Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23568 del 11/11/2011

Cassazione civile sez. III, 11/11/2011, (ud. 30/09/2011, dep. 11/11/2011), n.23568

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15765/2009 proposto da:

B.G.F.A. (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE DEI PARIOLI 27, presso lo studio

dell’avvocato PASQUALE LO CANE, rappresentato e difeso dall’avvocato

LARIA Rosa Maria, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

UNIVERSITA’ STUDI MESSINA, MINISTERO LAVORO SALUTE POLITICHE SOCIALI,

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA;

MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso gli Uffici

dell’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui sono difesi per legge;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1041/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 09/03/2009; R.G.N. 1021/2005.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/09/2011 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato ALESSANDRO GUERRIERI per delega Avvocato ROSA MARIA

LARIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p.1. B.G.F.A. ha proposto ricorso per cassazione contro il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali e L’Università degli Studi di Messina, avverso la sentenza del 9 marzo 2009, con la quale la Corte d’Appello di Roma ha rigettato l’appello da lui proposto avverso la sentenza resa in primo grado inter partes dal Tribunale di Roma, che aveva rigettato la domanda da lui introdotta contro i detti enti nel giugno del 2002 per sentirli condannare alla corresponsione delle somme corrispondenti alla remunerazione di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6, per ciascuno dei cinque anni di corso specialistico in Chirurgia Generale a suo tempo frequentati a tempo pieno presso la detta Università negli anni accademici 1982-1987 fini al conseguimento del diploma di specializzazione.

A sostegno della domanda il B. aveva dedotto che il detto D.Lgs., nel recepire tardivamente le direttive comunitarie CEE 75/362/CEE, 75/363/CEE e 82/76/CEE, rimaste inadempiute a far tempo dal 31 dicembre 1982, aveva illegittimamente limitato l’applicazione della remunerazione ai medici ammessi ai corsi di specializzazione successivi al 1991.

p.2. Il Tribunale rigettava la domanda nei confronti di tutti i convenuti (e, particolarmente, anche nei confronti del Ministero dell’Economia e delle finanze), sul presupposto che l’azione dovesse qualificarsi di risarcimento danni da responsabilità extracontrattuale e che il relativo termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2947 c.c., comma 1, fosse decorso dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991.

p.3. La Corte d’Appello, per quanto interessa in questa sede, ha rigettato l’appello motivando che la prescrizione sarebbe decorsa dalla data indicata dal primo giudice e che, indipendentemente dalla qualificazione come extracontrattuale o contrattuale dell’azione, nell’ipotesi che fosse stata applicata questa seconda qualificazione, sarebbe stato applicabile l’art. 2948 c.c., n. 4, ha inoltre escluso che la fattispecie fosse qualificabile come illecito permanente.

p.4. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi il B..

Gli intimati hanno resistito con congiunto controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta “violazione dell’art. 10 (ex art. 5) del Trattato CE; violazione dell’art. 13 della direttiva 82/767CEE; violazione dell’art. 2, n. 1, lett. ce) della direttiva 75/363/CEE e del punto 1 dell’allegato alla direttiva 75/363/CEE, così come modificati dalla direttiva 82/76/CEE, così come modificati dalla direttiva 82/76/CEE. Vi si critica la sentenza impugnata là dove ha ritenuto che la pretesa fatta valere dal ricorrente fosse soggetta a termine di prescrizione decorrente dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991, adducendo che ciò sarebbe contrario ai principi di interpretazione del diritto comunitario, affermati dalla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 25 luglio 1991, Emmot in ordine all’esegesi della citata norma del Trattato, in presenza di direttive come quelle su indicate, non self executing, ma sufficientemente specifiche da individuare un diritto spettante ai singoli in forza del diritto comunitario. Per il caso che sussistano dubbi sull’applicabilità dei principi enunciati nella sentenza al caso di specie, si sollecita la Corte a disporre rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE. Con un secondo motivo si denuncia “contraddittoria motivazione sul punto – decisivo ai fini della controversia – inerente la cessazione dell’illecito comunitario”.

