Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23553 del 10/11/2011

Cassazione civile sez. II, 10/11/2011, (ud. 13/10/2011, dep. 10/11/2011), n.23553

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sui ricorsi r.g.nn. 4829 e 5711 /2006 proposti da:

– D.M.L. (c.f. (OMISSIS)) rappresentata e

difesa dall’avv. Finocchito Mauro ed elettivamente domiciliata presso

lo studio dell’avv. Pellegrino Giovanni in Roma, corso Rinascimento

n. 11, giusta procura a margine del ricorso principale;

– ricorrente e contro ricorrente al ricorso incidentale –

contro

– s.r.l. FIBELL (c.f. (OMISSIS)) in persona della sua legale

rappresentante pro tempore B.M.; rappresentata e difesa

dall’avv. Torricelli Valentino ed elettivamente domiciliata presso lo

studio dell’avv. Alberto Angeletti in Roma, via Giuseppe Pisanelli n.

2, giusta procura a margine del controricorso contenente ricorso

incidentale;

– contro ricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 629/05 della Corte d’Appello di Lecce,

pubblicata il 7/10/2005;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

13/10/2011 dal Consigliere Dott. Bruno Bianchirli;

Udito il procuratore della ricorrente avv. Finocchito Mauro, che ha

concluso per l’accoglimento del ricorso principale ed il rigetto di

quello incidentale;

Udito il procuratore della controricorrente avv. Torricelli

Valentino, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e

l’accoglimento di quello incidentale;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. GOLIA Aurelio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso principale e l’assorbimento di quello incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

D.M.L. citò, con atto del luglio 1993, la srl Fibell Costruzioni chiedendo che arretrasse un edificio frontistante il proprio appartamento in (OMISSIS), perchè costruito a distanza minore dalla legale (10 metri) misurata dalla superficie esterna dei balconi “aperti” siti nell’opposto fabbricato.

La convenuta si costituì affermando che il computo delle distanze avrebbe dovuto essere operato tenendo conto solo delle superfici finestrate (facciate).

Il Tribunale di Lecce, con sentenza 3712/2000, accolse la domanda.

La Corte di Appello di Lecce, decidendo sull’impugnazione della Fibell e nella resistenza di D.M.L., erede dell’originario attore, accolse il gravame rilevando che, tra il momento in cui era stata rilasciata la concessione edilizia – 1991 – e quello della proposizione della domanda, era entrato in vigore (nel luglio 1998) un nuovo regolamento edilizio (adottato dal Comune di Otranto nell’anno 1987), che invece prevedeva che dal computo delle distanze dovessero essere esclusi i balconi aperti a sbalzo, quali quelli edificati nel fabbricato della Fibell, e che detta normativa, pur costituendo jus superveniens, dovesse essere applicata anche alle costruzioni ultimate in precedenza, per un principio di favor dei cittadini; respinse peraltro la riproposta domanda di risarcimento dei danni – per il periodo tra l’edificazione e la sopravvenienza della nuova normativa – da parte della M., per carenza di prova del danno sofferto. La D.M. ha ricorso per la cassazione della sentenza sulla base di quattro motivi; la Fibell ha proposto controricorso con ricorso incidentale; a sua volta la D. M. ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I ricorsi principale ed incidentale sono, de jure, oggetto di trattazione congiunta, non avendo formato oggetto di autonoma proposizione, tale da non rendere necessaria una formale pronunzia di riunione à sensi dell’art. 335 c.p.c..

1 – Con il primo motivo viene fatta valere la “violazione e falsa applicazione dell’art. 873 c.c. come integrato dalla “nota 7″ del P.d.F. e dall’art. 23, commi 13 e 14 del R.E.C. accluso al vigente P.G.R. del Comune di Otranto; violazione D.M. 1 aprile 1968, n. 1444, art. 9; motivazione perplessa, insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia”, assumendosi l’erroneità del presupposto argomentativo della Corte leccese in merito all’influenza dell’intervenuta modifica dello strumento urbanistico, là dove avrebbe affermato la permanente vigenza del precedente piano di fabbricazione, interpretandolo peraltro alla luce delle nuove previsioni del successivo regolamento edilizio comunale; al contrario si assume che, sia il piano di fabbricazione che il regolamento edilizio, perderebbero efficacia al momento dell’entrata in vigore del nuovo strumento urbanistico generale (il piano regolatore generale) con accluso nuovo regolamento edilizio; altrettanto non condivisibile, per la ricorrente, sarebbe poi l’assunto che il nuovo regolamento edilizio prevedrebbe una disciplina “più favorevole per il cittadino”. Si censura altresì la decisione della Corte di Appello là dove non avrebbe rilevato la violazione di un’altra prescrizione del regolamento edilizio, vale a dire quella che imponeva di mantenere tra i fabbricati una distanza minima non inferiore all’altezza massima (vale a dire l’altezza del fabbricato più alto) delle fronti dei fabbricati contrapposti e comunque non inferiore a 10 metri.

