Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23562 del 09/10/2017


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Cassazione civile, sez. II, 09/10/2017, (ud. 04/07/2017, dep.09/10/2017),  n. 23562

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17886/2014 proposto da:

U.A., elettivamente domiciliato a Roma, via Arno, n. 47,

presso lo studio dell’Avvocato BRUNO BOTTA e rappresentato e difeso

dall’Avvocato TERENZIO SCHIRRU, per procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrenti –

contro

D.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 301/2013 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 15/5/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/07/2017 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

Fatto

I FATTI DI CAUSA

U.A. ha convenuto, innanzi al Tribunale di Cagliari, D.M., chiedendo che fosse dichiarata la nullità degli atti con i quali, in data 6/1/1999 e 13/2/1999, aveva acquistato da quest’ultimo quote pari, complessivamente, al 50% della società AIRPORT 99, esercente attività di disco-pub, sul rilievo che, trattandosi di società non ancora costituita, i contratti in questione hanno avuto ad oggetto una prestazione impossibile.

Il convenuto, costituitosi in giudizio, ha eccepito che la società era stata costituita con atto del 18/1/1999 e che l’attore, unitamente ad altri soci, aveva iniziato l’attività di disco-pub.

Il Tribunale di Cagliari, con sentenza del 24/5/2010, ha rigettato la domanda.

La corte d’appello di Cagliari, con sentenza del 15/5/2013, ha confermato la sentenza impugnata.

La corte, dopo aver evidenziato, in fatto, che: con contratto preliminare del 6/1/1999, denominato “vendita dell’azienda”, le parti si erano obbligate, rispettivamente, ad acquistare e vendere una quota pari al 25% del patrimonio relativo alla costituenda società AIRPORT 99, comprensiva di tutti gli elementi che concorrono a formare il patrimonio aziendale; con atto pubblico del 18/1/1999, era stata, invece, costituita un’associazione denominata AIRPORT 99 -circolo ACLI, senza scopo di lucro; che tali contratti, in quanto finalizzati alla gestione in forma associativa dell’attività di disco-pub, erano tra loro collegati: “valutato unitamente il contenuto del contratto preliminare e dell’atto pubblico di costituzione della associazione, risulta chiaro che le parti, fin dalla stipulazione del contratto preliminare, intesero accordarsi nel senso di consentire all’ U. di partecipare, in misura proporzionale ai conferimenti effettuati, alla futura associazione che doveva essere costituita nell’imminenza”; l’equivocità delle espressioni utilizzate nel preliminare, con l’indistinto riferimento alla “vendita di azienda”, all’acquisto di una quota del “patrimonio relativo alla costituenda società esercente l’attività di disco-pub” e che la vendita fosse comprensiva di “tutti gli elementi che concorrono a formare il patrimonio aziendale”, escludeva che i contraenti intendessero riferirsi ad una società non ancora costituita ovvero ad un’azienda già in essere della quale trasferire una quota, tanto più a fronte dello stretto lasso temporale intercorso tra il preliminare e l’atto pubblico, il quale dimostra come le parti, al momento del preliminare, avessero deciso o comunque erano consapevoli che l’attività di disco-pub sarebbe stata svolta nelle forme di un’associazione senza scopo di lucro;

e dopo aver evidenziato, in diritto, che il contratto definitivo è l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni tra le parti;

ha, in sostanza, ritenuto, al pari del tribunale, che l’atto del 6/1/1999 abbia validamente avuto ad oggetto il trasferimento, a titolo oneroso, del diritto dell’ U. di partecipare ad un’associazione senza fini di lucro che le parti avevano intenzione di costituire, come di fatto è avvenuto, con atto pubblico del 18/1/1999, tra l’ U., il D. e tale De.Ef.: il trasferimento della qualità di associato non è, infatti, precluso dall’art. 37 c.c., “perchè, manifestamente, esso non implica divisione del fondo comune nè è identificabile col recesso, comportando solo 11 subentro dell’acquirente al membro uscente, senza pregiudizio per la sopravvivenza dell’associazione”: piuttosto, come già rilevato dal tribunale (v. la sentenza, p. 5), “la intrasferibilità della qualità di associato (e, quindi, delle situazioni soggettive che la compongono) potrebbe, semai, dedursi, in astratto, dell’art. 24 c.c., comma 1 (analogicamente – secondo la giurisprudenza prevalente – o direttamente – secondo parte della dottrina – applicabile anche alle associazioni non riconosciute, stante la tipologia strutturalmente identica a quella delle associazioni riconosciute), il quale, però, ha carattere dispositivo, potendo essere la trasmissibilità consentita dall’atto costitutivo o dallo statuto ovvero, in mancanza, dalla volontà unanime degli associati”: nella specie, però, ha concluso la corte, lo statuto dell’associazione non risulta prodotto in giudizio sicchè non è dato sapere se in esso fossero o meno previsti divieti relativi alla cessione delle quote di partecipazione, mentre, per ciò che riguarda il contratto del febbraio 1999, con il quale l’appellante ha acquistato l’ulteriore quota del 25% dell’associazione, è stato stipulato con l’accordo di tutti i soci.

