Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23565 del 23/09/2019

Cassazione civile sez. II, 23/09/2019, (ud. 17/01/2019, dep. 23/09/2019), n.23565

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 3962 – 2015 R.G. proposto da:

G.P., – c.f. (OMISSIS) – elettivamente domiciliato in

Roma, alla via Giuseppe Ferrari, n. 11, presso lo studio

dell’avvocato Luisa Totino, che lo rappresenta e difende giusta

procura speciale in calce al ricorso.

– ricorrente –

contro

F.A.M., – c.f. (OMISSIS) – elettivamente domiciliata in

Roma, al viale Giuseppe Mazzini, n. 88, presso lo studio

dell’avvocato Massimo De Bonis e dell’avvocato Daniele De Bonis, che

congiuntamente e disgiuntamente la rappresentano e difendono giusta

procura speciale a margine del controricorso.

– controricorrente –

avverso la sentenza della corte d’appello di Roma n. 4214 del

24.6.2014;

udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 17

gennaio 2019 dal consigliere Dott. Luigi Abete;

udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore

generale Dott. Pepe Alessandro, che ha concluso per l’accoglimento

del terzo motivo di ricorso;

udito l’avvocato Luisa Totino per il ricorrente;

udito l’avvocato Daniele De Bonis per la controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto notificato il 14.6.2006 F.A.M., proprietaria di un appartamento in (OMISSIS), citava a comparire dinanzi al tribunale di Latina, sezione distaccata di Terracina, G.P..

Esponeva che nel novembre del 2003 era stata installata una canna fumaria sulla facciata dell’edificio condominiale, all’esterno dell’appartamento di proprietà del convenuto, sottostante l’appartamento di sua proprietà; che l’appartamento di ella attrice subiva quindi continue immissioni di fumi nocivi.

Esponeva che il convenuto dalla porta del bagno del suo appartamento, attraverso il prospiciente cortile di proprietà di ella attrice, accedeva alla (OMISSIS), ancorchè il suo cortile non fosse gravato da alcuna servitù.

Chiedeva accertarsi e darsi atto dell’abusiva ed illegittima collocazione della canna fumaria e condannarsi il convenuto alla sua rimozione ed al risarcimento dei danni; chiedeva inoltre accertarsi e darsi atto che il cortile di sua proprietà giammai era stato utilizzato per l’accesso alla pubblica via e condannarsi il convenuto ad astenersi da ogni forma di molestia.

G.P. si costituiva.

Deduceva, tra l’altro, che la canna fumaria era collocata a distanza legale. Instava per il rigetto dell’avversa domanda; in via riconvenzionale chiedeva accertarsi e darsi atto della servitù di passaggio di cui beneficiava il proprio immobile e condannarsi l’attrice ad astenersi da ogni forma di impedimento, in subordine a consegnare le chiavi del cancello che intercludeva il transito.

Assunte le prove orali, espletata la consulenza d’ufficio, con sentenza n. 123/2010 l’adito tribunale condannava il convenuto a rimuovere la canna fumaria ovvero a collocarla in modo da evitare le immissioni di fumo; dava atto dell’esistenza di una servitù di passaggio a carico dell’area cortilizia ed in favore dell’immobile di proprietà del convenuto; rigettava ogni altra domanda e compensava le spese di lite e c.t.u..

F.A.M. proponeva appello.

Resisteva G.P.; spiegava appello incidentale.

Con sentenza n. 4214 del 24.6.2014 la corte d’appello di Roma accoglieva il gravame principale e, per l’effetto, dichiarava l’inesistenza della servitù di passaggio a carico dell’area cortilizia; rigettava l’appello incidentale e condannava l’appellato alle spese del grado.

