Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23477 del 27/10/2020

Cassazione civile sez. VI, 27/10/2020, (ud. 22/07/2020, dep. 27/10/2020), n.23477

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32358-2018 proposto da:

GE.S.A. AG2 SPA IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PASTORE FAUSTOLO 7,

presso lo studio dell’avvocato GIULIA GRASSO, rappresentata e difesa

dagli avvocati ANGELO CACCIATORE, FRANCESCO IACONO;

– ricorrente –

contro

A.S. A.I.P.A. – AGENZIA ITALIANA PER LE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI SPA

IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CESI 72, presso lo

studio dell’avvocato ACHILLE BUONAFEDE, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MICHELE SESTA;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 10156/2018 del TRIBUNALE di MILANO, depositato

il 10/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 22/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. ALDO

ANGELO DOLMETTA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.- Intervenuta nell’aprile 2016 la dichiarazione dello stato di insolvenza di AIPA s.p.a., GE.S.A. AG2, s.p.a. in liquidazione, ha chiesto alla conseguente procedura di amministrazione straordinaria la “restituzione delle somme”, che erano state “indebitamente trattenute” ex art. 103 L. Fall.; in subordine, di essere ammessa al passivo per il relativo importo in prededuzione ovvero, e in via ulteriormente gradata, in privilegio ai sensi dell’art. 2752 c.c..

Queste richieste sono state poggiate sulla sussistenza di un rapporto contrattuale corrente a far tempo dal 2006 sino a tutto il 2015, per cui l’AIPA in bonis svolgeva servizio di riscossione di TARSU e TIA per conto della richiedente.

2.- Il commissario della procedura ha solo parzialmente accolto la richiesta formulata dalla GE.S.A.. Rilevato che il credito trovava effettivo riscontro nella contabilità aziendale, come propriamente relativo al servizio di riscossione effettuato dalla società insolvente, ne ha infatti stabilito l’ammissione con privilegio ex art. 2752 c.c..

In particolare, il commissario ha respinto la domanda avanzata in via principale dalla GE.S.A., perchè il “denaro, in quanto bene fungibile per eccellenza, non può essere oggetto di domanda di restituzione”: “con riferimento ad esso” – si è sostenuto – è esercitabile esclusivamente un diritto di credito azionabile con la domanda di ammissione al passivo”. Ha altresì escluso la richiesta di prededuzione, “trattandosi di credito anteriore alla dichiarazione di insolvenza”.

3.- Avverso questo provvedimento, la s.p.a. GE.S.A. ha proposto opposizione avanti al Tribunale di Milano. La procedura ha resistito.

Con decreto depositato in data 10 ottobre 2018, il Tribunale ha respinto l’opposizione.

4.- La pronuncia ha in specie ritenuto come risulti “priva di pregio l’argomentazione di parte opponente di poter qualificare il denaro come un bene fungibile, tuttavia suscettibile nel caso di specie di essere “individuato” e “separato””: l’individuazione non può avere ad oggetto “una somma intesa come valore complessivo…, a maggior ragione nell’ipotesi di denaro dematerializzato e contabilizzato in un rapporto di conto corrente bancario”.

Nel caso proposto dalla fattispecie concreta, si è aggiunto, “AIPA riscuoteva per conto della società committente le somme dovute a titolo di imposta in forza di un rapporto successorio, agendo quindi in veste di mandatario all’incasso con obbligo di riversare le somme all’ente (una volta contabilizzate le anticipazioni e gli aggi)”.

“Conseguentemente, una volta confluite le somme sul conto corrente, il denaro si confondeva con il patrimonio di AIPA s.p.a., operando la regola generale per cui, in materia di beni fungibili, la proprietà passa al soggetto che ne consegue la disponibilità, salvo l’obbligo di trasferire l’equivalente (principio generale operante, ad esempio, in tema di deposito irregolare ex art. 1782 c.c. e in tema di depositi di denaro ex art. 1834 c.c.)”.

