L’assenza di tale contestazione non è, però, di ostacolo alla rilevazione d’ufficio di tale mancata previsione in questa sede di legittimità.

Invero, la questione di difetto della legittimazione attiva o passiva secondo Io schema normativo astratto al quale si riconduce il diritto fatto valere in giudizio è questione che, pur essendo decisiva per l’esistenza della titolarità attiva o passiva di tale diritto e, quindi, afferendo in senso lato al “merito”, è rilevabile anche in sede di legittimità, con il solo doppio limite: a) che non si sia formata sulla sua esistenza la cosa giudicata interna, per essere stato il punto ad essa relativo oggetto di discussione e decisione e per essere rimasta quest’ultima priva di impugnazione; b) che la questione emerga sulla base dei fatti per come legittimamente prospettati davanti alla Corte di cassazione, cioè nel rispetto dei limiti entro i quali deve contenersi l’attività deduttiva delle parti negli atti introduttivi del giudizio di cassazione.

In presenza di queste due condizioni, la rilevazione da parte della Corte che la fattispecie normativa alla quale va ricondotto il diritto oggetto del giudizio non giustifica essa stessa su un piano astratto, cioè proprio secondo il paradigma previsto dalle norme regolatrici, l’individuazione dell’attore o del convenuto come soggetti attivo e passivo del diritto stesso, perchè essi non appartengono alla categoria soggettiva cui a fattispecie riferisce la legittimazione, rappresenta esercizio da parte della Corte del potere di individuazione dell’esatto diritto applicabile e, quindi, è attività di rilevazione di una quaestio iuris inerente l’astratta riferibilità sul piano normativo, cioè secondo lo schema normativo regolatore del diritto oggetto del giudizio, a colui dal quale o contro il quale è stato esercitato.

Si tratta di un’attività di rilevazione che in questo caso si estrinseca esclusivamente sulla base del confronto fra le categorie dei soggetti contemplati dalla fattispecie normativa astratta e le parti che stanno in giudizio. Da tale confronto emerge che uno di essi non è riconducibile alla categoria soggettiva astratta individuata dalla fattispecie normativa. Onde non si tratta di verificare se la fattispecie astratta trova riscontro nel caso concreto e, quindi, di accertare se i fatti per come pervenuti davanti alla Corte, evidenziano quella verificazione. Peraltro anche una simile verifica, ove non involgesse alcun accertamento di fatto estraneo alla logica del giudizio di cassazione, ma soltanto la rilevazione che la fattispecie concreta come pervenuta davanti alla Corte per il tramite degli atti introdottivi e della stessa decisione impugnata non è riconducibile sotto il profilo soggettivo alla fattispecie astratta alla quale è stata ricondotta e nel cui presupposto risulta articolato il motivo di ricorso per cassazione con cui la Corte è stata investita, sarebbe attività consentita alla Corte (sempre con i due limiti innanzi indicati).

p. 5.1. Il Collegio non ignora che nell’uno come nell’altro caso ciò che viene in rilievo è l’esistenza del diritto sotto l’aspetto della titolarità, nel primo caso perchè la stessa norma regolatrice della fattispecie attribuisce il diritto ad una categoria di soggetti o contro una categoria di soggetti alla cui figura è estraneo il soggetto attivo o passivo, nel secondo caso perchè, pur essendo tale soggetto riconducibile alla categoria di soggetti contemplata dalla fattispecie astratta, in concreto a suo favore o nei suoi confronti i fatti per come pervenuti in cassazione nei limiti segnati alle attività che le parti possono svolgere negli atti introduttivi del relativo giudizio, palesano che la fattispecie astratta non si è, in realtà, verificata a favore o contro il soggetto stesso.

Ed il Collegio è, altresì, consapevole che una consistente giurisprudenza di questa Corte sottolinea sovente che la questione della titolarità del rapporto dedotto in giudizio è questione di “merito” non rilevabile d’ufficio in sede di legittimità.

5.2. Senonchè, questa giurisprudenza, in realtà, fa queste affermazioni con riguardo ad ipotesi nelle quali la prospettazione della questione di legitimatio ad causam in sede di legittimità avviene ad iniziativa della parte resistente in cassazione, ma sulla base della introduzione di fatti nuovi, in precedenza non dedotti nel giudizio di merito entro i termini di preclusione previsti, e, quindi, a maggior ragione non introducibili nel giudizio di legittimità, oppure addirittura di fatti rilevabili solo ad eccezione di parte: si riferisce, dunque, innanzitutto alla seconda delle due ipotesi appena indicate e non al caso nel quale, alla stregua della stessa fattispecie normativa astratta prospettata, difetta la legittimazione.