Evidenziava la corte che l’actio confessoria servitutis esperita da G.P. lo onerava e dell’allegazione e della prova del titolo costitutivo del preteso diritto; che conseguentemente, in assenza di titolo negoziale atto a comprovare la costituzione di servitù volontaria, non rivestivano valenza alcuna in sede petitoria nè la lettera a firma di F.B. in data 12.10.1967 nè gli esiti del sopralluogo dei carabinieri in data 31.5.1994, attestanti l’assenza di strumenti di chiusura del cancello collocato all’ingresso dell’area cortilizia.

Evidenziava ancora che era da escludere che il tribunale avesse costituito in via coattiva la servitù di passaggio in difetto di domanda in tal senso.

Evidenziava infine, in ordine all’appello incidentale, che erano da condividere le conclusioni, sebbene formulate in via deduttiva, cui era pervenuto il consulente d’ufficio circa la sussistenza immissioni nocive superiori al limite della normale tollerabilità; che in pari tempo la deviazione e l’innalzamento della canna fumaria disposte dal primo giudice ben valevano a conciliare i contrapposti interessi delle parti.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso G.P.; ne ha chiesto sulla scorta di quattro motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese di lite.

F.A.M. ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.

Il ricorrente ha depositato memoria.

La controricorrente del pari ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Deduce che la corte di merito non ha tenuto conto nè del proprio titolo d’acquisto, ovvero dell’atto per notar R. dell’11.12.1989, nè degli ulteriori atti di provenienza, ovvero dell’atto per notar Pe. del 12.5.1959 e dell’atto per notar Pa. del 3.11.1951.

Deduce in particolare che mercè l’atto R. ha provveduto all’acquisto di due distinti immobili, in catasto al foglio (OMISSIS), rispettivamente, sub (OMISSIS), il che costituisce prova che l’immobile (OMISSIS) “ha da sempre avuto un accesso autonomo alla (OMISSIS)” (così ricorso, pag. 22), ossia un unico accesso, quello che controparte individua come “la porta del bagno”.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c..

Premette che il diritto reale di servitù appartiene alla categoria dei diritti “autodeterminati”, individuati alla stregua della sola indicazione del bene che ne costituisce l’oggetto.

Indi deduce che “anche in assenza di specifica domanda di usucapione, la stessa era da considerarsi implicita nella domanda di riconoscimento della servitù” (così ricorso, pag. 25), viepiù alla luce del contenuto sostanziale di tale domanda e del rilievo per cui il suo immobile era accessibile unicamente attraverso l’area cortilizia.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione sotto altro profilo dell’art. 112 c.p.c..

Deduce che nella comparsa di costituzione in seconde cure con appello incidentale ha addotto “la sussistenza di una servitù di passaggio da tempo immemorabile per destinazione del padre di famiglia” (così ricorso, pag. 27); che la corte distrettuale non ha tenuto conto di tale prospettazione.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 906 c.c..

Deduce che la corte territoriale ha “sbrigativamente” respinto l’appello incidentale, con il quale aveva censurato il primo dictum nella parte in cui aveva accolto la domanda attorea relativa alla canna fumaria.

Deduce segnatamente che la collocazione originaria della canna fumaria si conforma alle distanze legali ed in pari tempo che il consulente d’ufficio, alla cui valutazioni la corte romana si è uniformata, ha solo presunto l’esistenza e la nocività delle immissioni, ossia non le ha riscontrate tecnicamente.

Il primo, il secondo ed il terzo motivo sono strettamente connessi; il che ne giustifica la disamina congiunta; in ogni caso il secondo ed il terzo motivo sono fondati e meritevoli di accoglimento; il loro buon esito assorbe e rende vana la disamina del primo.