“Quanto esposto” – ha ancora ragionato il decreto – “rende infondata la pretesa di parte opponente, atteso che nè l’avvenuto incasso, da parte della concessionaria, di somme spettanti alla committente, nè il versamento in un conto corrente dedicato (intestato, tra l’altro, al concessionario stesso) possono certo comportare alcuna deroga alla menzionata regola generale”.

5.- Avverso questa pronuncia la s.p.a. GE.S.A. propone ricorso,

esponendo cinque motivi di cassazione.

Resiste, con controricorso, la procedura.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6.- I motivi di ricorso sono stati intestati nei termini che qui di seguito si vengono a riportare.

Primo motivo: “violazione e falsa applicazione dell’art. 1188 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Secondo motivo: “violazione e falsa applicazione dell’art. 1782 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Terzo motivo: “violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Quarto motivo: “violazione e falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c., comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Quinto motivo: “omesso esame circa l’ammissibilità dei mezzi istruttori in ordine a un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., n. 5”.

7.- Col primo motivo, il ricorrente assume che il rapporto intercorrente tra la GE.S.A., quale ente impositore di taluni tributi, e l’AIPA, concessionario della riscossione dei relativi tributi, dev’essere ricondotto alla “figura giuridica dell’adiectus solutonis causa”.

“Sulla base di tale presupposto” – così si sostiene -, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di rilevare che già nel periodo in cui il denaro viene riscosso e pur “staziona nelle mani del concessionario”, esso già risulta di “proprietà” dell’ente impositore: e questo per via del “carattere pubblicistico delle somme…, in quanto tributi”; “il denaro versato dal contribuente al concessionario in adempimento di un’obbligazione tributario verso lo Stato o altro ente pubblico diviene quindi pecunia pubblica non appena entri in possesso del pubblico ufficiale incaricato dall’esazione”.

In realtà, il concessionario si pone come un “mero “collettore” di somme di danaro dai contribuenti verso l’ente impositore, non potendosi qualificare come cessionario dei crediti” relativi ai tributi.

Ha perciò errato il giudice milanese – così si puntualizza ancora – a contentarsi della figura del mandatario all’incasso per inquadrare la posizione del concessionario, come pure ha errato nel ritenere che le somme da questi incassate siano confluite nel suo patrimonio personale.

8.- Il motivo non merita di essere accolto.

In proposito, va prima di tutto rilevata la compiuta estraneità rispetto all’oggetto della presente controversia – come impostata dalle domande di restituzione ex art. 103 L. Fall. e, in subordine, di insinuazione al passivo, che a suo tempo sono state formulate dall’attuale ricorrente – della tematica in cui si inscrive l’evocata figura dell’adiectus.

La prospettiva propria dell’adiectus attiene all’individuazione dell’arco dei soggetti che – in aggiunta (di per sè, almeno) al creditore – sono da considerare legittimati a ricevere il pagamento, come dovuto dal debitore (cfr., Cass., 13 gennaio 2012, n. 390).

Sul punto, in effetti, la norma dell’art. 1188 c.c., comma 1, si manifesta chiarissima: sia in sè stessa, sia pure nel confronto con il suo comma 2, là dove quest’ultimo discorre di pagamento oggettivamente esatto, ma per l’appunto “fatto a chi non era legittimato a riceverlo”.

Ora, non v’è dubbio che la controversia, giunta all’esame di questa Corte, converga invece sull’eventuale sussistenza del diritto di proprietà del ricorrente su di una somma di danaro, quale frutto dell’attività di riscossione di taluni tributi posta in essere, per un certo periodo di tempo, dalla società successivamente dichiarata insolvente.

La circostanza che i debitori di questi tributi abbiano versato le somme da loro dovute a un soggetto legittimato a riceverle quale era la concessionaria AIPA – non risulta, d’altro canto, posta in alcun modo in discussione. Nè la posizione di legittimato a ricevere il pagamento di AIPA appare in qualche misura smentita (anche solo in via implicita o consequenziale) dal decreto del Tribunale milanese, che correttamente circoscrive la sua indagine alla situazione che segue l’avvenuto pagamento nelle mani di chi – pur non essendo creditore risulta comunque legittimato a ricevere la prestazione (nella specie, sulla base di un apposito rapporto contrattuale col creditore medesimo).