U.A., con ricorso notificato il 30/6/2014 e depositato il 21/7/2014 (il 20/7/2014 è stata domenica), ha chiesto, per quattro motivi, la cassazione della sentenza, dichiaratamente non notificata.

D.M. è rimasto intimato.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, il ricorrente, denunciando la

violazione e la falsa applicazione delle norme in materia di contratto di cui all’art. 1325 c.c., nn. 1 e 5 e art. 1418 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 2, ha censurato la sentenza impugnata per non aver affermato la nullità della scrittura privata del 6/1/1999, pur se la stessa ha avuto ad oggetto la vendita di quote di una società non ancora costituita e, quindi, un oggetto inesistente o impossibile da realizzare, non potendosi tale atto considerare collegato all’atto pubblico con il quale, in data 18/1/1999, è stata costituita l’associazione denominata Airport 99 – circolo ACLI: in realtà, ha osservato il ricorrente, la scrittura privata del 6/1/1999 ha avuto ad oggetto la vendita di quote di una società di capitali ed è, quindi, incompatibile con la costituzione di una associazione (che al momento del preliminare non esisteva ancora) che non ha scopo di lucro e non persegue il fine, che è stato oggetto del preliminare, di distribuire utili; d’altra parte, il diritto di costituire l’associazione appartiene alla libera volontà dei partecipanti e non è, quindi, nella disponibilità di un terzo che ne possa concordare per contratto la vendita: “ipotizzando che un negozio giuridico possa impegnare un soggetto a trasferire ad un altro il diritto di partecipare ad una associazione non ancora costituita…, si cade nell’errore di considerare nella disponibilità del primo ciò che attiene solo ed esclusivamente alla libertà del secondo…”.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente, denunciando la violazione e la falsa applicazione delle norme in materia di contratti di cui all’art. 1363 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 2, nonchè la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., (n. 5), ha censurato la sentenza impugnata per aver affermato che, sin dalla stipulazione del preliminare, le parti intesero accordarsi nel senso di consentire all’ U. di partecipare, in misura proporzionale ai conferimento effettuati, alla futura associazione che doveva essere costituita nell’imminenza, laddove, al contrario, se si tiene conto del senso letterale delle parole, che costituisce un imprescindibile dato di partenza dell’indagine volta a stabilire l’effettiva volontà dei contraenti, i termini utilizzati nel preliminare, come “società”, “quote” e “patrimonio aziendale”, escludono che la volontà delle parti sia stata quella di costituire un’associazione, tanto più se ad essa si attribuisce uno scopo commerciale con fini di lucro e partecipazione agli utili, avendo avuto, piuttosto, ad oggetto la costituzione di una società commerciale esercente l’attività di “disco-pub”.

3. Il primo ed il secondo motivo, riguardando censure all’interpretazione che la corte d’appello ha dato della scrittura privata del 6/1/1999, sono tra loro evidentemente connessi e, come tali, devono essere esaminati congiuntamente, e non sono fondati. Rileva la Corte che, in linea di principio, l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che, ratione temporis, nelle ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del c.d. “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione attualmente vigente, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dall’art. 1362 c.c. e segg. (Cass. n. 14355/2016, in motiv.; Cass. n. 7927/2017).

Costituisce, in effetti, principio di diritto del tutto consolidato presso questa Corte quello secondo il quale, con riguardo all’interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice di merito, l’invocato sindacato di legittimità non può avere ad oggetto la ricostruzione della volontà delle parti (Cass. n. 7927/2017, in motiv.), che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore agli artt. 1362 c.c. e segg., e sulla (in) coerenza e (il) logicità della motivazione addotta: l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione (Cass. n. 2465/2015, in motiv.).