Con un terzo motivo si lamenta “omessa motivazione in relazione all’eccepita violazione dell’art. 112c.p.c.”.

p.2. Il secondo ed il terzo motivo sono inammissibili perchè proposti senza l’osservanza dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ai sensi della L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5, nonostante l’abrogazione intervenuta il 4 luglio 2009 per effetto dell’art. 47 della stessa legge. L’art. 58, comma 5, della legge ha, infatti, sostanzialmente disposto che la norma abrogata rimanesse ultrattiva per i ricorsi notificati dopo quella data avverso provvedimenti pubblicati anteriormente (si vedano: Cass. (ord.) n. 7119 del 2010;

Cass. n. 6212 del 2010 Cass. n. 26364 del 2009; Cass. (ord.) n. 20323 del 2010). Nel contempo, non avendo avuto l’abrogazione effetti retroattivi l’apprezzamento dell’ammissibilità dei ricorsi proposti – come quello in esame – anteriormente a quella data continua a doversi fare sulla base della norma abrogata.

p.2.1. Ora, il secondo motivo, deducente vizio di motivazione ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., non si conclude con nè contiene il momento di sintesi espressivo della c.d. chiara indicazione, nei termini indicati da consolidata giurisprudenza della Corte (si vedano già Cass. (ord.) n. 16002 del 2007 e Cass. sez. un. n. 20603 del 2007, nonchè la conforme giurisprudenza successiva). Il terzo motivo, deducente vizio di violazione di una norma del procedimento non si conclude con la formulazione del prescritto quesito di diritto.

p.3. Il primo motivo è concluso da quesito di diritto e, là dove censura la sentenza impugnata per avere ritenuto decorrente il termine di prescrizione della pretesa fatta valere decorrente dalla entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991, appare fondato.

Poichè il motivo postula, invocando la sentenza Emmott che nessun termine di prescrizione fosse decorso, non avendo lo Stato Italiano adempiuto le direttive comunitarie citate, la cognizione della Corte nello scrutinio di questo motivo si estende – per il caso che tale sentenza risulti male invocata e, dunque, un termine di prescrizione sia tuttavia applicabile – anche all’esatta individuazione di quale esso sia. Invero, la contestazione espressa con la negazione dell’operatività di qualsiasi termine di prescrizione abilita la Corte nel decidere sul motivo ad individuare, nel suo compito di nomofilachia il termine eventualmente ritenuto applicabile, se del caso distinto da quello individuato dalla sentenza impugnata e, naturalmente, la sua decorrenza.

Inoltre, avendo nella specie la sentenza impugnata deciso la questione della prescrizione con espresso riferimento sia ad una qualificazione dell’azione esercitata dal ricorrente come contrattuale, sia ad una sua qualificazione come extracontrattuale (come emerge dalle sue pagine tre e quattro), oggetto della questione posta con il motivo è necessariamente anche l’individuazione della corretta qualificazione dell’azione, in mancanza di esistenza di una cosa giudicata interna espressa sul punto.

Ne discende che, come questa stessa Sezione ha già osservato nelle quattro sentenze (sostanzialmente gemelle) nn. 10813, 10814, 10815 e 10816 del 2011, sulla falsariga di quanto avevano ritenuto possibile già le Sezioni Unite, proprio nella sentenza n. 9147 del 2009, in questa sede di legittimità lo scrutinio di pretese come quella del ricorrente deve procedere sulla base della individuazione ed all’occorrenza sostituzione della qualificazione della domanda in iure corretta ed adeguata al contenuto sostanziale della domanda proposta dal ricorrente. Qualificazione che – in mancanza di un espresso giudicato interno formatosi su una determinata qualificazione – è possibile, perchè i fatti storici posti a base della domanda ed il petitum di essa e, dunque, il bisogno di tutela giurisdizionale che ha determinato la controversia (rappresentato dal riconoscimento di quanto si sarebbe dovuto conseguire nei caso di adempimento delle direttive in modo che anche la posizione del ricorrente fosse stata contemplata, mentre il quantum invocato e le sue modalità di determinazione non rappresentano certo elementi individuatori del petitum, bensì elementi che individuano solo possibili modalità della sua soddisfazione), non mutano in alcun modo, ma sono soltanto ricondotti da questa Corte al loro corretto referente normativo astratto, nell’esercizio della mera attività di qualificazione in diritto della vicenda e segnatamente della domanda.

p.3.1. Ciò premesso, questa Corte ha già affrontato la questione posta dal motivo con le citate sentenze nn. 10813, 10814, 10815 e 10816 del 2011 ed intende dare continuità ai principi con esse affermati, peraltro seguiti dalle altre sentenze su questioni simili successivamente depositate e relative a ricorsi decisi nella stessa udienza del 18 aprile 2011.