E’ fuor di dubbio che la proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei cosiddetti diritti “autodeterminati”, individuati, cioè, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto sì come rappresentato dal bene che ne forma l’oggetto, con la conseguenza che la “causa petendi” delle relative azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo – contratto, successione ereditaria, usucapione, etc. – che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non ha, per l’effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda, essendo, viceversa, necessaria ai soli fini della prova; non viola pertanto il divieto dello “ius novorum” in appello la deduzione da parte dell’attore – ovvero il rilievo “ex officio iudicis” – di un fatto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda introduttiva del giudizio (cfr. Cass. 4.3.2003, n. 3192; Cass. 24.11.2010, n. 23851, secondo cui i diritti reali, in quanto diritti assoluti, appartengono alla categoria dei diritti cosiddetti “autodeterminati”, che si identificano in base alla sola indicazione del loro contenuto e non per il titolo che ne costituisce la fonte; pertanto, da un lato, l’attore può mutare titolo della domanda senza incorrere nelle preclusioni della modifica della “causa petendi”, dall’altro, il giudice può accogliere il “petitum” in base ad un titolo diverso da quello dedotto senza violare il principio della domanda di cui all’art. 112 c.p.c.; Cass. 22.7.2014, n. 16684).

In questi termini, al cospetto dell’actio confessoria servitutis esperita in via riconvenzionale dall’originario convenuto, si osserva quanto segue.

Per un verso, per nulla si giustifica l’affermazione della corte d’appello a tenor della quale, “non essendo stata proposta specifica domanda di riconoscimento dell’acquisto per usucapione della servitù, il Tribunale è incorso palesemente in vizio di extrapetizione” (così sentenza d’appello, pag. 2).

Per altro verso, appieno si condivide l’assunto del ricorrente, specificamente veicolato dal secondo mezzo ed ancorato all’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte dapprima menzionata (il ricorrente ha richiamato l’insegnamento n. 16684 del 22.7.2014 di questo Giudice del diritto), a tenor del quale “appare evidente il vizio in cui è incorsa la Corte di merito” (così ricorso, pag. 26).

Per altro verso ancora, debitamente si rimarca che quel che il ricorrente denuncia con il secondo (e con il terzo motivo di ricorso) non è propriamente un vizio di omessa pronuncia, viepiù chè la corte distrettuale ha pronunciato (“non essendo stata proposta specifica domanda di riconoscimento dell’acquisto per usucapione della servitù (…)”: così sentenza d’appello, pag. 2). Sibbene l’erronea “lettura” della “proiezione” della causa petendi dell’esperita actio confessoria correlata alla natura “autodeterminata” del preteso diritto reale di servitù. Cosicchè in parte qua non vengono in rilievo – contrariamente agli assunti della controricorrente (cfr. controricorso, pagg. 14, 15 e 19; cfr. memoria, pagg. 3, 4 e 6) – le indicazioni di cui alla pronuncia n. 17931 del 24.7.2013 delle sezioni unite di questa Corte (e dunque la necessità che, con riguardo all’art. 112 c.p.c., il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dall’omissione di pronuncia). D’altronde, sulla scorta dell’insegnamento n. 3041 del 13.2.2007 delle sezioni unite di questa Corte, il ricorrente ha correttamente addotto che l’interpretazione della domanda deve essere diretta a coglierne, al di là delle espressioni letterali utilizzate, il contenuto sostanziale, quale desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito con il ricorso all’autorità giudiziaria.

Negli esposti termini, evidentemente, appieno si giustifica pur la ragione di censura veicolata dal terzo motivo, ovvero la deduzione secondo cui la corte territoriale non ha in alcun modo vagliato l’ulteriore titolo – costituzione per destinazione del padre di famiglia – prefigurato a fondamento della servitù con la comparsa di costituzione e risposta con appello incidentale (“risulta quindi per tabulas la sussistenza della servitù di passaggio (…) da tempo immemorabile e per destinazione del padre di famiglia”: così comparsa di costituzione in appello, pag. 7) e di certo non integrante domanda nuova.