Il sindacato di legittimità può avere, quindi, ad oggetto solamente l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (Cass. n. 7927/2017, in motiv.).

Pertanto, al fine di riscontrare l’esistenza dei denunciati errori di diritto o vizi di ragionamento, non basta che il ricorrente faccia un astratto richiamo alle regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., occorrendo, invece, che specifichi i canoni in concreto inosservati e il punto e il modo in cui il giudice di merito si sia da essi discostato (Cass. n. 7472/2011).

Nel caso di specie, il ricorrente ha, in sostanza, censurato la sentenza impugnata per aver trascurato il senso letterale delle parole, che costituisce un imprescindibile dato di partenza dell’indagine volta a stabilire l’effettiva volontà dei contraenti, affermando, invece, che le parti, sin dalla stipulazione della scrittura del 6/1/1999, intendevano, in realtà, accordarsi nel senso di consentire all’ U. di partecipare, in misura proporzionale ai conferimento effettuati, alla futura associazione che doveva essere costituita nell’imminenza.

Si tratta, tuttavia, di un rilievo che non tiene conto del fatto che, al contrario, come questa Corte ha avuto modo di affermare in tema di interpretazione del contratto, risponde ad orientamento consolidato che, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate (Cass. n. 7927/2017, in motiv.), precisandosi, tuttavia, che il rilievo da assegnare alla formulazione letterale dev’essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, le singole clausole dovendo essere considerate in correlazione tra loro procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell’art. 1363 c.c., giacchè per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. 23701/2016, in motiv.; Cass. n. 7927/2017, in motiv.).

Va, d’altro canto, sottolineato che, pur assumendo l’elemento letterale funzione fondamentale nella ricerca della reale o effettiva volontà delle parti, il giudice deve invero a tal fine necessariamente riguardarlo alla stregua degli ulteriori criteri di interpretazione, ed, in particolare, di quello dell’interpretazione funzionale (art. 1369 c.c.), volto ad accertare il significato dell’accordo in coerenza con la relativa ragione pratica o causa concreta.

Assume, dunque, fondamentale rilievo che il contratto venga interpretato avuto riguardo alla sua ratio, alla sua ragione pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione contrattuale (Cass. n. 23701/2016).

E così, più di recente, è stato affermato che, in tema di interpretazione del contratto, la comune intenzione dei contraenti deve essere ricercata avendo riguardo al senso letterale delle parole da verificare alla luce dell’intero contesto negoziale ai sensi dell’art. 1363 c.c., nonchè ai criteri d’interpretazione soggettiva di cui agli artt. 1369 e 1366 c.c., e volti, rispettivamente, a consentire l’accertamento del significato dell’accordo in coerenza con la relativa ragione pratica o causa concreta e ad escludere inter relazioni cavillose deponenti per un significato in contrasto con gli interessi che le parti hanno voluto tutelare mediante la stipulazione negoziale (Cass. n. 7927/2017).

Il giudice, infine, per ricostruire la volontà delle parti, deve tener conto anche del loro comune comportamento, pur se successivo alla stipulazione (Cass. n. 14006/2017).

Nell’interpretazione del contratto, il dato testuale, pur assumendo un fondamentale rilievo, non può, quindi, essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione del contenuto dell’accordo, giacchè il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, il quale, a sua volta, non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sè chiare e non bisognose di approfondimenti interpretativi.

Infatti, un’espressione prima facie chiara può non apparire più tale se collegata ad altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti e del loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto.

In breve, tali due criteri concorrono fra loro in via paritaria nel definire la comune volontà delle parti e non sono tra loro in competizione o in relazione gerarchica (Cass. n. 24560/2016).

