Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23507 del 09/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 09/10/2017, (ud. 11/04/2017, dep.09/10/2017),  n. 23507

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17016-2015 proposto da:

C.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

CORSO TRIESTE, 16, presso lo studio dell’avvocato GUIDO CHIODETTI,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE

SOTTILE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

H3G S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR n. 19,

presso lo Studio TOFFOLETTO – DE LUCA TAMAJO e Soci, rappresentata e

difesa dagli Avvocati RAFFAELE DE LUCA TAMAJO, FRANCO TOFFOLETTO,

FEDERICA PATERNO’, PAOLA PUCCI, MARIA TERESA SALIMBENI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 10061/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/12/2014 R.G.N. 3106/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/04/2017 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO GIANFRANCO che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine rigetto;

udito l’Avvocato PAOLO ZUCCHINALI per delega verbale Avvocato

Giuseppe Sottile;

udito l’Avvocato FEDERICA PATERNO’.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 10061, pubblicata il 23 dicembre 2014, la Corte di Appello di Roma rigettava il gravame, in data tre maggio 2012, interposto da C.G. contro H3G S.p.A. avverso la pronuncia depositata il 3 novembre 2011, con la quale il locale giudice del lavoro aveva respinto la domanda del C., già dirigente della società convenuta, volta ad invalidare il licenziamento intimatogli il 19 aprile 2004, con ogni conseguente risarcimento del danno, in subordine all’indennità supplementare di cui al contratto collettivo di lavoro di settore, con richiesta altresì di condanna della convenuta parte datoriale al risarcimento del danno alla salute, all’immagine professionale, al pagamento del bonus previsto dalla contrattazione individuale per l’anno 2001 e per il 2004, nonchè alla condanna al risarcimento del danno patrimoniale, da liquidarsi in misura pari al pregiudizio patito per essere stato l’attore asseritamente costretto a vendere la propria abitazione con perdita dei benefici di prima casa ed altro.

Per quanto ancora qui interessa, il primo giudice aveva osservato come il licenziamento fosse stato assistito da requisito della giustificatezza, non risultando ispirato da finalità discriminatorie, ma da esigenze organizzative effettivamente esistenti, consistite nella necessità di sopprimere la direzione generale affidata all’attore e di distribuirne le funzioni tra preesistenti strutture territoriali.

Si legge, altresì, nella sentenza di appello che il ricorrente aveva chiesto la riforma dell’impugnata pronuncia, affidandosi ad articolato motivo di censura, fondato sul malgoverno dell’attività istruttoria e sulla erroneità delle valutazioni in diritto circa l’esclusione della ingiustificatezza e del mobbing, nonchè in merito alla spettanza del bonus per gli anni 2001 2004.

Secondo la Corte capitolina, quanto alla invocata declaratoria di nullità del recesso e alle conseguenti pretese risarcitorie o di condanna al pagamento dell’indennità supplementare, il primo giudicante aveva correttamente applicato il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità circa la giustificatezza del licenziamento del dirigente. Nella specie, come era emerso dalle citate deposizioni testimoniali, nell’anno 2004 la società si era resa conto della inutilità di una direzione centralizzata che si occupasse degli affari ambientali a livello nazionale, potendo essere le medesime funzioni ripartite tra le preesistenti articolazioni. Ne era derivata la soppressione della posizione occupata dal C., la quale non era stata quindi originata da ritorsioni o da intenti persecutori arbitrari, bensì dalla valutazione discrezionale dell’impresa, insindacabile dal giudice.

Quanto alle altre pretese creditorie, risultava fondata l’eccepita prescrizione quinquennale.

Non sussisteva, infine, il lamentato mobbing, mancando nelle allegate condotte datoriali quei caratteri di sistematicità e pervasività che connotano in termini persecutori e marginalizzanti la condotta datoriale.

Dunque, l’appello veniva respinto con la condanna del soccombente alle relative spese.

Avverso l’anzidetta decisione ha proposto ricorso per cassazione, in data 22 – 23 giugno 2015, il dr. C.G., con atto affidato a quattro motivi, cui ha resistito la S.p.A. H3G mediante controricorso del 29 – 30 luglio 2015.

Il solo ricorrente, poi, ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c., che come è noto ha soltanto valore illustrativo rispetto a quanto in precedenza allegato e dedotto, sicchè non può colmare lacune, nè sanare preclusioni e/o decadenze già verificatesi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello non ha provveduto sulla eccepita nullità del recesso; non aveva effettivamente esaminato e motivato la nullità o illegittimità e i fatti indicati a supporto; illegittimità e nullità del recesso per violazione del C.C.N.L. e delle disposizioni di legge. Nè la Corte territoriale avrebbe provveduto sulle spese di primo grado, liquidate in Euro 15.530,62 (di cui 12.150 per onorarie 1655 per diritti).