Negli esposti termini, inoltre, resta assorbita nel buon esito del secondo e del terzo mezzo qualsivoglia valutazione in ordine alle ragioni di censura veicolate dal primo mezzo, segnatamente in ordine all’asserito mancato ovvero erroneo riscontro degli esiti probatori, e documentali e testimoniali, sì che – si assume – la corte di Roma “non ne ha tratto le necessarie conseguenze in ordine al requisito temporale di esercizio della servitù” (così ricorso, pag. 23).

Il quarto motivo di ricorso è infondato e va respinto.

Si premette che il mezzo in disamina si qualifica in rapporto alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Invero con il mezzo de quo agitur il ricorrente sostanzialmente censura il giudizio “di fatto” cui la corte romana ha atteso (“le valutazioni espresse dalla Corte di merito, peraltro senza alcun serio riscontro tecnico (…)”: così ricorso, pag. 31). Ed è esattamente la previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054; cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499).

Su tale scorta l’asserito vizio motivazionale veicolato dal motivo in esame è da vagliare, oltre che in rapporto alla novella formulazione dell’artr. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nel segno della pronuncia n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte.

In quest’ottica si osserva quanto segue.

Da un canto è da escludere recisamente che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” destinate ad acquisire significato alla luce della pronuncia a sezioni unite testè menzionata, possa scorgersi in relazione alle motivazioni cui, in parte qua agitur, è ancorato il dictum della corte capitolina.

In particolare, con riferimento all’assunto secondo cui “la Corte di merito ha sbrigativamente “liquidato” la censura (…)” (così ricorso, pag. 31), si evidenzia che tra i vizi motivazionali destinati ad acquisir valenza alla luce della suindicata statuizione delle sezioni unite di certo non è annoverabile il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

In particolare, con riferimento al paradigma della motivazione “apparente” – che ricorre allorquando il giudice di merito non procede ad una approfondita disamina logico – giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 21.7.2006, n. 16672) – si evidenzia che la corte d’appello ha compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il proprio iter argomentativo (la corte ha ulteriormente chiarito che “la ubicazione della canna fumaria per lo smaltimento di gas di scarico della caldaia (…), pur rispettando le distanze legali, è in perpendicolare a breve distanza dalle finestre della F.”: così sentenza d’appello, pag. 2).

D’altro canto la corte distrettuale ha sicuramente disaminato il fatto storico dalle parti discusso, a carattere decisivo, connotante in parte qua la res litigiosa, ovvero la nocività delle immissioni di fumo.

Del resto il ricorrente censura l’asserita erronea valutazione delle risultanze di causa (“la Corte di merito non poteva (…) respingere l’appello incidentale sulla base di valutazioni sulla nocività delle immissioni, solo presunte, in quanto prive di riscontro tecnico così ricorso, pag. 32).

E tuttavia il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892; Cass. (ord.) 26.9.2018, n. 23153).

In accoglimento del secondo e del terzo motivo di ricorso la sentenza n. 4214 del 24.6.2014 della corte d’appello di Roma va, in relazione e nei limiti degli stessi motivi, cassata con rinvio ad altra sezione della medesima corte.

All’enunciazione – in ossequio alla previsione dell’art. 384 c.p.c., comma 1 – del principio di diritto – al quale ci si dovrà uniformare in sede di rinvio – può farsi luogo per relationem, negli stessi termini espressi dalle massime desunte dagli insegnamenti di questa Corte n. 3192/2003 e n. 23851/2010 dapprima citati.

In sede di rinvio si provvederà alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Il ricorso è da accogliere. Non sussistono i presupposti perchè, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, il ricorrente sia tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione a norma dell’art. 13 D.P.R. cit., comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso, assorbito il primo motivo; rigetta il quarto motivo; cassa – in relazione e nei limiti dei motivi accolti – la sentenza n. 4214 del 24.6.2014 della corte d’appello di Roma; rinvia ad altra sezione della stessa corte d’appello anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità; non sussistono i presupposti perchè, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, il ricorrente, G.P., sia tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione a norma dell’art. 13 D.P.R. cit., comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sez. seconda civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 17 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2019

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