Nel caso in esame, la corte d’appello, dopo aver evidenziato che, a mezzo della scrittura privata del 6/1/1999, intitolata “vendita dell’azienda”, le parti si erano obbligate, rispettivamente, ad acquistare e vendere una quota pari al 25% del patrimonio relativo alla costituenda società AIRPORT 99, comprensiva di tutti gli elementi che concorrono a formare il patrimonio aziendale, e che, a mezzo di atto pubblico del 18/1/1999, era stata, invece, costituita un’associazione denominata AIRPORT 99-circolo ACLI, senza scopo di lucro, ha per un verso, escluso, a fronte delle equivoche espressioni utilizzate nel preliminare (con l’indistinto riferimento alla “vendita di azienda”, all’acquisto di una quota del “patrimonio relativo alla costituenda società esercente l’attività di disco-pub” ed al fatto che la vendita fosse comprensiva di “tutti gli elementi che concorrono a formare il patrimonio aziendale”), che i contraenti avessero effettivamente inteso riferirsi ad una società non ancora costituita ovvero ad un’azienda già in essere della quale trasferire una quota, e, per altro verso, affermato che tali atti (e cioè il contratto del 6/1/1999 e l’atto pubblico del 18/1/1999 di costituzione dell’associazione AIRPORT 99), in quanto finalizzati alla gestione in forma associativa dell’attività di disco-pub, sono tra loro collegati, rilevando, in particolare, che, “valutato unitamente il contenuto del contratto preliminare e dell’atto pubblico di costituzione della associazione, risulta chiaro che le parti, fin dalla stipulazione del contratto preliminare, intesero accordarsi nel senso di consentire all’ U. di partecipare, in misura proporzionale ai conferimenti effettuati, alla futura associazione che doveva essere costituita nell’imminenza”, tanto più a fronte dello stretto lasso temporale intercorso tra il preliminare e l’atto pubblico, il quale conferma come le parti, al momento del preliminare, avessero deciso o comunque erano consapevoli che l’attività di disco-pub sarebbe stata svolta nelle forme di un’associazione senza scopo di lucro che le parti avevano intenzione di costituire, come di fatto è avvenuto, con atto pubblico del 18/1/1999, tra l’ U., il D. e tale De.Ef..

Si tratta, come è evidente, di un’interpretazione senz’altro rispettosa dei criteri ermeneutici prima esposti, volta com’è a dare rilievo tanto al dato letterale, quanto, a fronte della sua equivocità, agli interessi (vale a dire la gestione in forma associata dell’attività di disco-pub) che l’operazione ha inteso realizzare.

Nè la motivazione che la corte ha fornito è suscettibile di censura.

La sentenza impugnata è stata depositata dopo l’11/9/2012, trovando, dunque, applicazione l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore successivamente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito con modificazioni con la L. n. 134 del 2012, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione solo in caso omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Ed è noto come, secondo le Sezioni Unite (n. 8053/2014), la norma consente di denunciare in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Nel caso in esame, la corte d’appello ha illustrato le ragioni per le quali ha ritenuto che le parti si erano accordate nel senso di “consentire all’ U. di partecipare, in misura proporzionale ai conferimenti effettuati, alla futura associazione che doveva essere costituita nell’imminenza”: e l’esistenza di tale motivazione, non apparente nè manifestamente illogica, esclude – corretta o meno che sia – la sussistenza del vizio invocato.

La valutazione degli elementi istruttori costituisce, del resto, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione.

Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), il giudice civile, infatti, ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti.

Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati (Cass. SU n. 898/1999; Cass. n. 11176/2017).

D’altra parte, ammesso che possa rilevare, la motivazione omessa o insufficiente è configurabile solo quando dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. SU n. 24148/2013).

Nel caso di specie, i giudici di merito, facendo rinvio alle prove documentali acquisite, hanno, in modo logico e coerente, indicato le ragioni della loro decisione.

Nè, del resto, l’operazione negoziale, così come ricostruita, in fatto, dalla corte d’appello, risulta incoerente con le norme in materia di associazione: ed infatti, ciò che caratterizza la società, secondo la nozione espressa dall’art. 2247 c.c., è che lo svolgimento in comune tra i soci di un’attività economica sia previsto a scopo di lucro, il quale consiste non solo nel perseguimento di un utile ma anche nella volontà di ripartirlo tra i soci (Cass. n. 13234/2011). Ne deriva che l’eventuale esercizio di un’attività economica da parte di un’associazione non riconosciuta non costituisce di per sè elemento sufficiente ad attribuire a tale organismo collettivo la natura giuridica di società, ai fini della applicazione delle relative norme di legge, ove non sia prevista la divisione dei relativi utili tra gli associati (Cass. n. 5836/2013; conf., Cass. n. 17971/2006).