Con il primo motivo di ricorso, formulato ex art. 360 c.p.c., n. 4, è stata dedotta la violazione dell’art. 112 c.p.c. in tema di corrispondenza tra quanto chiesto e quanto pronunciato, con conseguente nullità della sentenza impugnata, nella quale mancava ogni riferimento decisionale alla domanda di accertamento della nullità del recesso.

Con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, è stato dedotto l’omesso esame di fatti decisivi posti a fondamento della domanda di nullità e di illegittimità dell’impugnato recesso.

Con il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, è stata lamentata la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 4 e 10, L. n. 300 del 1970, art. 15, L. n. 108 del 1990, art. 3 in ordine alla nullità, nonchè degli artt. 19 e 22 del C.C.N.L. riguardo alla non ingiustificatezza del recesso.

Infine, con il quarto motivo, formulato ex art. 360, comma 1, n. 4, ed in via gradata n. 3 ovvero n. 5, è stata denunciata la omessa pronuncia, ovvero la violazione o la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., ed in subordine degli artt. 90 ss. c.p.c., in relazione ai decreti ministeriali attuativi delle tariffe forensi e delle relative leggi.

In effetti, il ricorso risulta in gran parte assemblato, riproducendo pedissequamente la motivazione della sentenza di primo grado, nonchè per intero la sentenza d’appello, ma senza debitamente chiarire i motivi posti a sostegno dell’interposto gravame, soprattutto per quanto concerne il quarto motivo relativo alla regolamento delle spese di primo grado e alla loro liquidazione, laddove in effetti si assume la loro confutazione esclusivamente in base alla complessiva riforma chiesta con l’atto di appello (cfr. in part. Cass. sez. un. civ. n. 5698 – 11/04/2012, secondo cui ai fini del requisito di cui all’art. 366 c.p.c. n. 3, la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto – anche quello di cui non occorre sia informata – la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso. Di conseguenza, nella specie, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso articolato con la tecnica dell’assemblaggio, mediante riproduzione integrale in caratteri minuscoli di una serie di atti processuali: sentenza di primo grado, comparsa di risposta in appello, comparsa successiva alla riassunzione a seguito dell’interruzione, sentenza d’appello ove mancava del tutto il momento di sintesi funzionale, mentre l’illustrazione dei motivi non consentiva di cogliere i fatti rilevanti in funzione della comprensione dei motivi stessi. Conforme Cass. 6 civ. – 3, ordinanza n. 593 – 11/01/2013. In senso analogo, v. anche Cass. 6 civ. – 5, n. 10244 del 02/05/2013, n. 17002 del 09/07/2013, id. n. 26277 del 22/11/2013.

V. pure Cass. sez. un. n. 16628 del 17/07/2009, secondo cui la prescrizione contenuta nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, in base alla quale la quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, non può ritenersi osservata quando il ricorrente non riproduca alcuna narrativa della vicenda processuale, nè accenni all’oggetto della pretesa, limitandosi ad allegare, mediante “spillatura” al ricorso, l’intero ricorso di primo grado ed il testo integrale di tutti gli atti successivi, rendendo particolarmente indaginosa l’individuazione della materia del contendere e contravvenendo allo scopo della disposizione, preordinata ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura. In senso analogo v. altresì Cass. s.u. n. 19255 del 09/09/2010 in tema di c.d. autosufficienza del ricorso.

V. inoltre Cass. 6 civ. – 3n. 22860 del 28/10/2014, secondo cui è inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3, il ricorso del tutto privo della sommaria esposizione dei fatti di causa – che non possono ricavarsi dai motivi di ricorso, i quali, in quanto deputati a esporre le linee difensive, anche ove alludano alle fasi del giudizio, non compiono una precisa enucleazione degli stessi – la cui enunciazione, poi, è tanto più essenziale ove il ricorso per cassazione sia rivolto verso una decisione della corte d’appello, pronunciata in sede di rinvio ex art. 394 cod. proc. civ., assolvendo, in tale evenienza, alla funzione di delimitazione dei confini del giudizio di rinvio.

V. inoltre Cass. 6 civ. – 3, n. 784 del 16/01/2014: il principio per cui il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, non è rispettato ove il ricorrente abbia riprodotto pedissequamente l’intero, letterale contenuto degli atti processuali con conseguente inammissibilità del ricorso, va inteso nel senso che una simile struttura del ricorso esclude che l’esposizione sommaria dei fatti di causa possa desumersi per estrapolazione dall’illustrazione del o dei motivi. In senso analogo, id. n. 3385 del 22/02/2016).