Si vedano, a titolo di esempio: Cass. n. 14177 del 2011 (secondo la quale: “La legittimazione ad agire costituisce una condizione dell’azione diretta all’ottenimento, da parte del giudice, di una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione, prescindendo, quindi, dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa che si riferisce al merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza. Ne consegue che, a differenza della legitimatio ad causam (il cui eventuale difetto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio), intesa come il diritto potestativo di ottenere dal giudice, in base alla sola allegazione di parte, una decisione di merito, favorevole o sfavorevole, l’eccezione relativa alla concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, attenendo al merito, non è rilevabile d’ufficio, ma è affidata alla disponibilità delle parti e, dunque, deve essere tempestivamente formulata. (Nella specie, la S.C. ha escluso che potesse rilevare come questione di legittimazione ad causam la deduzione, mai effettuata in precedenza dal ricorrente nel corso del giudizio di divisione, dell’avvenuta cessione della quota indivisa dei beni ereditati, da farsi valere, invece, nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte)”; Cass. n. 11824 del 2010; Cass. n. 2049 del 2000 (secondo la quale: “La legittimazione ad causam consiste nella titolarità del potere e del dovere – rispettivamente per la legittimazione attiva e per quella passiva – di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, secondo la prospettazione offerta dall’attore, indipendentemente dalla effettiva titolarità, dal lato attivo o passivo, del rapporto stesso. Quando, invece, le parti controvertono sulla effettiva titolarità, in capo al convenuto, della situazione dedotta in giudizio, ossia sull’accertamento di una situazione di fatto favorevole all’accoglimento o al rigetto della domanda attrice, la relativa questione non attiene, alla legitimatio ad causam, ma al merito della controversia, con la conseguenza che il difetto di titolarità deve essere provato da chi lo eccepisce e deve formare oggetto di specifica e tempestiva deduzione in sede di merito. Al contrario il difetto di legittimazione ad causam deve essere oggetto di verifica, preliminare al merito,da parte del giudice, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio”); Cass. n. 20819 del 2006; Cass. n. 13403 del 2005 (secondo cui: “La legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento. Da essa va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito alcun esame d’ufficio, poichè la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Fondandosi, quindi, la legittimazione ad agire o a contraddire, quale condizione all’azione, sulla mera allegazione fatta in domanda, una concreta ed autonoma questione intorno ad essa si delinea solo quando l’attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretenda di ottenere una pronunzia contro il convenuto pur deducendone la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso. (Nella specie la S.C. ha ritenuto che trattavasi di questione non attinente alla dedotta legitimatio ad causarti bensì concernente l’accertamento in concreto dell’effettiva titolarità del rapporto fatto valere in giudizio, sostenendo la ricorrente essere di proprietà pubblica e non appartenente alla titolarità della controricorrente e di una delle intimate gli immobili oggetti del contratto di locazione di cui si discuteva in causa)”); Cass. n. 14468 del 2008 (secondo la quale. “La legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento. Da essa va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito l’esame d’ufficio, poichè la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. (Nella specie, la S.C., rigettando il ricorso avverso la sentenza impugnata, ha ritenuto sufficiente, ai fini della legittimazione passiva dei convenuti, che nella domanda attorea essi fossero indicati quali autori di illeciti anticoncorrenziali rientranti nella previsione della disciplina dettata dalla L. n. 287 del 1990, la quale regola le azioni di nullità e di risarcimento dei danni nascenti dall’illecito anticoncorrenziale, attenendo invece al merito la questione se gli stessi convenuti fossero in concreto esonerati dall’applicazione della normativa antitrust per avere agito nell’ambito di una delle ipotesi di esenzione disciplinate dalla legge)”); Cass. n. 355 del 2008.