Di tali principi normativi la Corte di merito ha fatto corretta applicazione, là dove ha evidenziato che le parti hanno inteso accordarsi “per consentire all’ U. di partecipare, in misura proporzionale ai conferimenti effettuati, alla futura associazione che doveva essere costituita nell’imminenza” per “gestire, in forma associativa, l’attività di disco-pub” “senza fini di lucro”.

E neppure, infine, appare fondata la censura con la quale il ricorrente ha, implicitamente ma inequivocamente, contestato la validità dell’accordo del 6/1/1999 così come ricostruito dalla corte d’appello, vale a dire un contratto con il quale le parti, obbligandosi reciprocamente alla cessione (e all’acquisto) a titolo oneroso della posizione associativa, hanno, appunto, inteso accordarsi per consentire all’ U. di partecipare (con l’acquisto della posizione che, altrimenti, sarebbe spettata al promittente alienante) all’associazione che doveva essere costituita nell’imminenza, sul duplice rilievo che, al momento del preliminare, l’associazione non era ancora costituita (con la conseguente mancanza dell’oggetto della cessione, attesa l’incompatibilità logica del trasferimento della partecipazione ad un’associazione prima che la stessa sia venuta ad esistenza) e che il diritto di costituire un’associazione attiene alla libera volontà del soggetto e non può, quindi, considerarsi nella disponibilità di un terzo che ne possa concordare per contratto la vendita.

La corte d’appello, infatti, ha, sul primo punto, affermato senza che il ricorrente abbia sollevato alcuna critica – che il contratto preliminare risulta superato dal contratto definitivo (e cioè, nella specie, dall’atto costitutivo dell’associazione) il quale, pertanto, una volta stipulato, costituisce l’unica fonte dei diritti e degli obblighi delle parti: a voler dire, cioè, che il (presunto) vizio di validità del preliminare (nella specie, per inesistenza dell’associazione e, quindi, delle posizioni associative oggetto della promessa cessione) sarebbe, ove mai esistente, definitivamente assorbito una volta che l’associazione, che costituisce il contratto definitivo, risulta, poi, formalmente costituita (e la posizione associativa promessa in vendita sia stata, come nella specie, concretamente assunta dal promissario acquirente).

Quanto, invece, al secondo profilo, risulta evidente che, una volta che si ritenga possibile (come si vedrà meglio in seguito) la cessione a titolo oneroso della qualità di associato (Cass. n. 12426/1991), deve ritenersi altrettanto possibile che tale cessione sia preceduta dalla stipulazione di un contratto preliminare con il quale le parti, disponendo della loro reciproca libertà di associarsi, si vincolino, se del caso a mezzo di una sua parziale o totale esecuzione anticipata, alla relativa stipulazione.

5. Con il terzo motivo, il ricorrente, denunciandone la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, ha censurato la sentenza impugnata per aver, contraddittoriamente, affermato, da un lato, che è possibile il trasferimento della qualità di associato (e quindi dei diritti e dei doveri che in tale qualità di assommano) e, dall’altro lato, che non è ipotizzabile che tale trasferimento determini l’acquisto, in capo all’acquirente, di una quota ideale del patrimonio associativo, ma solo il conseguimento di altre utilità che alla qualità di associato sono anche indirettamente connesse e che, seppur prive di contenuto patrimoniale, sono suscettibili di valutazione economica e, quindi, contrattabili ai sensi degli artt. 1321 e 1174 c.c., anche a titolo oneroso. Nel caso di specie, ha rilevato ancora il ricorrente, le somme versate per l’acquisto (pari a Lire 37.300.000, per la scrittura privata del 6/1/1999, ed a Lire 40.000.000, per la scrittura privata del 13/2/1999) sono confluite nel patrimonio personale dell’alienante, determinando l’arricchimento personale di quest’ultimo e non dell’associazione.

