Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23516 del 20/09/2019

Cassazione civile sez. lav., 20/09/2019, (ud. 15/05/2019, dep. 20/09/2019), n.23516

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2087/2018 proposto da:

V.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EUSTACHIO

MANFREDI 8, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE VIRBANI,

rappresentato e difeso dall’avvocato EMANUELE MAGANUCO;

– ricorrente –

contro

UNICREDIT S.P.A., in persona del Direttore pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 70, presso lo studio

dell’avvocato MASSIMO LOTTI, che la rappresenta e difende unitamente

agli avvocati SALVATORE FLORIO, FABRIZIO DAVERIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 363/2017 della CORTE D’APPELLO di

CALTANISSETTA, depositata il 30/10/2017 R.G.N. 189/2017;

Il P.M., ha depositato conclusioni scritte.

Fatto

RILEVATO

che:

1. con sentenza 30 ottobre 2017, la Corte d’appello di Caltanissetta rigettava il reclamo di V.G. (dipendente del Banco di Sicilia, oggi Unicredit s.p.a., dal 1 luglio 1985 al 4 dicembre 2014, in qualità di quadro direttivo, con mansioni di direttore di distretto, in particolare di direttore di filiale presso l’agenzia di (OMISSIS)) avverso la sentenza di primo grado, di rigetto dell’opposizione avverso l’ordinanza dello stesso Tribunale di reiezione dell’impugnazione del licenziamento intimatogli dalla banca per giusta causa il 29 gennaio 2015, per gravi irregolarità consistite nell’accensione di conti correnti intestati a nominativi non figuranti nei registri di stato civile dei comuni di pertinenza, sui quali erano affluiti finanziamenti deliberati o proposti per la Delibera dal medesimo, comportanti per l’istituto un danno economico potenziale pari a circa Euro 20.000,00;

2. avverso tale sentenza il lavoratore ricorreva per cassazione con cinque motivi, cui resisteva Unicredit s.p.a. controricorso e memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c.;

3. il PG le proprie conclusioni ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. il lavoratore deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., art. 112 c.p.c., art. 115 c.p.c., comma 1, seconda parte, art. 116 c.p.c., anche come error in procedendo, per individuazione della data di effettiva conoscenza datoriale tra giugno e novembre 2014 dei fatti disciplinari contestati al lavoratore il 14 novembre 2014, sull’erronea assunzione della relativa prova dalla supposta mancanza di contestazione nelle sue difese di circostanze irrilevanti ai detti fini, avendo anzi il medesimo confutato la tempestività della contestazione disciplinare e, benchè non tenuto al relativo onere probatorio, dedotto istanze istruttorie per dimostrare l’anteriore conoscenza dei fatti dalla banca, almeno da gennaio 2013 (primo motivo); violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., comma 2, artt. 112,115,116 c.p.c., anche come error in procedendo, per la mancanza di prova del momento di effettiva conoscenza da parte della banca dei fatti disciplinari contestati, con una sostanziale inversione dell’onere della prova e malgoverno dei principi regolanti la valutazione probatoria (secondo motivo); violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 7,artt. 1175,1375 c.c., per difetto di tempestività del recesso datoriale, conseguente alla pure tardiva contestazione disciplinare, in quanto entrambi ad oltre sei anni dai fatti (tra la fine del 2007 e la seconda metà del 2008), erroneamente invece ritenuta sussistente per sopravvenute esigenze di accertamento di operazioni creditizie irregolari, tra l’altro verificabili con semplici controlli informatici (terzo motivo); omesso esame di un fatto decisivo per la controversia, quali tutte le risultanze istruttorie specificamente enumerate, relative al momento di effettiva conoscenza datoriale della condotta disciplinarmente rilevante del lavoratore e nullità della sentenza o del procedimento per carenza della motivazione, per una non corretta loro valutazione neppure adeguatamente giustificata (quarto motivo); erronea pronuncia sulle spese di giudizio, per il rigetto dell’impugnazione del licenziamento (quinto motivo);

2. i primi quattro motivi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono inammissibili;