In queste decisioni il riferimento eccettuativo al caso del riscontro dell’esistenza della legittimazione “esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione”, evidenzia che esse non si discostano dai principi sopra affermati a proposito del caso nel quale la stessa fattispecie normativa prospettata evidenzi che il soggetto attore o il soggetto convenuto non sono ad essa riconducibili. Dette decisioni concernono invece ipotesi nelle quali la pretesa di ridiscutere in sede di legittimità la titolarità del rapporto si sorreggeva sulla negazione della titolarità in concreto e, quindi, della riconducibilità della posizione del soggetto attivo o passivo ad una fattispecie concreta di verificazione della fattispecie astratta dedotta in giudizio. Non solo: tale pretesa si basava – come conferma anche la lettura delle decisioni – sulla deduzione di circostanze di fatto non emergenti in sede di legittimità, come fa manifesto il riferimento all’onere probatorio o deduttivo o all’eccezione o al “formare oggetto di specifica e tempestiva deduzione in sede di merito verificabili”. E dunque l’affermazione che la questione della legitimatio non è suscettibile di rilievo d’ufficio è, in realtà, giustificata dal divieto di introducibilità di fatti nuovi o dello svolgimento di un’attività di contestazione di fatti prima rimasti incontestati nelle fasi di merito, connaturato alle preclusioni formatesi nelle fasi di merito e determinativa dei limiti del potere di allegazione nel giudizio di legittimità. Là dove, invece, fermo il limite del giudicato interno, la contestazione dell’efficacia giuridica dei fatti storici acquisiti nel giudizio di merito sulla base di meri ragionamenti in ture rimane, invece, attività meramente argomentativa e, quindi, consentita alle parti, non diversamente da come la qualificazione degli stessi è possibile per la Corte.

p. 5.3. L’affermazione che il difetto di legitimatio ad causarti, sia intesa – per quello che qui interessa – come titolarità attiva o passiva in astratto del diritto fatto valere con l’atto introduttivo del giudizio, sia nel senso della titolarità in concreto, possa essere rilevato d’ufficio in sede di legittimità, d’altro canto, non trova ostacolo nei limiti entro i quali il giudizio di cassazione si deve svolgere quale giudizio introdotto da un mezzo impugnazione a motivi limitati, perchè, una volta che il mezzo di impugnazione sia stato introdotto attraverso la prospettazione di un motivo di impugnazione esperibile, l’unica circostanza che potrebbe precludere alla Corte di cassazione il rilievo del difetto di legittimazione si può rinvenire nella circostanza che la relativa questione sia rimasta coperta da cosa giudicata interna.

Ciò, tuttavia, può avvenire solo se nel giudizio di merito il punto relativo alla legittimazione intesa nei sensi indicati sia stato deciso e non vi sia stata al riguardo impugnazione. La decisione dev’essere stata, peraltro, esplicita, non potendosi ritenere che in mancanza di tale decisione un giudicato interno si sia formato in via implicita, semplicemente perchè la legittimazione (nel senso della fattispecie astratta o di quella concreta) abbia costituito la premessa logica per la decisione. Perchè una questione possa ritenersi decisa dal giudice di merito occorre, infatti, ch’essa sia stata oggetto di discussione tra le parti e così deve ritenersi per la legittimazione. Se il punto oggetto della questione non è stato discusso non può essere stato “deciso”, ma solo assunto come premessa della decisione che in concreto è stata adottata. Una quaestio iuris come la riconducibilità della posizione dell’attore o del convenuto alla fattispecie astratta o quella della riconducibilità della posizione dell’attore o del convenuto quale emergente in fatto a detta fattispecie deve, pertanto, perchè si formi giudicato interno in difetto di impugnazione, essere state discussa e decisa espressamente.

Ne consegue che, se tale decisione espressa non vi sia stata, ma la decisione vi sia stata solo su una questione rispetto alla quale la legittimazione si colloca logicamente prima, l’esercizio dell’impugnazione sulla decisione assunta riguardo a detta questione, è idoneo a porre in discussione l’intero procedimento logico seguito dal giudice e, nel caso di ricorso in cassazione, dal giudice di merito, per arrivare alla decisione della questione.

Per cui, se la Corte di cassazione rileva che in iure il procedimento logico si è fondato sulla premessa di una legittimazione sostanziale inesistente, senza che su questa vi sia stata espressa decisione, è abilitata a trame le conseguenze che sono nel senso che il diritto è stato esercitato da soggetto che non ne era titolare o contro un soggetto che non ne era titolare.