9.- Ciò posto, è adesso da osservare che la peculiare natura, o causa, dell’obbligazione pecuniaria al cui adempimento è tenuto il debitore non è circostanza idonea a diversificare la posizione del soggetto che, essendovi legittimato, la viene a ricevere. In specie, il titolo pubblicistico dell’obbligazione tributaria non vale – in sè – a rendere “non fungibile” il denaro che, nel concreto, risulta utilizzato per il suo adempimento; nè provoca automatici fenomeni di individuazione e/o separazione dei relativi pezzi monetari.

D’altronde, la giurisprudenza di questa Corte – che il ricorrente richiama a conforto della propria tesi – non concerne proprio il tema della spettanza del diritto di proprietà delle somme riscosse (per titolo tributario). Tale giurisprudenza si dispone piuttosto sul piano – affatto diverso da quello che è qui in esame – della configurazione del reato di peculato; nè i portati di questa giurisprudenza si manifestano in qualche modo estensibili oltre il ristretto ambito della specifica conformazione della “condotta in concretamente appropriativa”, che è appunto richiesta dalla norma dell’art. 314 c.p.c..

10.1.- Col secondo motivo, il ricorrente rileva che nella specie si è senz’altro verificata un fenomeno di “doppia separazione patrimoniale”, “più volte richiamato e invocato dalla giurisprudenza” di questa Corte “a fondamento dell’ammissibilità della domanda ex art. 103 L. Fall.”.

Entrato in questa prospettiva, il motivo specifica poi che l'”acquisto della proprietà di una quantità di denaro da parte di chi la riceve” non avviene in modo automatico, essendo per contro “necessario che colui che la ha ricevuto abbia anche la possibilità di servirsene”, come mostra in particolare la norma dell’art. 1782 c.c..

Nella specie concreta – riscontra allora il motivo – le somme “venivano riscosse, a titolo di tributi, da AIPA, per conto e nell’interesse di GE.S.A.”; la stessa provvedeva a “farle confluire in apposito conto corrente bancario, aperto in relazione a quanto previsto dall’art. 2 del capitolato speciale d’appalto”. E, in realtà, AIPA “non aveva alcuna disponibilità o altra possibilità di servirsi delle somme riscosse”: “una volta riscossi i tributi e riversate le relative somme sul conto corrente aperto ad hoc essa, in effetti, “avrebbe dovuto versare le stesse a GE.S.A.”, secondo le pattuizioni contenute nel detto capitolato d’appalto.

10.2.- Col terzo motivo, il ricorrente sostiene che il decreto del Tribunale milanese ha violato il canone ermeneutico dell’interpretazione secondo la comune intenzione delle parti, come comprensivo del relativo comportamento anche successivo alla conclusione dell’accordo, di cui all’art. 1362 c.c.; e ha pure violato quello dell’interpretazione sistematica, di cui all’art. 1363 c.c..

Sotto il primo profilo, si assume che “non vi è chi non veda che l’apertura, specificamente prevista” in contratto (art. 2 del capitolato d’appalto) “di due appositi conti correnti” – uno bancario, l’altro postale – “veniva concordata al solo, unico ed esclusivo fine di far confluire le somme riscosse da AIPA a titolo di TARSU e di TIA all’interno degli stessi, senza peraltro prevedere il riversamento di ulteriori somme riscosse a diverso titolo o nell’interesse di altri soggetti, diverso da GE.S.A.”. Mai, del resto, sono confluite sui conti “somme diverse da quelle riscosse solo per GE.S.A. a titolo di TARSU e di TIA”.