2 – Con il secondo motivo si deduce analoga violazione e falsa applicazione di legge (oltre che vizio di motivazione) per aver, il giudice dell’appello, ritenuto “balconi a sbalzo” quelli che erano solo “balconi aperti”; afferma in proposito la ricorrente che nella propria relazione il consulente tecnico di ufficio non avrebbe affermato essersi in presenza di balconi aperti a sbalzo ma solo che gli stessi sarebbero stati privi di copertura ed a sbalzo.

3 – Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 872, comma 2, nonchè la motivazione insufficiente nel punto in cui è stata respinta la domanda di risarcimento del danno (che si assume in re ipsa) per la violazione delle distanze ritenendo carente la allegazione di elementi, pur se solo induttivi, relativi alla concreta incidenza del pregiudizio nella sfera patrimoniale della ricorrente, elementi invece specificamente forniti.

4 – Con il quarto motivo si censura la decisione di compensare le spese.

5 – Con l’unico motivo di ricorso incidentale la srl Fibell fa valere l’omessa od insufficiente motivazione laddove la Corte territoriale avrebbe omesso di precisare, sulla scorta delle espletate consulenze di ufficio, la presenza di ulteriori circostanze a favore della tesi della legittimità del proprio operato, con la riaffermazione della non legittimità del computo dei balconi nel calcolo delle distanze.

5 – Va preliminarmente disattesa l’eccezione della s.r.l. Fibell diretta a far valere la preclusione dell’esame dei primi due motivi, derivante dall’esistenza di un giudicato implicito sul metodo da adottare per la misurazione delle distanza tra edifici: ciò in quanto dette censure, come visto, sottopongono a critica proprio le conclusioni alle quali, sul punto, era pervenuta la Corte leccese.

6 – Il primo motivo è fondato 6/a – Ritiene la Corte che sia risolutivo il richiamo al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 (sviluppato argomentativamente soprattutto nella memoria ex art. 378 c.p.c.).

6/b – Sul punto va riportato il condivisibile arresto di Cass. 4413/2001 che aveva innanzi tutto sottolineato come nella giurisprudenza di questa Corte si fosse formato un contrasto di giudicati, essendosi con alcune sentenze deciso che la norma del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 – la quale stabilisce che “è prescritta la distanza di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti – avesse come suoi destinatari soltanto i Comuni, ai quali imponeva l’obbligo di rispettare le sue prescrizioni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici (v. Cass. 1518/1989; Cass. 9041/1992; Cass 1645/1994; Cass. 1256/1997) mentre, con altre pronunce, si sarebbe statuito che la disposizione avrebbe vincolato anche i privati, i quali avrebbero dovuto, perciò, adeguarsi ad essa nell’eseguire costruzioni sui propri fondi (così Cass. 1973/1988;

Cass. 5702/1994). Ciò premesso ricordava l’anzidetta pronunzia che le Sezioni Unite, investite dell’esame della questione controversa, avevano risolto il contrasto giurisprudenziale, con la sentenza n. 5889 del 1997, aderendo all’orientamento per il quale la norma del decreto ministeriale non è operativa nei rapporti tra i privati, ma prescrive determinati limiti inderogabili per i Comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici; aveva altresì sottolineato la Corte, nella pronunzia qui riportata, che, ai fini della decisione del ricorso, sarebbe stato necessario, innanzi tutto, rilevare che tale norma aveva efficacia di legge dello Stato, essendo stato emanato il decreto che la conteneva su delega della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, il cui art. 41 quinquies, (introdotto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17) disponeva nel comma penultimo: “In tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, devono essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di altera, di distanza tra fabbricati, nonchè rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”; e, nell’ultimo comma: “I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma, sono definiti per zone territoriali omogenee con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per l’interno, sentito il Consiglio dei lavori pubblici. Da ciò la Corte aveva tratto il convincimento che l’accertata efficacia legislativa del decreto ministeriale obbligasse i Comuni a redigere e revisionare gli strumenti urbanistici senza discostarsi dalle regole inderogabili da esso fissate, perchè l’autonomia normativa loro conferita dall’art. 33 della menzionata legge nella materia edilizia e, in particolare, in quella delle distanze tra fabbricati, avrebbe incontrato un limite insuperabile nell’art. 4 delle disposizioni sulla legge in generale, per il quale una norma regolamentare locale non può apportare modifiche a norme di rango superiore. E lo stesso art. 33, nell’attribuire ai Comuni il potere regolamentare, stabiliva che esso deve essere esercitato “in armonia con le disposizioni della presente legge”, il che avrebbe comportato, da parte di tali Unti, anche l’osservanza del D.M. del 1968, art. 9 il quale, per quel che si è detto, traeva la sua forza cogente dall’art. 41 quinquies della medesima legge. Ne conseguiva, secondo la richiamata decisione, che, il Giudice, data la prevalenza della legge dello Stato sulla normativa comunale, non avrebbe potuto decidere le cause in base a un precetto di quest’ultima che fosse risultato illegittimo, perchè in contrasto con la prima, ed avrebbe, quindi, dovuto procedere alla determinazione della disposizione da applicare in sua sostituzione.