Nelle dette decisioni si è anzitutto inteso condividere l’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte, di cui alla già citata sent. n. 9147 del 2009, circa la natura dell’azione esercitata per pretese come quella del ricorrente e circa il termine di prescrizione applicabile. Tale insegnamento, sopravvenuto alla sentenza impugnata e, quindi, non potuto considerare da essa, ha espresso il seguente principio di diritto: “In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, non autoesecutive, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi) sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni, che va ricondotto – anche a prescindere dall’esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria – allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all’adempimento di una obbligazione ex lege riconducibile all’area della responsabilità contrattuale, all’ordinario termine decennale di prescrizione”.

Sulla scorta di questo principio di diritto, le citate sentenze gemelle hanno precisato che “il concetto di responsabilità contrattuale è stato usato dalle Sezioni Unite palesemente nel senso non già di responsabilità che suppone un contratto, ma nel senso – comune alla dottrina in contrapposizione all’obbligazione da illecito extracontrattuale – di responsabilità che nasce dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, considerato dall’ordinamento interno, per come esso deve atteggiarsi secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, come fonte dell’obbligo risarcitorio, secondo la prospettiva scritta nell’art. 1173 c.c.”.

p.3.1.1. In secondo luogo, nelle dette decisioni, sulla base di un’ampia ricognizione dell’evoluzione della giurisprudenza comunitaria a partire dalla invocata sentenza sul caso Emmott, si è esclusa la necessità di un rinvio pregiudiziale nei termini richiesti dal ricorrente e sono sanciti i seguenti principi di diritto: “la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in tema di azione risarcitoria di diritto interno, da inadempimento di direttiva sufficientemente specifica nell’attribuire ai singoli diritti, ma non self-executing, evidenzia conclusioni certe nel senso: a) la regolamentazione delle modalità, anche quoad termini di decadenza o prescrizione, dell’azione risarcitoria da inadempimento di direttiva attributiva di diritti ai singoli compete agli ordinamenti interni;

b) in mancanza di apposita disciplina da parte degli Stati membri, che dev’essere ispirata ai principi di equivalenza ed effettività, il giudice nazionale può ricercare analogicamente la regolamentazione dell’azione, ivi compresi eventuali termini di decadenza o prescrizione, in discipline di azioni già regolate dall’ordinamento, purchè esse rispettino i principi suddetti e, particolarmente, non rendano impossibile o eccessivamente gravosa l’azione; c) l’applicazione di un termine di prescrizione che così ne risulti, cioè che derivi dal riferimento che il giudice nazionale fa ad una disciplina interna regolamentante altra azione, è possibile comunque solo se essa può considerarsi sufficientemente prevedibile da parte dei soggetti interessati, dovendo, dunque, il giudice nazionale procedere necessariamente a tale apprezzamento; d) l’eventuale termine di prescrizione può decorrere anche prima della corretta trasposizione della direttiva nell’ordinamento nazionale, se il danno, anche solo in parte (è questo il significato del riferimento ai primi effetti lesivi contenuto nella sentenza nella sentenza Danske Slagteher) per questo soggetto si è verificato anteriormente; e) l’applicazione del termine di prescrizione decennale, della quale sopra si è data giustificazione, ove sia apprezzata sotto il profilo della prevedibilità da parte dei soggetti interessati, appare prevedibile, tenuto conto che il termine di prescrizione decennale (di cui all’art. 2946 c.c.) è quello generale e certamente più favorevole rispetto ai termini speciali, più brevi. Risponde, quindi, al principio comunitario di effettività”.

p.3.1.2. La sentenza n. 17868 del 2011, deliberata sempre nella udienza del 18 aprile 2011, ma depositata il 31 agosto successivo, ha precisato, inoltre, che la ricostruzione dello stato della giurisprudenza comunitaria fatta dalle citate sentenze gemelle risultava conforme a quanto, successivamente al loro deposito, aveva deliberato la Corte di Giustizia con la sentenza 19 maggio 2011, resa sulla causa C-452, su un rinvio pregiudiziale simile a quello richiesto dal ricorrente, operato dal Tribunale di Firenze (e considerato dalla dette sentenze, le quali avevano escluso, invece, ch’esso fosse necessario ed erano state, peraltro, depositate senza che le parti avessero fatto presente l’imminenza della discussione davanti a quella Corte il 19 maggio 2011 ed in situazione nella quale nel sito della Corte di Giustizia non risultava all’epoca della camera di consiglio e del deposito delle decisioni la calendarizzazione dell’udienza).

