Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23510 del 10/11/2011

Cassazione civile sez. I, 10/11/2011, (ud. 28/09/2011, dep. 10/11/2011), n.23510

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. DI PALMA Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.G. ((OMISSIS)) elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA A. FRIGGERI N. 13 presso lo STUDIO LEGALE RUO,

rappresentato e difeso dall’avvocato LANDI ALFONSO giusta mandato

speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

e contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (OMISSIS) in persona del Ministro in

carica, elettivamente domiciliato in ROMA, VTA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

– ricorrenti Incidentali –

avverso il decreto n. 6788/08 V.G. della CORTE D’APPELLO di NAPOLI

DEL 24/04/09, depositato il 11/06/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/09/2011 dal Consigliere Relatore Dott. SALVATORE DI PALMA;

è presente il P.G. in persona del Dott. NICOLA LETTIERI che ha

concluso per l’accoglimento parziale del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che B.G., con ricorso del 22 giugno 2010, ha impugnato per cassazione – deducendo tre motivi di censura, illustrati con memoria -, nei confronti del Ministro della giustizia, il decreto della Corte d’Appello di Napoli depositato in data 11 giugno 2009, con il quale la Corte d’appello, pronunciando sul ricorso del B. – volto ad ottenere l’equa riparazione dei danni non patrimoniali ai sensi della l. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 1 -, in contraddittorio con il Ministro della giustizia – il quale concluso per l’inammissibilità e per l’infondatezza del ricorso -, ha condannato il resistente a pagare al ricorrente la somma di Euro 9.583,00;

che resiste, con controricorso, il Ministro della giustizia, il quale ha anche proposto ricorso incidentale fondato su un motivo;

che, in particolare, la domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale – richiesto nella misura di Euro 43.183,88, per l’irragionevole durata del processo presupposto – proposta con ricorso del 24 novembre 2008, era fondata sui seguenti fatti: a) il B. si era insinuato, quale ex lavoratore dipendente, al passivo del Fallimento di A.S., titolare della impresa individuale “Industria calce a zolle e idrata”, dichiarato fallito con sentenza del Tribunale di Salerno in data 28 aprile 1988; b) il credito del B., di Euro 6.952,42, per t. f. r. ed altre spettanze retributive, era stato ammesso al passivo in via privilegiata, passivo dichiarato esecutivo in data 18 ottobre 1988;

c) la procedura fallimentare era ancora pendente alla data di proposizione del ricorso per equa riparazione;

che la Corte d’Appello di Napoli, con il suddetto decreto impugnato – dopo aver determinato in diciannove anni e sette mesi circa la durata della procedura fallimentare in questione – ha dichiarato prescritto il diritto all’indennizzo per i dieci anni precedenti alla proposizione del ricorso per equa riparazione ed ha determinato il periodo di irragionevole durata del giudizio presupposto in nove anni e sette mesi circa, liquidando l’equo indennizzo nella misura di Euro 9.583,00, sulla base della somma annua di Euro 1.000,00;

che il Procuratore generale ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

che il Collegio, all’esito della odierna Camera di consiglio, ha deliberato di adottare la motivazione semplificata.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

preliminarmente, che il ricorso principale e quello incidentale, in quanto proposti contro la stessa sentenza, debbono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ.;

che, con i tre motivi di censura – che possono essere esaminati per gruppi di questioni – vengono denunciati come illegittimi dal ricorrente principale, anche sotto il profilo del vizio di motivazione: a) l’affermata prescrizione del diritto all’indennizzo per i dieci anni precedenti alla proposizione del ricorso per equa riparazione; b) i criteri di determinazione dell’equo indennizzo che, nella specie, avrebbero comportato un indennizzo annuo superiore a quello riconosciuto di Euro 1.000,00;

che il Ministro della giustizia, con il ricorso incidentale, critica il decreto impugnato, nella parte in cui ha riconosciuto il diritto all’indennizzo nell’eccessiva misura di Euro 1.000,00 annui;

che la censura sub a) del ricorso principale manifestamente fondata;