6. Il motivo non è fondato. Il giudice di merito, infatti, ha, sul punto, seguito l’orientamento, già espresso da questa Corte (Cass. n. 12426/1991, cit., in motiv.), secondo il quale “attesa la struttura corporativa dell’associazione (riconosciuta o non) e la correlata appartenenza ad essa del fondo “comune”, deve… escludersi che quest’ultimo costituisca oggetto di comproprietà dei singoli, secondo il modello proprio della comunione ordinaria…, e se non è ipotizzabile, quindi, che il trasferimento della qualità di associato comporti l’acquisto, da parte dell’alienatario, di una quota (ideale o astratta) del patrimonio associativo, egli consegue, nondimeno, per effetto del trasferimento (o a titolo originario, secondo un diverso punto di vista), altre utilità a siffatta qualità, anche indirettamente, connesse e che, quantunque prive di intrinseco contenuto patrimoniale (data la natura ideale dello scopo perseguito dall’associazione), sono, in ragione, almeno, della patrimonialità dei contributi associativi, suscettibili di valutazione economica e, dunque, sotto questo aspetto, contrattabili, ai sensi degli artt. 1321 e 1174, anche a titolo oneroso”, vale a dire mediante il versamento di un corrispettivo all’associato che ne dispone, come, appunto, è accaduto nel caso di specie.

7. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., ha censurato la sentenza impugnata per aver ritenuto che la produzione in giudizio dello statuto dell’associazione fosse suo onere, traendone conseguenze negative per l’appellante in relazione ai motivi d’appello, laddove, al contrario, avrebbe dovuto considerare valido il divieto di cessione delle quote di partecipazione previsto dall’art. 24 c.c. e, quindi, ritenere che l’onere di produrre in giudizio lo statuto incombesse esclusivamente al convenuto appellato.

8. La corte d’appello, in effetti, dopo aver rilevato che il trasferimento a titolo oneroso della posizione associativa non può ritenersi precluso “… dai divieti di cui all’art. 37 c.c., perchè, manifestamente, esso non implica divisione del fondo comune nè è identificabile col recesso, comportando solo il subentro dell’acquirente al membro uscente, senza pregiudizio per la sopravvivenza dell’associazione” e che “la intrasferibilità della qualità di associato (e, quindi, delle situazioni soggettive che la compongono) potrebbe, semmai, dedursi, in astratto, dell’art. 24 c.c., comma 1 (analogicamente – secondo la giurisprudenza prevalente – o direttamente – secondo parte della dottrina – applicabile anche alle associazioni non riconosciute, stante la tipologia strutturalmente identica a quella delle associazioni riconosciute), il quale, però, ha carattere dispositivo, potendo essere la trasmissibilità consentita dall’atto costitutivo o dallo statuto ovvero, in mancanza, dalla volontà unanime degli associati” (Cass. n. 12426/1991, cit., in motiv.), ha rilevato che, nel caso in esame, lo statuto dell’associazione non era stato prodotto in giudizio, per cui non era dato sapere se in esso fossero o meno previsti dei divieti relativi alla cessione delle quote di partecipazione mentre, con riferimento al contratto del febbraio del 1999, con il quale il D. aveva ceduta all’ U. una ulteriore quota di partecipazione all’associazione, lo stesso fu concluso con l’accordo di tutti i soci.

Ora, a parte quanto affermato per quest’ultimo contratto, che il ricorso per cassazione non censura, rileva la Corte che il motivo non è fondato. Il giudice territoriale, infatti, si è limitato a prendere atto che lo statuto dell’associazione non era stato prodotto in giudizio, ma non ne ha dichiaratamente tratto alcuna conseguenza, nel senso cioè di applicare la residuale regola di giudizio prevista dall’art. 2697 c.c., vale a dire rigettare la domanda dell’attore-appellante solo perchè i relativi fatti costitutivi non sono risultati provati. E, comunque, bene ha fatto, posto che, come in precedenza osservato, l’operazione che la corte territoriale ha, in fatto, ricostruito, non consiste nella cessione della qualità di associato stipulata successivamente alla costituzione dell’associazione Airport 99, con il divieto previsto dall’art. 24 c.c., comma 1, quanto il contratto preliminare con il quale, prima della formale costituzione dell’associazione (e, per l’effetto, della relativa disciplina), il ricorrente e l’intimato si sono obbligati reciprocamente alla cessione (e all’acquisto) a titolo oneroso della posizione associativa, accordandosi per consentire all’ U. di partecipare (con l’acquisto della posizione che, altrimenti, sarebbe spettata al promittente alienante) all’associazione che doveva essere costituita di lì a poco.

9. Il ricorso dev’essere, in definitiva, rigettato.

10. Nulla per le spese di giudizio, in difetto di costituzione in giudizio dell’intimato.

11. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese di lite. Dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 4 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2017

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