p.3.1.3. Le citate sentenze gemelle e le altre che vi si sono accodate, dopo la ricognizione della giurisprudenza comunitaria e le conclusioni sulle sue implicazioni, hanno, quindi, affrontato il tema del dies a quo del termine prescrizionale e sono pervenute all’affermazione del seguente principio di diritto: “il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, insorto a favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica negli anni dal 1 gennaio 1983 all’anno accademico 1990-1991 in condizioni tali che se detta direttiva fosse stata adempiuta avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, art. 11”.

Questo principio – lo si osserva per ragioni di nomofilachia, anche se la questione non rileva in questa sede – va precisato nel senso che la platea dei soggetti cui esso si riferisce concerne, in realtà anche i soggetti che si erano immatricolati in un corso di specializzazione in quel periodo ed hanno, in ipotesi completato il corso di specializzazione in anni accademici successivi al 1990-91: a tali soggetti, infatti, non trovava applicazione il D.Lgs. n. 257 del 1991, perchè il suo art. 8 la limitata ai medici iscritti a far tempo dall’anno accademico 1991-1992.

p.4. Applicando il principio al ricorso in esame il primo motivo dev’essere accolto e la sentenza cassata, perchè il diritto fatto valere dal ricorrente, qualificato nei sensi indicati dalle Sezioni Unite e specificati dalle sentenze citate, non si era consumato per prescrizione al momento in cui venne fatto valere con la domanda giudiziale.

p.5. La Corte deve, a questo punto, rilevare che la sentenza qui impugnata dev’essere, però, cassata senza rinvio riguardo al rapporto processuale fra il ricorrente e l’Università resistente, perchè relativamente ad essa si deve constatare d’ufficio che il diritto fatto valere dal ricorrente, qualificato nei detti termini, non sussiste già al livello della fattispecie normativa astratta alla stregua della quale dev’essere individuato secondo la citata giurisprudenza. Onde si configura una situazione per cui la causa nei riguardi dell’Università non poteva essere proposta ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3.

Invero, in conseguenza della esatta individuazione e qualificazione del diritto fatto valere e, quindi, dell’esatta qualificazione della domanda, cui si è proceduto nello scrutinio del primo motivo, al fine di identificare l’esatto regime prescrizionale applicabile al diritto fatto valere, emerge che quest’ultimo non si configura anche nei confronti dell’Università, bensì soltanto nei riguardi dello Stato.

Emerge, cioè, che la legittimazione passiva in senso sostanziale all’azione di risarcimento danni basata sull’obbligo insorto per effetto dell’inadempimento statuale quale altro fatto rilevante ai sensi dell’art. 1173 c.c., compete allo Stato Italiano e non, nemmeno concorrentemente, alle Università presso le quali la specializzazione venne acquisita. Al riguardo, proprio nella logica di qualificazione della domanda seguita dalle Sezioni Unite questa Corte si è già pronunciata in questo senso con la sentenza n. 22440 del 2009. E sulla base di quest’ultima la sentenza n. 10814 del 2011, scrutinando uno specifico motivo di ricorso incidentale per cassazione di un’università, tendente a sostenere il difetto di legittimazione passiva, lo ha accolto.

p.5.1. Ora, nel presente giudizio l’Università non ha svolto una contestazione riguardo alla sua legittimazione passiva in senso sostanziale in iure con riferimento all’esatta qualificazione della fattispecie astratta cui la vicenda è riconducibile. Non ha cioè dedotto che l’ordinamento non prevede a livello di fattispecie normativa astratta che la pretesa fatta valere dal ricorrente si configuri nei confronti delle università. L’assenza di tale contestazione non è, però, di ostacolo alla rilevazione d’ufficio di tale mancata previsione in questa sede di legittimità.

