Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23490 del 20/09/2019

Cassazione civile sez. I, 20/09/2019, (ud. 19/06/2019, dep. 20/09/2019), n.23490

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 18383/2018 r.g. proposto da:

B.F., rappresentato e difeso, giusta procura speciale

apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Carmelo Cataudella,

presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Ragusa, Via

Trieste n. 64.

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro legale rappresentante

pro tempore.

– intimato –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Catania, depositata in

data 25.5.2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19/6/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Catania – decidendo sull’appello proposto da B.F., cittadino del Gambia, avverso la ordinanza emessa il 3.1.2017 dal Tribunale di Catania (con il quale erano state respinte le domande del richiedente volte ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria) – ha confermato il provvedimento impugnato, rigettando, pertanto, l’appello.

La corte del merito ha ritenuto non plausibile la vicenda raccontata dal richiedente, come ragione della sua decisione di espatriare dal Gambia, in quanto non circostanziata in modo adeguato: il ricorrente aveva, infatti, raccontato di essere stato costretto ad allontanarsi dal suo villaggio e dal suo paese di nascita perchè oggetto di malefici e riti magici (che avevano già colpito gravemente la salute della sorella) e che tale vicenda era da ricollegarsi all’opposizione manifestata da un parte della popolazione locale all’incarico di capo villaggio rivestito dal padre; ha, comunque, evidenziato che il pericolo rappresentato dal richiedente non poteva integrare la fattispecie regolata per il riconoscimento dello status di rifugiato, e cioè una persecuzione in atto nei confronti del richiedente. La corte territoriale ha, inoltre, evidenziato che non era stato neanche rappresentato dal ricorrente il pericolo di essere sottoposto a pena di morte ovvero a trattamento carcerario disumano e degradante e che il Gambia non era interessato da una situazione di violenza indiscriminata e generalizzata, così non legittimandosi neanche la richiesta di protezione sussidiaria. Il giudice di appello ha, infine, evidenziato che il solo percorso di integrazione socio-lavorativa non costituisce di per sè ragione sufficiente per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, richiedendosi sempre una valutazione comparativa della detta integrazione con la situazione del paese di provenienza.

2. La sentenza, pubblicata il 25.5.2018, è stata impugnata da B.F. con ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

L’amministrazione intimata non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la parte ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6. Si duole il ricorrente della mancata valutazione da parte della corte di merito della situazione di grave compressione dei diritti fondamentali dei cittadini in Gambia e dell’influsso negativo che svolgono i rituali magici nella società africana con le relative suggestioni, con la conseguente necessità – per chi ne è colpito – di allontanarsi da tali situazioni di pressante negatività. Si denuncia, inoltre, la mancata valutazione del profilo della sua integrazione nella realtà socio-lavorativa italiana, con la necessità di riconoscere al richiedente per lo meno la protezione umanitaria.

2. Con il secondo motivo si declina vizio di violazione di legge in relazione al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 136, in riferimento al provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

3. Il ricorso è inammissibile.

3.1 Già il primo motivo è inammissibile.

Occorre evidenziare come la parte ricorrente non aggredisca in alcun modo la ratio decidendi sottesa al diniego delle domande di protezione internazionale e umanitaria, e cioè il profilo di non credibilità della vicenda umana raccontata dal richiedente, rendendo così irricevibili anche le ulteriori censure, che non si confrontano con le ragioni della decisione impugnata. Peraltro, va aggiunto che correttamente la corte territoriale ha ritenuto non rilevante il solo profilo della integrazione socio-lavorativa del richiedente nella realtà italiana, senza una precisa allegazione della contrapposta situazione del paese di provenienza che sia idonea ad evidenziare la violazione dei diritti fondamentali del richiedente.

Orbene, va osservato che proprio alla luce della giurisprudenza richiamata (Cass. 4455/2018) tale mancata comparazione rende (e rendeva già nella fase di gravame) il motivo di censura genericamente formulato e, dunque, non ricevibile.

3.2 Il secondo motivo è anch’esso inammissibile.

Sul punto è utile richiamare la puntuale giurisprudenza espressa da questa Corte di legittimità, secondo la quale la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato adottata con la sentenza che definisce il giudizio di appello, anzichè con separato decreto, come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, non comporta mutamenti nel regime impugnatorio che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione ex art. 170 della stesso D.P.R., dovendosi escludere che la pronuncia sulla revoca, in quanta adottata con sentenza, sia, per ciò solo, impugnabile immediatamente con il ricorso per cassazione, rimedio previsto solo per l’ipotesi contemplata dall’art. 113 del D.P.R. citato (cfr. Sez. 3, Ordinanza n. 3028 del 08/02/2018).

Ne consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Nessuna statuizione è dovuta per le spese del giudizio di legittimità per la mancata difesa dell’amministrazione intimata.

Non è neanche dovuto il pagamento del doppio contributo in ragione dell’ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 19 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2019

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