Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23493 del 10/11/2011

Cassazione civile sez. I, 10/11/2011, (ud. 13/10/2011, dep. 10/11/2011), n.23493

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – rel. Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

L.G. (C.F. (OMISSIS)), L.A. (C.F.

(OMISSIS)), nella qualità di eredi di L.M.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA B. TORTOLINI 34, presso

l’avvocato PAOLETTI NICOLO’, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato MARI ALESSANDRA, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI ROMA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 4188/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/10/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/10/2011 dal Consigliere Dott. ALDO CECCHERINI;

udito, per i ricorrenti, l’Avvocato NICOLO’ PAOLETTI che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso (deposita note d’udienza dopo le

conclusioni del P.G.);

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni che ha concluso per la regolarizzazione ex

artt. 110 e 182 c.p.c. (sent. 9217/2010 SS.UU.).

Fatto

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Il Comune di Roma impugnò davanti alla Corte d’appello di Roma il provvedimento con il quale la Commissione Provinciale Espropri aveva stimato un terreno di mq 7.042 espropriato in danno di M. L. il 6 agosto 2001. Il convenuto resistette sostenendo che la sola area doveva essere stimata ad un valore venale di Euro 350,00/mq, e il soprassuolo ad un valore venale di Euro 700,00/mq.

2. Con sentenza 20 ottobre 2008, la Corte d’appello di Roma ha determinato l’indennità dovuta applicando il criterio del valore venale, riducendo la valutazione fatta dal consulente tecnico d’ufficio in ordine al valore venale del terreno, e negando l’indennizzabilità del soprassuolo, costituito da manufatti per i quali non vi era stata licenza edilizia o concessioni legittime o in sanatoria.

2. Per la cassazione della sentenza, non notificata, ricorrono G. e L.A., eredi dell’espropriato per otto motivi. Essi hanno depositato il 23 aprile 2009 atto pubblico di notorietà, che afferma che L.M. è deceduto senza testamento lasciando loro quali unici chiamati per legge all’eredità.

Il Comune di Roma non ha svolto difese.

3. Con i primi due motivi di ricorso si censura l’impugnata sentenza, nella parte in cui, negando l’indennità per il soprassuolo, con l’argomento che il fabbricato non risultava autorizzato, ha pronunciato su questione diversa da quella posta dall’espropriante a fondamento dell’opposizione. Sono stati articolati tre quesiti di diritto, vertenti rispettivamente: a) sull’extrapetizione per la decisione su un punto che non era stato oggetto di specifica censura da parte del comune; b) sul potere del giudice – in sede di opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione effettuata dalla Commissione provinciale espropri proposta dall’espropriante – “in mancanza di atti di autotutela dell’Autorità comunale che ha emanato il provvedimento di espropriazione”, di disapplicare quest’ultimo o modificarne il contenuto a vantaggio dello stesso comune espropriante, escludendo il diritto alle indennità di esproprio di fabbricati già riconosciute dall’autorità comunale; e c) sulla violazione dell’onere della prova circa la legittimità del fabbricato, addossato all’espropriato invece che all’espropriante.

3.1. I motivi sono infondati. Secondo la giurisprudenza della corte, in tema di espropriazione per pubblica utilità, l’opposizione alla stima dell’indennità da corrispondere all’espropriato non si configura come un giudizio di impugnazione dell’atto amministrativo, ma introduce un ordinario giudizio di cognizione, diretto a determinare l’entità dell’indennità effettivamente dovuta sulla base delle norme applicabili (Cass. 15 ottobre 2002 n. 14664).

Instaurandosi dunque innanzi alla competente Corte d’appello, ai sensi della L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 19 un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto la determinazione dell’indennità di espropriazione dovuta per legge, il giudice adito non è vincolato dalle indicazioni delle parti, ma ha egli stesso il potere-dovere di individuare i criteri indennitari applicabili alla procedura ablatoria in forza delle norme che li contemplano (Cass. 3 aprile 2007 n. 8361).