2.1. la ragione giustificativa della regola di immediatezza (del licenziamento e della contestazione) è individuata nella connessione dell’onere di tempestività al principio di buona fede oggettiva e più specificamente al dovere di non vanificare la consolidata aspettativa, generata nel lavoratore, di rinuncia all’esercizio del potere disciplinare (Cass. 17 dicembre 2008, n. 29480; Cass. 4 dicembre 2017, n. 28974);

2.2. essa si declina, in materia di licenziamento disciplinare e con specifico riferimento alla contestazione, in senso relativo, a motivo delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa, ferma la valutazione delle suddette circostanze riservata al giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (Cass. 12 gennaio 2016, n. 281; Cass. 26 giugno 2018, n. 16841);

2.3. parimenti essa si modula a riguardo del provvedimento espulsivo, rispetto alla mancanza addotta a sua giustificazione ovvero a quello della contestazione, quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore: con la precisazione che detto requisito va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso e con riserva al giudice del merito della valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustifichino o meno il ritardo (Cass. 10 settembre 2013, n. 20719; Cass. 25 gennaio 2016, n. 1248);

2.4. inoltre, in materia di licenziamento per giusta causa, il lasso temporale tra i fatti e la contestazione, ai fini della valutazione dell’immediatezza del provvedimento espulsivo, deve decorrere dall’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi; in particolare, il datore di lavoro deve fornire la prova del momento in cui ha avuto la piena conoscenza dei fatti da addebitare al lavoratore, non potendosi ragionevolmente imputargli la possibilità di conoscere i fatti in precedenza e di contestarli immediatamente al lavoratore (Cass. 15 ottobre 2007, n. 21546; Cass. 4 dicembre 2017, n. 28974);

2.5. correttamente la Corte territoriale ha richiamato (dal penultimo capoverso di pg. 13 al secondo di pg. 14 della sentenza) e applicato i suddetti principi di diritto, in esito ad accertamento in fatto congruamente argomentato (dall’ultimo capoverso di pg. 14 all’ultimo di pg. 15 della sentenza), pertanto insindacabile in sede di legittimità;

2.6. non si configurano poi le violazioni di norme di legge denunciate, in assenza dei requisiti loro propri (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass., 15 gennaio 2015, n. 635), non consistendo esse in una censura del corretta procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla norma di diritto; nè tanto meno ricorrendo un’erronea ripartizione dell’onere probatorio (sotto il cui esclusivo profilo sussiste violazione dell’art. 2697 c.c.: Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395) o una corretta denuncia dei principi in materia di disponibilità e di valutazione della prova, nella loro disciplina legale e non nel concreto apprezzamento in fatto, ai sensi degli artt. 115 e 116 c.p.c. (Cass. 10 giugno 2016, n. 11892; Cass. 12 aprile 2017, n. 9356);

2.7. in realtà, tutti i motivi congiuntamente scrutinati si risolvono in una contestazione dell’accertamento in fatto del giudice di merito, sulla base delle risultanze istruttorie così come apprezzate, con una sollecitazione alla rivisitazione del merito: indeferibile in sede di legittimità; tanto meno infine configurandosi omissione di esame di alcun fatto storico, neppure individuato per il generico e inammissibile riferimento alle risultanze istruttorie, esorbitante dall’ambito devolutivo del novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè la più che adeguata motivazione offerta dalla Corte nissena integrando quella violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi (che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e danno luogo a nullità della sentenza) di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile” (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940);

3. il quinto motivo sulla statuizione sulle spese è pure inammissibile;

3.1. esso neppure si può considerare un motivo in senso proprio, non consistendo in un vizio compreso nel paradigma deduttivo stabilito dall’art. 360 c.p.c., ma nella mera doglianza in ragione di un mero effetto del rigetto della domanda;

4. pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la regolazione delle spese di giudizio secondo il regime di soccombenza;

5. l’attuale condizione del ricorrente di ammesso al patrocinio a spese dello Stato (con Delib. Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Caltanissetta 11 gennaio 2018) esclude, allo stato, la sussistenza dei presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (Cass. 15 ottobre 2015, n. 20920; Cass. 2 settembre 2014, n. 18523).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 15 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2019

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