Invero, la questione di difetto della legittimazione attiva o passiva secondo lo schema normativo astratto al quale si riconduce il diritto fatto valere in giudizio è questione che, pur essendo decisiva per l’esistenza della titolarità attiva o passiva di tale diritto e, quindi, afferendo in senso lato al “merito”, è rilevabile anche in sede di legittimità, con il solo doppio limite: a) che non si sia formata sulla sua esistenza la cosa giudicata interna, per essere stato il punto ad essa relativo oggetto di discussione e decisione e per essere rimasta quest’ultima priva di impugnazione; b) che la questione emerga sulla base dei fatti per come legittimamente prospettati davanti alla Corte di cassazione, cioè nel rispetto dei limiti entro i quali deve contenersi l’attività deduttiva delle parti negli atti introduttivi del giudizio di cassazione.

In presenza di queste due condizioni, la rilevazione da parte della Corte che la fattispecie normativa alla quale va ricondotto il diritto oggetto del giudizio non giustifica essa stessa su un piano astratto, cioè proprio secondo il paradigma previsto dalle norme regolatrici, l’individuazione dell’attore o del convenuto come soggetti attivo e passivo del diritto stesso, perchè essi non appartengono alla categoria soggettiva cui la fattispecie riferisce la legittimazione, rappresenta esercizio da parte della Corte del potere di individuazione dell’esatto diritto applicabile e, quindi, è attività di rilevazione di una quaestio iuris inerente l’astratta riferibilità sul piano normativo, cioè secondo lo schema normativo regolatore del diritto oggetto del giudizio, a colui dal quale o contro il quale è stato esercitato.

Si tratta di un’attività di rilevazione che in questo caso si estrinseca esclusivamente sulla base del confronto fra le categorie dei soggetti contemplati dalla fattispecie normativa astratta e le parti che stanno in giudizio. Da tale confronto emerge che uno di essi non è riconducibile alla categoria soggettiva astratta individuata dalla fattispecie normativa. Onde non si tratta di verificare se la fattispecie astratta trova riscontro nel caso concreto e, quindi, di accertare se i fatti per come pervenuti davanti alla Corte, evidenziano quella verificazione. Peraltro anche una simile verifica, ove non involgesse alcun accertamento di fatto estraneo alla logica del giudizio di cassazione, ma soltanto la rilevazione che la fattispecie concreta come pervenuta davanti alla Corte per il tramite degli atti introduttivi e della stessa decisione impugnata non è riconducibile sotto il profilo soggettivo alla fattispecie astratta alla quale è stata ricondotta e nel cui presupposto risulta articolato il motivo di ricorso per cassazione con cui la Corte è stata investita, sarebbe attività consentita alla Corte (sempre con i due limiti innanzi indicati).

p.5.2. Il Collegio non ignora che nell’uno come nell’altro caso ciò che viene in rilievo è l’esistenza del diritto sotto l’aspetto della titolarità, nel primo caso perchè la stessa norma regolatrice della fattispecie attribuisce il diritto ad una categoria di soggetti o contro una categoria di soggetti alla cui figura è estraneo il soggetto attivo o passivo, nel secondo caso perchè, pur essendo tale soggetto riconducibile alla categoria di soggetti contemplata dalla fattispecie astratta, in concreto a suo favore o nei suoi confronti i fatti per come pervenuti in cassazione nei limiti segnati alle attività che le parti possono svolgere negli atti introduttivi del relativo giudizio, palesano che la fattispecie astratta non si è, in realtà, verificata a favore o contro il soggetto stesso.

Ed il Collegio è, altresì, consapevole che una consistente giurisprudenza di questa Corte sottolinea sovente che la questione della titolarità del rapporto dedotto in giudizio è questione di “merito” non rilevabile d’ufficio in sede di legittimità.

Senonchè, questa giurisprudenza, in realtà, fa queste affermazioni con riguardo ad ipotesi nelle quali la prospettazione della questione di legitimatio ad causam in sede di legittimità avviene ad iniziativa della parte resistente in cassazione, ma sulla base della introduzione di fatti nuovi, in precedenza non dedotti nel giudizio di merito entro i termini di preclusione previsti, e, quindi, a maggior ragione non introducibili nel giudizio di legittimità, oppure addirittura di fatti rilevabili solo ad eccezione di parte: si riferisce, dunque, innanzitutto alla seconda delle due ipotesi appena indicate e non al caso nel quale, alla stregua della stessa fattispecie normativa astratta prospettata, difetta la legittimazione.