Ed invero, riguardo al 4 motivo, deve osservarsi che tra i profili appena vagamente menzionati, posti a sostegno dell’appello (cfr. paragrafo 3 del ricorso a pagine 19-20), non vi è comunque alcun cenno alle spese, sia in ordine al loro regolamento che alla loro liquidazione da parte del giudice di primo grado. Ne deriva che, una volta integralmente respinto l’interposto gravame, veniva così confermato, ovviamente, de plano, anche il regolamento delle spese stabilito in prime cure, unitamente alla conseguente liquidazione, tenuto soprattutto conto del principio della soccombenza, di cui all’art. 91 c.p.c., correttamente quindi applicato, anche espressamente per il secondo grado.

Dunque, la Corte di merito si è pronunciata sul petitum della domanda, peraltro nei limiti consentiti dall’effetto devolutivo dell’appello, impugnazione, che come è noto, ha natura di revisio prioris instantiae, e non già di novum judicium (cfr. tra le altre Cass. sez. un. civ. n. 3033 – 08/02/2013 e n. 28498 del 23/12/2005; da ultimo v. ancora Cass. 3 civ. n. 11797 del 9/06/2016: nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d’appello non può più dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata, ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata, assumendo l’appellante sempre la veste di attore rispetto al giudizio d’appello e con essa l’onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame, quale che sia stata la posizione processuale di attore o convenuto assunta nel giudizio di primo grado).

Ne consegue l’inammissibilità del quarto motivo, sia in relazione alle spese di primo grado, sia con riferimento a quelle di appello, per cui nemmeno risultano specifiche e puntuali censure, dovendosi avere riguardo tra l’altro alle tariffe vigenti al momento della decisione (udienza due dicembre 2014), nonchè pure all’importanza della causa, stimabile altresì in base alle notevoli somme pretese dall’attore – appellante. A tal riguardo, va appena soggiunto come in effetti con il quarto motivo il ricorrente abbia inteso soprattutto censurare la liquidazione delle spese di primo grado, avvenuta in ragione di oltre 15.000,00 Euro, però irritualmente, come sopra visto, non risultando la stessa debitamente censurata in sede di appello, donde comunque la conseguente inammissibilità della doglianza ex novo fatta invece valere in sede di legittimità. Per ciò che invece attiene alle spese di secondo grado, la censura non precisa in qual modo la liquidazione, avvenuta il due dicembre 2014, in ragione di Euro 7.700,00 oltre accessori di legge, risulterebbe illegittima, non chiarendo quale parametro e quale tariffa sarebbero stati in concreto violati. Infatti, i tabulati riportati nelle pagine 45.1/45.4 del ricorso, per giunta senza indicare a quale d.m. essi si riferiscano, si assumono inerenti ai minimi degli onorari vigenti in primo grado (così testualmente si esprime lo stesso ricorso nelle due ultime righe a pag. 45).

Quanto, poi, all’onere di motivazione circa le spese, da limitarsi per tutto quanto sopra già rilevato al solo regolamento delle stesse (e dunque non anche alla loro determinazione), va osservato come sia stato correttamente applicato l’anzidetto principio della soccombenza, che di norma disciplina la materia, sicchè una esauriente argomentazione sul punto si sarebbe resa necessaria nel diverso caso, in cui i giudici di merito, discostandosi dal principio generale, avessero ritenuto di doverle compensare, in tutto o in parte. Del resto, il ricorso introduttivo del giudizio risulta depositato il 17 aprile 2009, di modo che era già operante la modifica dell’art. 92 c.p.c., comma 2, (apportata dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. (a, in vigore dal primo marzo 2006 per tutti i procedimenti instaurati dopo tale data – v. infatti il D.L. 30 dicembre 2005, n. 273, art. 39 quater convertito con modif. in L. 23 febbraio 2006, n. 51), che ha infatti reso necessaria l’esplicita indicazione degli “altri giusti motivi” per poter compensare le spese, in deroga quindi al criterio della soccombenza fissato dall’art. 91 codice di rito, comma 1 (cfr. d’altro canto anche Cass. lav. n. 5386 del 05/04/2003, secondo cui il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, di guisa che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi. In senso conforme, tra le altre, Cass. 5 civ. n. 15317 del 19/06/2013, nonchè ancor più di recente id. n. 8421 del 31/03/2017).

