Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23550 del 10/11/2011

Cassazione civile sez. II, 10/11/2011, (ud. 07/10/2011, dep. 10/11/2011), n.23550

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

F.O., residente in (OMISSIS), rappresentata e difesa per

procura

in calce al ricorso dagli Avvocati prof. Sepe Vincenzio e Visco

Francesco, elettivamente domiciliata presso il loro studio in Roma,

viale Regina Margherita n. 37.

– ricorrente –

contro

R.L., residente in (OMISSIS), rappresentata e difesa

per

procura in calce al controricorso dagli Avvocati Piersanti Maurizio e

Volpetti Enrico, elettivamente domiciliata presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, via Germanico n. 109.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3648 della Corte di appello di Roma,

depositata il 6 settembre 2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 7

ottobre 2011 dal consigliere relatore dott. Mario Bertuzzi;

udite le difese svolte dall’Avvocato Volpetti Enrico per la

controricorrente;

udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale dott. FUCCI Costantino, che ha chiesto il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato il 23 gennaio 2006, F.O. propone ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, avverso la sentenza n. 3648 del 6 settembre 2005 della Corte di appello di Roma, notificata il 24 novembre 2005, che aveva respinto il suo appello per la riforma della pronuncia di primo grado che aveva dichiarato la falsità del testamento olografo datato 31 agosto 1990 attribuito a D.L. S., deceduto in data 21 settembre 1990, e per l’effetto aveva dichiarato R.L., sulla base di precedenti testamenti, erede universale di quest’ultimo. In particolare, la Corte di appello aveva confermato il giudizio circa la falsità materiale del testamento richiamando le conclusioni dell’esame grafologico svolto dal consulente tecnico d’ufficio nominato nel corso del giudizio, che aveva rilevato come sia il testo che la firma del documento in questione costituissero il prodotto di un’opera di ricalco, aggiungendo che la grafia decisa riscontrabile in esso era incompatibile con lo stato di salute del de cuius, che, in forza della documentazione medica acquisita, era, all’epoca del testamento, soggetto a continuo tremore corporale e non in grado di autodeterminarsi. Resiste con controricorso e successiva memoria R.L..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’unico motivo di ricorso denunzia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2051 c.c. e D.L. n. 285 del 1992, art. 14, comma 1 nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”, censurando la sentenza impugnata per avere fondato le proprie conclusioni esclusivamente sulla base delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, disattendendo in modo del tutto sbrigativo ed immotivato le critiche formulate dal consulente di parte dell’attuale ricorrente, che aveva contestato che il testamento fosse il risultato di un’opera di mero ricalco. Anche con riguardo all’accertamento ed alla descrizione delle condizioni di salute del testatore, il ricorso assume che il giudice di secondo grado è incorso in un palese difetto di valutazione e di motivazione, non dando conto del parere espresso dal prof. P.F. in ordine alla capacità del de cuius di scrivere il testamento e di autodeterminarsi. La ricorrente lamenta, infine, la mancata ammissione delle prove testimoniali, ritenute superflue dal giudice a quo, che invece avrebbero potuto offrire un decisivo contributo nella soluzione dei punti controversi.

Il mezzo appare, prima che infondato, inammissibile.

Inammissibile, per palese inconcludenza, è innanzitutto la censura di violazione di norme di diritto indicata nel titolo del motivo, in cui viene denunziata la violazione di articoli di legge del tutto avulsi dalla materia del contendere e dalle ragioni della decisione, tenuto conto che le prime due disposizioni ivi indicate disciplinano la materia della responsabilità per fatto illecito, mentre la terza risulta dettata dal codice della strada.

Quanto alla censura che lamenta il vizio di motivazione, che in effetti è l’unica ad essere sviluppata nel corpo del motivo, va premesso che, per diritto vivente della giurisprudenza di questa Corte, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni svolte dal Giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne deriva che alla cassazione della sentenza per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal Giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si riveli incompleto, incoerente e illogico, e non già quando il Giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (Cass. n. 13910 del 2011;

cass. n. 12362 del 2006). Ciò comporta che il ricorrente che censura di vizio di motivazione della sentenza ha l’onere di indicare in modo specifico e puntuale le ragioni per cui la motivazione del provvedimento non sarebbe appagante o adeguata e che, laddove ritenga che l’errore del giudice sia consistito nell’omessa o erronea valutazione di elementi probatori, di segnalare esattamente tali elementi, di illustrare il motivo per cui essi sarebbero rilevanti e, a tal fine, di trascriverne il contenuto, in osservanza del principio di autosufficienza, al fine di consentire alla Corte di valutare la sussistenza e decisività delle stesse (Cass. n. 17915 del 2010;

Cass. n. 18506 del 2006).

Sulla base di tali considerazioni, la censura di vizio di motivazione sollevata dalla ricorrente non appare idonea, per come formulata, a superare il preliminare vaglio di ammissibilità del motivo. In primo luogo perchè si risolve in una critica generica, non ancorata alla contestazione di elementi di fatto precisi e determinati; in secondo luogo, in quanto non sostenuta dal requisito di autosufficienza, non avendo la parte trascritto i passi della consulenza tecnica di parte che il giudice di appello non avrebbe compiutamente esaminato nè i capitoli di prova testimoniale di cui lamenta la mancata ammissione.

Sotto il primo profilo, mette conto anche di precisare che il vizio di motivazione per mancate esame dei rilievi della consulenza tecnica di parte, non è riscontrabile laddove, come nel caso di specie, il giudice abbia fatto proprie le conclusione della consulenza tecnica d’ufficio la quale si era fatta carico di replicare alle critiche del consulente di parte, atteso che l’adesione alle conclusione del consulente tecnico d’ufficio integra una motivata risposta, per implicito, alle censure di parte (Cass. n. 282 del 2009; Cass. n. 8355 del 2007).

Il richiamo, fatto dalla ricorrente, al parere medico circa la capacità di scrivere del testatore è invece inconferente, tenuto conto che la decisione impugnata si fonda comunque sul giudizio della consulenza tecnica d’ufficio, del tutto autonomo rispetto a questo profilo, che, sulla base dell’esame grafologico del documento e al di là delle condizioni fisiche del de cuius all’epoca di redazione dell’atto, ha accertato la falsità materiale del testamento.

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza della ricorrente.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 3.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2011

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