Si vedano, a titolo di esempio: Cass. n. 14177 del 2011 (secondo la quale: “La legittimazione ad agire costituisce una condizione dell’azione diretta all’ottenimento, da parte del giudice, di una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione, prescindendo, quindi, dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa che si riferisce al merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza. Ne consegue che, a differenza della legitimatio ad causam (il cui eventuale difetto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio), intesa come il diritto potestativo di ottenere dal giudice, in base alla sola allegazione di parte, una decisione di merito, favorevole o sfavorevole, l’eccezione relativa alla concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, attenendo al merito, non è rilevabile d’ufficio, ma è affidata alla disponibilità delle parti e, dunque, deve essere tempestivamente formulata. (Nella specie, la S.C. ha escluso che potesse rilevare come questione di legittimazione ad causam la deduzione, mai effettuata in precedenza dal ricorrente nel corso del giudizio di divisione, dell’avvenuta cessione della quota indivisa dei beni ereditari, da farsi valere, invece, nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte)”; Cass. n. 11824 del 2010; Cass. n. 2049 del 2000 (secondo la quale: “La legittimazione ad causam consiste nella titolarità del potere e del dovere – rispettivamente per la legittimazione attiva e per quella passiva – di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, secondo la prospettazione offerta dall’attore, indipendentemente dalla effettiva titolarità, dal lato attivo o passivo, del rapporto stesso. Quando, invece, le parti controvertono sulla effettiva titolarità, in capo al convenuto, della situazione dedotta in giudizio, ossia sull’accertamento di una situazione di fatto favorevole all’accoglimento o al rigetto della domanda attrice, la relativa questione non attiene, alla legitimatio ad causam, ma al merito della controversia, con la conseguenza che il difetto di titolarità deve essere provato da chi lo eccepisce e deve formare oggetto di specifica e tempestiva deduzione in sede di merito. Al contrario il difetto di legittimazione ad causam deve essere oggetto di verifica, preliminare al merito,da parte del giudice, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio”); Cass. n. 20819 del 2006; Cass. n. 13403 del 2005 (secondo cui: “La legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento. Da essa va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito alcun esame d’ufficio, poichè la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Fondandosi, quindi, la legittimazione ad agire o a contraddire, quale condizione all’azione, sulla mera allegazione fatta in domanda, una concreta ed autonoma questione intorno ad essa si delinea solo quando l’attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretenda di ottenere una pronunzia contro il convenuto pur deducendone la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso. (Nella specie la S.C. ha ritenuto che trattavasi di questione non attinente alla dedotta legitimatio ad causam bensì concernente l’accertamento in concreto dell’effettiva titolarità del rapporto fatto valere in giudizio, sostenendo la ricorrente essere di proprietà pubblica e non appartenente alla titolarità della controricorrente e di una delle intimate gli immobili oggetti del contratto di locazione di cui si discuteva in causa)”); Cass. n. 14468 del 2008 (secondo la quale. “La legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento. Da essa va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito l’esame d’ufficio, poichè la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. (Nella specie, la S.C., rigettando il ricorso avverso la sentenza impugnata, ha ritenuto sufficiente, ai fini della legittimazione passiva dei convenuti, che nella domanda attorca essi fossero indicati quali autori di illeciti anticoncorrenziali rientranti nella previsione della disciplina dettata dalla L. n. 287 del 1990, la quale regola le azioni di nullità e di risarcimento dei danni nascenti dall’illecito anticoncorrenziale, attenendo invece al merito la questione se gli stessi convenuti fossero in concreto esonerati dall’applicazione della normativa antitrust per avere agito nell’ambito di una delle ipotesi di esenzione disciplinate dalla legge)”); Cass. n. 355 del 2008.