che infatti, secondo il costante orientamento di questa Corte, in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4 nella parte in cui prevede la facoltà di agire per l’indennizzo in pendenza del processo presupposto, non consente di far decorrere il relativo termine di prescrizione prima della scadenza del termine decadenziale previsto dal medesimo art. 4 per la proposizione della domanda, in tal senso deponendo, oltre all’incompatibilità tra la prescrizione e la decadenza, se riferite al medesimo atto da compiere, la difficoltà pratica di accertare la data di maturazione del diritto, avuto riguardo alla variabilità della ragionevole durata del processo in rapporto ai criteri previsti per la sua determinazione, nonchè il frazionamento della pretesa indennitaria e la proliferazione di iniziative processuali che l’operatività della prescrizione in corso di causa imporrebbe alla parte, nel caso – quale quello di specie – di ritardo ultradecennale nella definizione del processo (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 27719 del 2009, 1886 e 3325 del 2010);

che, pertanto, il decreto impugnato deve essere annullato in relazione alla censura accolta;

che, conseguentemente, la censura sub b) del ricorso principale ed il ricorso incidentale restano assorbiti;

che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, cod. proc. civ.;

che, alla luce della più recente giurisprudenza di questa Corte, la durata delle procedure fallimentari, secondo lo standard ricavabile dalle pronunce della Corte europea, non dovrebbe superare la durata complessiva di sette anni (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 22408 e 8047 del 2010), ciò in quanto, tenendo conto della peculiarità del procedimento fallimentare, il termine di tre anni, che può ritenersi normale in procedura di media complessità, è stato ritenuto elevabile fino a sette anni allorquando – come nella specie, in cui la procedura fallimentare è stata preceduta da quella di concordato preventivo – il procedimento si presenti particolarmente complesso (cfr. la sentenza n. 20549 del 2009), ipotesi questa che è ravvisabile in presenza di un numero particolarmente elevato dei creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi, ecc), della proliferazione di giudizi connessi alla procedura ma autonomi e quindi a loro volta di durata vincolata alla complessità del caso, della pluralità di procedure concorsuali interdipendenti;

che il processo fallimentare presupposto de quo è pacificamente durato circa venti anni e sette mesi, sicchè, detratti sette anni di ragionevole durata, esso ha avuto la durata irragionevole di circa tredici anni e sette mesi;

che, nella specie, sulla base dei criteri adottati da questa Corte, il diritto all’equa riparazione per il danno non patrimoniale di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 va equitativamente determinato, per il ricorrente, in Euro 12.750,00 per i tredici anni e sette mesi circa di irragionevole ritardo (Euro 750,00 annui, per i primi tre anni di irragionevole durata, Euro 1.000,00 per ciascuno degli anni successivi, Euro 500,00 per gli ulteriori sette mesi), oltre gli interessi a decorrere dalla proposizione della domanda di equa riparazione e fino al saldo;

che, conseguentemente, le spese processuali del giudizio a quo debbono essere nuovamente liquidate – sulla base delle tabelle A, par. 4^, e B, par. 1^, allegate al D.M. 8 aprile 2004, n. 127, relative ai procedimenti contenziosi, in complessivi Euro 1.850,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 600,00 per diritti ed Euro 1.200,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge;

che le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.

Riuniti i ricorsi, accoglie il ricorso principale nei limiti di cui in motivazione, assorbito il ricorso incidentale; cassa il decreto impugnato e, decidendo la causa nel merito, condanna il Ministro della giustizia al pagamento al ricorrente della somma di Euro 12.750,00, oltre gli interessi dalla domanda, condannandolo altresì al rimborso, in favore del ricorrente, delle spese del giudizio, che determina, per il giudizio di merito, in complessivi Euro 1.850,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 600,00 per diritti ed Euro 1.200,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. Emilia Abate, dichiaratasene antistataria, e, per il giudizio di legittimità, in complessivi Euro 1.300,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Struttura centralizzata per l’esame preliminare dei ricorsi civili, il 28 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2011

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