Sotto il secondo profilo, si osserva che da una serie di clausole poste nel capitolato di appalto (“anticipazione e riversamento delle somme”; “modalità e termini di consegna dei ruoli”; “modalità di riscossione”) si desume che il “Tribunale di Milano ha errato laddove ha ritenuto, in violazione del canone ermeneutico ex art. 1363 c.c., che il denaro, riscosso a titolo di TARSU e TIA, una volta confluito nei conti correnti aperti ad hoc si sia confuso con il restante patrimonio di AIPA, considerato che dalle anzidette clausole contrattuali si evince, in modo chiaro ed evidente, la volontà di entrambe le parti di tenere separate le predette somme dal patrimonio di AIPA, al fine di preservarne l’individuabilità e, quindi, la proprietà di GE.S.A.”.

10.3.- Col quarto motivo, il ricorrente contesta la decisione del giudice milanese di avere ritenuto la controversia non necessitante di attività istruttoria. Occorreva per contro – si puntualizza – disporre l’esibizione degli estratti conto relativi al conto accesso presso Poste Italiane; occorreva ammettere prova testimoniale in punto di destinazione esclusiva di tale conto ad accogliere le somme rivenienti dall’avvenuta riscossione dei tributi.

10.4.- Col quinto motivo, il ricorrente rileva vizio di omesso esame di fatto decisivo: la “circostanza, che si chiedeva di dimostrare, della separazione dei tributi di GE.S.A. dal restante patrimonio di AIPA, costituiva e costituisce un fatto rilevante ai fini della decisione”.

11.- I motivi di ricorso dal secondo al quinto compresi – che appaiono suscettibili di un esame unitario, in ragione della loro sostanziale omogeneità – non meritano di essere accolti.

12.- Per meglio inquadrare la problematica portata all’attenzione dai motivi in esame, conviene muovere dall’osservazione che la giurisprudenza di questa Corte ben conosce, e ammette, la possibilità che il denaro – al pari, del resto, di ogni altra cosa fungibile – possa in concreto venire individualizzato, ovvero fatto oggetto di attività di separazione e distinzione dalle altre cose dello stesso genere.

Questo, per la verità, non solo per le ipotesi di apposita previsione legislativa: secondo quanto ad esempio accade nella normativa dettata nel TUF (art. 22) in relazione al fenomeno di c.d. doppia separazione patrimoniale, a cui viene ad alludere il secondo motivo di ricorso, pure richiamando le pronunce di Cass., 12 febbraio 2008, n. 3380 e di Cass., 12 settembre 2008, n. 23560. Ma anche in relazione ad ipotesi che abbiano origine e impronta di segno convenzionale, secondo quanto ancora di recente, è stato sottolineato dalla pronuncia di Cass., 5 novembre 2018, n. 28097.

La rivendica delle cose di genere – denaro compreso – è, dunque, senz’altro possibile, ove le stesse siano state individuate (cfr., così, Cass., 28 febbraio 2011, n. 4813).

13.- Non viene sostanzialmente a discostarsi dai principi e dalle indicazioni appena richiamati l’impugnata pronuncia del Tribunale milanese: nel senso è opportuno pure precisare che la motivazione ivi svolta risulta prescindere da ogni considerazione sulla possibilità in astratto di procedere a individuazioni della “res denaro”

Nei fatti, la richiesta di restituzione ex art. 103 L. Fall. si trova respinta sulla base di un diverso ordine di ragioni (cfr. sopra, il n. 4). Che viene, prima di ogni altra cosa, a fare perno sul versante del denaro inteso come “cifra” complessiva ovvero contabile, quale entità “dematerializzata e contabilizzata in un rapporto di conto corrente”, bancario o postale che sia: del denaro inteso quale somma che esprime, in un dato momento storico, il saldo del conto, per ricorrere ad altre, e più nitide, parole.

Il nucleo della decisione impugnata risulta fermata, cioè, sulla sostanziale rilevazione che – nel concreto della fattispecie in esame – una “individuazione” della “res denaro” non è stata fatta, nè era prevista venisse fatta nei patti intercorsi tra l’ente impositore dei tributi e la società concessionaria della riscossione.