In queste decisioni il riferimento eccettuativo al caso del riscontro dell’esistenza della legittimazione “esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione”, evidenzia che esse non si discostano dai principi sopra affermati a proposito del caso nel quale la stessa fattispecie normativa prospettata evidenzi che il soggetto attore o il soggetto convenuto non sono ad essa riconducibili. Dette decisioni concernono invece ipotesi nelle quali la pretesa di ridiscutere in sede di legittimità la titolarità del rapporto si sorreggeva sulla negazione della titolarità in concreto e, quindi, della riconducibilità della posizione del soggetto attivo o passivo ad una fattispecie concreta di verificazione della fattispecie astratta dedotta in giudizio. Non solo: tale pretesa si basava – come conferma anche la lettura delle decisioni – sulla deduzione di circostanze di fatto non emergenti in sede di legittimità, come fa manifesto il riferimento all’onere probatorio o deduttivo o all’eccezione o al “formare oggetto di specifica e tempestiva deduzione in sede di merito verificabili”. E dunque l’affermazione che la questione della legitimatio non è suscettibile di rilievo d’ufficio è, in realtà, giustificata dal divieto di introducibilità di fatti nuovi o dello svolgimento di un’attività di contestazione di fatti prima rimasti incontestati nelle fasi di merito, connaturato alle preclusioni formatesi nelle fasi di merito e determinativa dei limiti del potere di allegazione nel giudizio di legittimità. Là dove, invece, fermo il limite del giudicato interno, la contestazione dell’efficacia giuridica dei fatti storici acquisiti nel giudizio di merito sulla base di meri ragionamenti in iure rimane, invece, attività meramente argomentativa e, quindi, consentita alle parti, non diversamente da come la qualificazione degli stessi è possibile per la Corte.

p.5.3. L’affermazione che il difetto di legitimatio ad causam, sia intesa – per quello che qui interessa – come titolarità attiva o passiva in astratto del diritto fatto valere con l’atto introduttivo del giudizio, sia nel senso della titolarità in concreto, possa essere rilevata d’ufficio in sede di legittimità, d’altro canto, non trova ostacolo nei limiti entro i quali il giudizio di cassazione si deve svolgere quale giudizio introdotto da un mezzo impugnazione a motivi limitati, perchè, una volta che il mezzo di impugnazione sia stato introdotto attraverso la prospettazione di un motivo di impugnazione esperibile, l’unica circostanza che potrebbe precludere alla Corte di cassazione il rilievo del difetto di legittimazione si può rinvenire nella circostanza che la relativa questione sia rimasta coperta da cosa giudicata interna.

Ciò, tuttavia, può avvenire solo se nel giudizio di merito il punto relativo alla legittimazione intesa nei sensi indicati sia stato deciso e non vi sia stata al riguardo impugnazione. La decisione dev’essere stata, peraltro, esplicita, non potendosi ritenere che in mancanza di tale decisione un giudicato interno si sia formato in via implicita, semplicemente perchè la legittimazione (nel senso della fattispecie astratta o di quella concreta) abbia costituito la premessa logica per la decisione. Perchè una questione possa ritenersi decisa dal giudice di merito occorre, infatti, ch’essa sia stata oggetto di discussione tra le parti e così deve ritenersi per la legittimazione. Se il punto oggetto della questione non è stato discusso non può essere stato “deciso”, ma solo assunto come premessa della decisione che in concreto è stata adottata. Una quaestio iuris come la riconducibilità della posizione dell’attore o del convenuto alla fattispecie astratta o quella della riconducibilità della posizione dell’attore o del convenuto quale emergente in fatto a detta fattispecie deve, pertanto, perchè si formi giudicato interno in difetto di impugnazione, essere state discussa e decisa espressamente.

Ne consegue che, se tale decisione espressa non vi sia stata, ma la decisione vi sia stata solo su una questione rispetto alla quale la legittimazione si colloca logicamente prima, l’esercizio dell’impugnazione sulla decisione assunta riguardo a detta questione, è idoneo a porre in discussione l’intero procedimento logico seguito dal giudice e, nel caso di ricorso in cassazione, dal giudice di merito, per arrivare alla decisione della questione.

Per cui, se la Corte di cassazione rileva che in iure il procedimento logico si è fondato sulla premessa di una legittimazione sostanziale inesistente, senza che su questa vi sia stata espressa decisione, è abilitata a trame le conseguenze che sono nel senso che il diritto è stato esercitato da soggetto che non ne era titolare o contro un soggetto che non ne era titolare.