E, per quanto riguarda le distanze, la disposizione si sarebbe identificata con quella del menzionato art. 9 la quale sarebbe stata applicabile, però, come norma, non del D.M. del 1968, bensì dello strumento urbanistico, di cui era divenuta parte integrante, previa espunzione da esso della regola originaria, E, proprio perchè il rapporto tra i privati non era disciplinato direttamente dalla norma del decreto ministeriale, ma restava pur sempre soggetto a una regola dello strumento urbanistico, sia pure nella sua nuova formulazione, avrebbe dovuto escludersi che il procedimento sostitutivo adottato avesse introdotto un vulnus al principio secondo cui i Comuni sono gli unici destinatari dei limiti inderogabili fissati dal provvedimento governativo.

6/c – Ne consegue che la Corte leccese, avendo dato esclusivo rilievo alla previsione del successivo strumento urbanistico in merito di esclusione dei balconi dal computo delle distanze, non si è attenuta ai suesposti principi, così integrando i presupposti per la cassazione della sentenza nel punto di interesse.

7 – Il secondo motivo, attinente alla identificazione delle caratteristiche strutturali dei balconi, deve essere respinto in quanto introducente una valutazione di fatto che e inibita a questa Corte e di fatto superato dalle considerazioni che precedono.

8 – E’ fondato il terzo motivo in quanto la Corte distrettuale non si è attenuta al principio in base al quale l’atto edificatorio del vicino in violazione delle norme, del codice o regolamenti comunali, sulle distanze, oltre a ledere gli interessi pubblici sottesi alla disciplina concernente l’assetto del territorio, pone in essere un’attività edilizia eccedente, quanto è previsto, nei rapporti tra confinanti, dalla normativa conformativa del diritto di proprietà, sicchè il privato che, nei confronti dell’edificante illegittimo, lamenti la lesione della sua sfera proprietaria, ha diritto, ai sensi dell’art. 872 c.c., comma 2, a una doppia tutela: all’eliminazione dello stato di cose che si è illegittimamente creato e al risarcimento del danno patito medio tempore. L’inosservanza delle distanze legali nelle costruzioni costituisce per il vicino una limitazione al godimento del bene, e quindi, all’esercizio di una delle facoltà che si riconnettono al diritto di proprietà: per questo il danno è in re ipsa, perchè l’azione risarcitoria è volta a porre rimedio all’imposizione di una servitù di fatto e alla conseguente diminuzione di valore del fondo subita dal proprietario in conseguenza dell’edificazione illegittima del vicino, per il periodo di tempo anteriore all’eliminazione dell’abuso (così Cass. 25475/2010). Del pari la Corte di Appello non ha fatto, nella materia sottoposta al suo giudizio, corretta applicazione del concetto di prova del danno, non attenendosi al prevalente indirizzo – richiamato dalla citata Cass. 25475/2010 con riferimento, tra le più recenti, a Cass. 11196/2010; Cass. 7972/2010; Cass. 3341/2002; Cass. 10600/1999;

Cass. 10775/1994 – secondo il quale l’azione risarcitoria per il danno determinatosi prima della riduzione in pristino, non necessita di una specifica attività probatoria, avendo cura di sottolineare che questa soluzione non determina un eccesso di tutela per il proprietario od uno snaturamento del sistema della responsabilità civile, dal momento che “discorrere di danno in re ipsa, infatti, non significa riconoscere che il risarcimento venga accordato per il solo fatto del comportamento lesivo o si risolva in una pena privata nei confronti di chi violi l’altrui diritto di proprietà, in contrasto, tra l’altro, con la tavola dei valori espressa dalla Carta costituzionale, che riconosce e garantisce la proprietà privata, ma non la inquadra tra i diritti fondamentali della persona umana, per i quali soltanto è predicabile una connotazione di inviolabilità, di incondizionatezza e di primari età; significa, piuttosto, ammettere che, nel caso di violazione di una norma relativa alle distanze tra edifici, il danno che il proprietario subisce (danno conseguenza e non danno evento) è l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo, e quindi della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima” (così la citata Cass. 25475/2010).

8/a – Anche in questo caso, non essendosi attenuta la Corte leccese ai suesposti principi ed avendo fornito – comunque – parte ricorrente, elementi di fatto (quali il valore dell’unità immobiliare esposto nella denuncia di successione), idonei a fondare un giudizio equitativo sull’incidenza patrimoniale del pregiudizio lamentato, va disposta la cassazione del relativo capo di decisione con rinvio per nuovo giudizio alla medesima Corte territoriale in diversa composizione.

9 – Dovendosi il giudice del rinvio pronunziare anche sulle spese, il quarto motivo risulta assorbito.

10 – Va respinto il ricorso incidentale perchè le deduzioni in esso contenute hanno trovato risposta nel valore prevalente da attribuire alle prescrizioni del D.M. n. 1444 del 1968 secondo quanto esposto sub 6/b.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Giudicando sui i ricorsi riuniti, accoglie, per quanto di ragione, il primo motivo del ricorso principale, nonchè il terzo; rigetta il secondo e dichiara assorbito il quarto; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, a diversa sezione della Corte di Appello di Lecce.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 13 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2011

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