Ne deriva che la corte territoriale, investita dall’espropriante della domanda di determinazione dell’indennità di espropriazione dovuta per legge, in opposizione alla stima eseguita dalla Commissione Provinciale Espropri, nel procedere alla liquidazione dell’indennità – che secondo la costante e consolidata giurisprudenza della corte è unitaria, e rispetto alla quale i singoli elementi di valutazione assumono valenza di meri criteri di calcolo, senza dar luogo a distinti crediti dell’espropriato – doveva attenersi ai criteri dettati dalla legge, indipendentemente dal fatto che essi fossero stati specificamente richiamati dall’attore. La risposta al primo quesito è pertanto negativa.

3.2. Il secondo quesito non indica la ragione per la quale la decisione, nel punto censurato, violerebbe una o più tra le norme cumulativamente e genericamente indicate. Qui è sufficiente ricordare che il D.P.R. n. 327 del 2001 non trova applicazione quando, come nella fattispecie, la dichiarazione di pubblica utilità abbia preceduto la sua emanazione perchè l’art. 57 dello stesso esclude l’applicabilità delle disposizioni del testo unico “ai progetti per i quali, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza”.

In ogni caso deve essere chiarito che la determinazione provvisoria dell’indennità di espropriazione non ha alcun effetto vincolante per l’espropriante, ove non sia seguita dall’accettazione dell’espropriato, il quale, rifiutandola, la priva di qualsiasi valore devolvendo alla Commissione provinciale in sede amministrativa, ed eventualmente poi al giudice in sede contenziosa la determinazione dell’indennità dovuta (per una fattispecie analoga v. Cass. 14 febbraio 2008 n. 3705). Nella misura in cui sfugge al giudizio d’inammissibilità, il quesito deve ricevere una risposta negativa.

3.3. Quanto all’onere della prova, occorre ricordare che l’oggetto del giudizio di determinazione dell’indennità di espropriazione è normalmente circoscritto in relazione a quanto ha formato oggetto del decreto di espropriazione, in conformità con il piano particellare approvato (mappe catastali,sulle quali siano individuate le aree da espropriare, e elenco dei proprietari iscritti negli atti catastali allegati alla relazione di cui alla L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 10), sicchè, se oggetto di espropriazione siano dei terreni, e non si faccia menzione dei fabbricati soprastanti, si deve presumere che essa abbia ad oggetto delle nude aree. Ne consegue che costituisce onere dell’espropriato allegare l’esistenza di fabbricati sui terreni espropriati, e dimostrare la loro indennizzabilità. Nella concreta fattispecie risulta dalla sentenza che era stata espropriata un’area in località (OMISSIS), iscritta al catasto terreni, e il giudizio verteva sulla stima dell’indennità di tale area. La presenza di un fabbricato accatastato avrebbe comportato l’applicazione di criteri indennitari diversi, ma l’indennizzabilità – oltre che l’esistenza – del fabbricato (con la sua area di sedime) in contrasto con il piano particellare doveva essere allegata e provata dalla parte espropriata.

4. Con il successivo motivo si censura per vizi di motivazione la decisione circa il valore venale del terreno. Il motivo espone argomenti diversi, che vanno dalla disapplicazione della stima del consulente d’ufficio al dibattito processuale che ha visto confrontarsi i consulenti delle due parti, senza mettere capo a quella sintesi, richiesta dall’art. 366 bis c.p.c., che ne condiziona l’ammissibilità (Cass. Sez. un. 1 ottobre 2007 n. 20603). Esso è pertanto inammissibile.

5. Il quinto motivo censura il diniego della corte territoriale di applicare all’indennità di espropriazione la maggiorazione prevista dal D.P.R. n. 327 del 2001, art. 37 motivato con l’argomento che l’indennità non potrebbe superare il valore venale del bene espropriato. Si pone il quesito se il giudice sia tenuto ad applicare la citata disposizione ogni qual volta l’indennità provvisoria offerta all’espropriato o quella definitiva determinata dalla competente commissione risulti inferiore agli otto decimi di quella definitivamente accertata dallo stesso giudice di merito.

Il motivo è infondato per la ragione assorbente, già in precedenza ricordata, dell’inapplicabilità al caso di specie della norma di legge invocata.