Quanto alla questione della omessa pronuncia sulla nullità, il ricorrente svolge le proprie argomentazioni senza in effetti tener conto della complessiva, ancorchè sintetica, motivazione, contenuta nell’impugnata pronuncia, che in modo assorbente escludeva, evidentemente, la pretesa nullità del licenziamento, considerandolo invece legittimo, stante la sua giustificatezza, alla stregua altresì delle menzionate deposizioni testimoniali, accertando in punto di fatto la soppressione del posto di lavoro già occupato dal ricorrente, dipesa da insindacabili valutazioni discrezionali di parte datoriale, e non già originata da ritorsioni o intenti persecutori arbitrari. D’altro canto, l’impugnata sentenza alle pagine 1 e 2 ha debitamente enunciato il petitum richiesto dall’attore, indicando altresì puntualmente le pretese azionate in termini economici (declaratoria di nullità del licenziamento…, risarcimento del danno alla salute in ragione di 500.000,00 Euro…, dallo all’immagine professionale da liquidarsi in Euro 500.000,00 o nella diversa somma di giustizia,… pagamento del bonus previsto dalla contrattazione individuale per il 2001 e 2004 nella misura di 47.075,58 Euro…, risarcimento del danno patrimoniale, da liquidarsi… per 50.000 oltre a Euro 250.000 per danno non patrimoniale…). Parimenti, risulta espressamente valutata e quindi decisa la domanda di declaratoria di nullità del licenziamento e delle conseguenti pretese, laddove la Corte capitolina riteneva che il Tribunale aveva fatto buon governo del principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, richiamando tra le altre Cass. 6110/2014 unitamente alle citate testimonianze.

Ogni altra doglianza (in ordine ai primi tre motivi di ricorso, peraltro carente ex art. 366 c.p.c. in ordine alle indicazioni ivi richieste a pena di inammissibilità), attiene a valutazioni di fatto sufficientemente motivate anche in diritto da parte del giudice di merito, come tali non scrutinabili in sede di legittimità nell’ambito dei rigorosi limiti fissati dall’art. 360 c.p.c..

Nella specie, inoltre, è applicabile il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (D.L. n. 83 del 2012, ex art. 54, comma 1, lett. b)), visto che la sentenza de qua, emessa il due dicembre 2014, è stata pubblicata il successivo giorno 23, perciò ben oltre il termine del 12 agosto/11 settembre 2012, di cui all’apposito regime transitorio ex art. 54, comma 3, dello stesso decreto legge (v. peraltro al riguardo Cass. 1 civ. n. 7983 del 04/04/2014, secondo cui l’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, va inteso, in applicazione dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, tenendo conto della prospettiva della novella, mirata ad evitare l’abuso dei ricorsi basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, supportando la generale funzione nomofilattica della Corte di cassazione. Ne consegue che: a) l'”omesso esame” non può intendersi che “omessa motivazione”, perchè l’accertamento se l’esame del fatto è avvenuto o è stato omesso non può che risultare dalla motivazione; b) i fatti decisivi e oggetto di discussione, la cui omessa valutazione è deducibile come vizio della sentenza impugnata, sono non solo quelli principali ma anche quelli secondari; c) è deducibile come vizio della sentenza soltanto l’omissione e non più l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione, salvo che tali aspetti, consistendo nell’estrinsecazione di argomentazioni non idonee a rivelare la “ratio decidendi”, si risolvano in una sostanziale mancanza di motivazione).

Più in particolare, quanto poi alla portata dell’art. 360 c.p.c., n. 5, va dunque richiamato l’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, secondo cui la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal legislatore del 2012 deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Cass. sez. un. civ. n. 8053 del 7/4/2014, idem n. 8054/13. In senso conforme v. altresì Cass. civ. 6 – 3, ordinanza n. 21257 – 08/10/2014 e sentenza n. 23828 del 20/11/2015).

Tanto premesso, le anzidette censure di parte ricorrente appaiono inammissibili nell’ambito nei rigorosi limiti fissati dal citato art. 360, secondo la critica, appunto vincolata, ivi ammessa, alla stregua di quanto motivatamente e dettagliatamente accertato e di conseguenza valutato dalla competente Corte di merito, su specifiche circostanze in netto contrasto con il fatto del cui mancato esame si duole il ricorrente.

D’altro canto, va ancora ricordato (cfr. più recentemente, tra le altre, Cass. 1 civ. n. 16526 del 05/08/2016) che in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (v. altresì Cass. sez. 6 – 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. altresì Cass. 1 civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti. Conforme Cass. n. 3881 del 2006. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. n. 6064 del 2008 e n. 5066 del 5/03/2007).

Invero, lo stesso cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio -, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 3 civ. n. 11892 del 10/06/2016).

Nel caso di specie, dunque, non sussistono i presupposti e le condizioni di alcuno dei vizi denunciati dal ricorrente, tenuto conto della più che sufficiente motivazione (insindacabile nei sensi anzidetti) svolta con la sentenza di appello, che in base a quanto accertato e valutato in sede di merito, su tutte le domande avanzate dall’attore, le ha giudicate comunque infondate.

Pertanto, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso, con conseguente condanna alle relative spese del soccombente, tenuto altresì come per legge al versamento dell’ulteriore contributo unificato.

PQM

 

la Corte dichiara INAMMISSIBILE il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che si liquidano, a favore della società controricorrente, in Euro ottomila/00 per compensi professionali ed in Euro duecento/00 Euro per esborsi, oltre spese generali

al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 11 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2017

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