Per restare al caso di cui è processo, l’esercizio da parte del ricorrente del diritto di impugnazione contro la decisione di merito qui impugnata che ha ritenuto indimostrati i fatti costitutivi del diritto fatto valere dal ricorrente – qualificato nel senso della diretta invocabilità del D.Lgs. n. 257 del 1991 – per non avere egli provato di avere frequentato il corso di specializzazione con un impegno a tempo pieno o almeno parziale e di non avere svolto alcun’altra attività fonte di reddito, abilita questa Corte a dover esaminare la correttezza dell’intero procedimento logico seguito per arrivare alla conclusione raggiunta e, quindi, anche la questione della legitimatio ad causam dell’Università, evidentemente ritenuta sussistente dalla Corte territoriale. Solo se tale sussistenza fosse stata oggetto di discussione e la sentenza di merito avesse deciso sulla relativa questione affermando espressamente detta legitimatio, cioè avesse affermato che il diritto oggetto della lite, al livello della fattispecie normativa ritenuta ad essa adeguata, era configurabile contro l’Università, si sarebbe potuto formare giudicato interno in mancanza di impugnazione della decisione su tale punto. E solo in questo caso alla Corte sarebbe stato precluso di scrutinare il motivo valutando l’esistenza della legitimatio. In tal caso e solo in tal caso lo scrutino della fondatezza della decisione impugnata si sarebbe dovuto svolgere senza poter mettere in discussione detta esistenza, in mancanza di (necessaria) impugnazione incidentale dell’Università sul punto.

Quanto qui sostenuto trova conforto nell’orientamento recentemente affermato dalle sezioni Unite di questa Corte, le quali nella sentenza n. 26019 del 2008 hanno espressamente affermato che non è soggetta allo logica del c.d. giudicato implicito (affermata dalle stesse Sezioni Unite per la questione di giurisdizione in presenza di decisione sul merito, da Cass. sez. un. n. 24483 del 2008) la questione del difetto di legitimatio ad causam e che, pertanto, essa resta rilevabile in sede di legittimità in mancanza di un giudicato interno espresso, con la conseguenza che la rilevazione di tale difetto comporta la nullità della sentenza impugnata e la sua cassazione senza rinvio perchè la domanda non poteva essere proposta, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3.

E’ anzi appena il caso di rilevare che l’affermazione della necessità di un giudicato interno espresso per escludere il potere della Corte di cassazione di rilevare d’ufficio il difetto di legitimatio ad causam nello scrutinio di un motivo relativo a questione decisa dalla sentenza impugnata sulla sola premessa logica dell’esistenza di essa trova riscontro proprio nella norma ora citata. Poichè il potere di rilevare che la domanda non poteva essere proposta non è previsto come un espresso motivo di impugnazione dall’art. 360 c.p.c., deve, infatti, ritenersi che si tratti di un potere che la Corte, una volta investita del ricorso da una delle parti e, quindi, sollecitata ad annullare la sentenza impugnata, può esercitare d’ufficio. E, poichè, l’esercizio di un potere di ufficio in sede di impugnazione non potrebbe avvenire se la questione che ne è oggetto sia stata decisa dal giudice di merito e non vi sia stata impugnazione, è giocoforza ritenere che si tratti di potere che in tanto la Corte può esercitare in quanto tale decisione non vi sia stata e, quindi, non sia stata necessaria l’impugnazione.

Il che non era men vero nel tessuto originario del Codice per le ipotesi di riscontro della circostanza che la causa non poteva essere proseguita, posto che in quel contesto le ipotesi di mancata prosecuzione, le quali davano, come danno, luogo ad estinzione erano rilevabili d’ufficio dal giudice (come accade ora dopo la L. n. 69 del 2009) e, quindi, potevano esserlo da parte della Cassazione, sempre in difetto di decisione sul punto coperta da giudicato interno.

p. 6. deve, dunque, rilevarsi d’ufficio che la domanda del ricorrente, qualificata giuridicamente nell’unico modo consentito dall’ordinamento, appare proposta contro un soggetto che non è il titolare passivo della situazione giuridica fatta valere e, quindi, ricorre un’ipotesi nella quale, alla stregua del terzo comma dell’art. 382 c.p.c., la domanda non poteva essere proposta nei confronti dell’Università qui resistente.

Sia i motivi del ricorso principale che quelli del ricorso incidentale restano assorbiti.

L’oggetti va notoria incertezza della vicenda di cui è processo giustifica l’integrale compensazione delle spese di tutti i gradi di giudizio.

P.Q.M.

La Corte cassa senza rinvio perchè la domanda non poteva essere proposta contro la resistente. Provvedendo sulle spese giudiziali di tutti e tre i gradi di giudizio ne dispone l’integrale compensazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 14 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2011

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