6. Gli ultimi tre motivi vertono sugli interessi e la rivalutazione monetaria. Il primo pone il quesito circa la necessità – in base all’art. 1 del 1^ Protocollo Addizionale alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, interpretato alla luce dei principi enunciati nella sentenza della CEDU 9 luglio 1997 nel caso Akkus c. Turchia – di un’automatica rivalutazione dell’indennità di espropriazione; il secondo pone il quesito dell’applicabilità dell’art. 1224 c.c. nella fattispecie di causa; il terzo pone il quesito del diritto dell’espropriato di percepire gli interessi legali dalla data dell’esproprio sull’intera indennità di espropriazione, incluse le somme già depositate presso la Cassa depositi e prestiti (ora Ministero dell’economia e delle finanze).

6.1. I motivi sono infondati. Il diniego della rivalutazione del valore del bene espropriato è principio consolidato in giurisprudenza, per la quale le obbligazioni derivanti dall’occupazione temporanea di un bene debitamente autorizzata e dalla successiva espropriazione, se pronunciata nel termine fissato, sono obbligazioni pecuniarie, sicchè nessuna delle due indennità è suscettibile di automatica rivalutazione in correlazione al deprezzamento della moneta. Il decorso del tempo è di regola indennizzato dagli interessi stabiliti dalla legge, ma è applicabile altresì l’art. 1224 c.c., a norma del quale, al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore dopo la costituzione in mora del debitore, spetta l’ulteriore risarcimento. L’applicabilità di tale disposizione al caso delle indennità di occupazione legittima e di espropriazione è stata da molto tempo riconosciuta da questa corte (Cass. 14 dicembre 1988 n. 6803 e succ. conf.), e costituisce rimedio idoneo a neutralizzare efficacemente il pregiudizio lamentato dagli odierni ricorrenti. Non si ravvisa pertanto, sul punto, alcun contrasto con l’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per il quale nessuno può essere privato della sua proprietà se non per ragione di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Nè appare pertinente al caso in esame la sentenza della Corte europea 9 luglio 1997, nel caso Akkus c. Turchia, che, dichiarando espressamente di non occuparsi della legittimità della determinazione dell’espropriazione anche in relazione all’intervenuta svalutazione e al correttivo a questo riguardo applicato, ha ravvisato una violazione della norma convenzionale nel ritardo di diciassette mesi nel pagamento dell’indennità da parte della p.a., dopo che l’indennità stessa era stata definitivamente determinata dalla Corte di cassazione: a giustificare la decisione è, stato appunto – come si legge nella motivazione della citata sentenza – il divario tra il credito per interessi maturati in quel periodo e il valore al momento del pagamento effettivo, imputabile alla sola lentezza dell’amministrazione.

6.2. Il rimedio offerto dall’art. 1224 c.c. è tuttavia affidato all’iniziativa e alla diligenza del creditore danneggiato, che ha l’onere di formulare nel giudizio di merito la relativa domanda, e di offrire la prova del suo diritto. Ciò non è avvenuto nella fattispecie, nella quale gli odierni ricorrenti avevano richiesto esclusivamente la rivalutazione del loro credito, domanda del resto ribadita nella presente sede di legittimità. Conseguentemente, essi neppure avevano adempiuto all’onere di allegazione e di prova connesso alla diversa domanda di risarcimento del maggio danno subito nel periodo di mora, a norma dell’art. 1224 c.c.; onere che secondo la giurisprudenza di questa corte è assolto con l’allegazione e la prova – agevole perchè basata su elementi di facile accesso e documentazione – che, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali (principio che deve evidentemente trovare applicazione nel caso in cui debba aversi riguardo, invece che agli interessi di cui all’art. 1284 c.c., a quelli corrisposti dall’amministrazione depositarla per legge delle somme, se in mora), fermo restando che il creditore il quale richieda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato avrebbe l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva (Cass. sez. un. 16 luglio 2008 n. 19499).

6.3. Dalle considerazioni che precedono discende che al primo quesito debba darsi risposta negativa; e che il secondo e il terzo debbano essere dichiarati inammissibili, perchè la risposta certamente positiva al secondo, e quella analogamente positiva (ma mediata dall’applicabilità concreta dell’art. 1224 c.c..) al terzo non avrebbero valore decisivo, laddove la relativa non domanda non sia stata posta o non sia stata provata nel giudizio di merito.

7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione della Corte suprema di cassazione, il 13 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2011

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