Per restare al caso di cui è processo, l’esercizio da parte del ricorrente del diritto di impugnazione contro la decisione di merito che ha ritenuto prescritto il diritto tanto sulla base di una qualificazione ne senso della sua origine da responsabilità contrattuale quanto sulla base di una qualificazione nel senso di una origine extracontrattuale di detta responsabilità, abilita questa Corte a dover esaminare la correttezza dell’intero procedimento logico seguito per arrivare, secondo l’una e l’altra qualificazione, alla conclusione della prescrizione. Solo se sia l’una che l’altra qualificazione fossero state oggetto di discussione e la sentenza di merito avesse deciso sulla relativa questione affermando espressamente una determinata qualificazione e, quindi, giustificato la prescrizione, sulla base di tale preliminare decisione, si sarebbe potuto formare giudicato interno in mancanza di impugnazione della decisione presa sulla qualificazione. E solo in questo caso alla Corte sarebbe stato precluso di scrutinare l’affermata prescrizione anche, traendone le relative conseguenze in termini di inesistenza del diritto, sotto il profilo dell’esattezza della qualificazione del diritto assunta come sua premessa. In tal caso e solo in tal caso lo scrutino della fondatezza della decisione relativa alla prescrizione si sarebbe dovuto svolgere sulla base della qualificazione affermata e decisa dalla sentenza impugnata e rimasta priva di impugnazione.

Quanto qui affermato trova conforto nell’orientamento recentemente affermato dalle sezioni Unite di questa Corte, le quali nella sentenza n. 26019 del 2008 hanno espressamente affermato che non è soggetta allo logica del c.d. giudicato implicito (affermata dalle stesse Sezioni Unite per la questione di giurisdizione in presenza di decisione sul merito, da Cass. sez. un. n. 24483 del 2008) la questione del difetto di legitimatio ad causam e che, pertanto, essa resta rilevabile in sede di legittimità in mancanza di un giudicato interno espresso, con la conseguenza che la rilevazione di tale difetto comporta la nullità della sentenza impugnata e la sua cassazione senza rinvio perchè la domanda non poteva essere proposta, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3.

E’ anzi appena il caso di rilevare che l’affermazione della necessità di un giudicato interno espresso per escludere il potere della Corte di cassazione di rilevare d’ufficio il difetto di legitimatio ad causam nello scrutinio di un motivo relativo a questione decisa dalla sentenza impugnata sulla sola premessa logica dell’esistenza di essa trova riscontro proprio nella norma ora citata. Poichè il potere di rilevare che la domanda non poteva essere proposta non è previsto come un espresso motivo di impugnazione dall’art. 360 c.p.c., deve, infatti, ritenersi che si tratti di un potere che la Corte, una volta investita del ricorso da una delle parti e, quindi, sollecitata ad annullare la sentenza impugnata, può esercitare d’ufficio. E, poichè, l’esercizio di un potere di ufficio in sede di impugnazione non potrebbe avvenire se la questione che ne è oggetto sia stata decisa dal giudice di merito e non vi sia stata impugnazione, è giocoforza ritenere che si tratti di potere che in tanto la Corte può esercitare in quanto tale decisione non vi sia stata e, quindi, non sia stata, necessaria l’impugnazione.

Il che non era men vero nel tessuto originario del Codice per le ipotesi di riscontro della circostanza che la causa non poteva essere proseguita, posto che in quel contesto le ipotesi di mancata prosecuzione, le quali davano, come danno, luogo ad estinzione erano rilevabili d’ufficio dal giudice (come accade ora dopo la L. n. 69 del 2009) e, quindi, potevano esserlo da parte della Cassazione, sempre in difetto di decisione sul punto coperta da giudicato interno.

p.5.4. Sulla base delle considerazioni svolte la sentenza impugnata dev’essere, dunque, cassata senza rinvio quanto al rapporto processuale fra il ricorrente e l’università resistente.

L’oggettiva incertezza delle questioni esaminate giustifica l’integrale compensazione delle spese riguardo a tutti i gradi di giudizio quanto a tale rapporto.

La sentenza impugnata, invece, va cassata con rinvio quanto ai residui rapporti processuali.

Il giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della Corte d’Appello di Roma, comunque in diversa composizione dovrà, dunque, considerare non prescritta la pretesa del ricorrente e provvederà ad esaminarla considerando la qualificazione di essa emergente dalla giurisprudenza di questa Corte e segnatamente dalla più volte citata sentenza delle Sezioni Unite, secondo le implicazioni emergenti delle sentenze gemelle.

Il giudice di rinvio provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione relative ai detti rapporti processuali.

PQM

La Corte cassa senza rinvio la sentenza impugnata nel rapporto processuale fra il ricorrente e l’Università degli Studi di Messina, perchè la domanda non poteva essere proposta. Provvedendo sul ricorso quanto agli altri rapporti processuali, dichiara inammissibili il secondo ed il terzo motivo di ricorso. Accoglie il primo motivo di ricorso. Cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Roma, comunque in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile il 30 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2011

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