Non si può in effetti negare che, se le parti di un rapporto contrattuale intendono ottenere il risultato della individuazione e separazione della “res denaro”, occorre che si muniscano e predispongano di una struttura effettivamente adeguata per la realizzazione di un’esigenza del genere (e, poi, procedano pure a rispettarla a livello esecutivo; per quest’ultimo rilievo cfr. la citata pronuncia di Cass. n. 23560/2008).

14.- Nel concreto, i motivi svolti dal ricorrente, che sono qui in esame, affidano la sussistenza dell’individuazione e separazione della “res denaro” ai patti intercorrenti tra la società titolare del potere impositivo e la società concessionaria della riscossione (sopra, n. 10.1.).

Questi patti vengono poi a focalizzarsi – sempre secondo la prospettiva che il ricorrente è venuto a svolgere – nell’apertura di un conto corrente bancario e di un conto corrente postale (n. 10.2.): come prevista nei patti, quale “dovere” della concessionaria, e come, nei fatti, poi effettivamente realizzata (seppur realizzata, si puntualizza, con intestazione dei conti alla concessionaria).

A completare l’architettura delineata dai motivi in esame stanno, ancora, due affermazioni, secondo il ricorrente pure deducibili dai ridetti patti intercorsi tra le parti. Una è che la concessionaria non aveva la possibilità di servirsi delle somme riscosse e confluite nei conti (n. 10.1.); l’altra è che sui conti potevano confluire, e sono confluite, solo somme riscosse dai tributi (n. 10.3 e n. 10.4).

15.- Al centro di questa impostazione sta, come si vede, la pattuizione, intercorsa tra GE.S.A. e AIPA, di accendere degli appositi rapporti di conto corrente per accogliere le somme via via riscosse in ragione dei tributi interessati.

A questo proposito va ora osservato come non risulti controverso in causa che il conto bancario e il conto postale così previsti e poi accesi dalla società concessionaria – abbiano seguito gli standard comunemente correnti nella prassi operativa di queste peculiari figure.

Può dunque ritenersi sicuro, in altri termini, che quelle previste dai patti e poste poi concretamente in essere rispondono a operazioni “tipiche” – per struttura e per contenuti – di un conto corrente acceso presso una banca e di un conto corrente acceso presso la posta.

16.- Ora, la previsione e la concretizzazione dei detti conti correnti standard si pone come circostanza che esclude che, nella specie in esame, vi sia stata una idonea attività di individuazione della “res denaro” relativa alle somme via via affluite sui conti medesimi, in ragione dell’avvenuto pagamento dei tributi interessati.

Questo, tuttavia, non già per la ragione addotta dal decreto del Tribunale milanese, che – constato che i conti erano stati intestati alla società concessionaria AIPA – ne ha dedotto che le somme affluite sui conti correnti andavano senz’altro a “confondersi con il patrimonio di AIPA s.p.a.” (sopra, nel n. 4), così nella sostanza proclamando quest’ultima proprietaria delle somme in tal modo affluite sui conti.

Ma per una diversa ragione, che va ben oltre la mera circostanza dell’intestazione dei conti in capo a uno o all’altro dei soggetti interessati; e che dev’essere qui rilevata anche nella prospettiva propriamente sollecitata e disciplinata dall’art. 384 c.p.c., u.c..

In effetti, le somme che vengono versate su un conto corrente bancario, ovvero pure postale, nel sistema vigente divengono automaticamente di proprietà del soggetto – banca o posta -, presso il quale il relativo conto è stato acceso e risulta operativo, non già dell’intestatario del conto (o, per avventura, di altri).

17.- Per il conto corrente bancario la regola appena richiamata, e divergente da quella dettata nell’art. 1782 c.c., discende pianamente dal combinato disposto delle norme dell’art. 1852 c.c. e art. 1834 c.c., comma 1, per cui nei rapporti in conto corrente la banca acquista la proprietà delle somme versate a titolo di deposito, assumendo l’obbligo di restituire, a richiesta dell’avente diritto, altrettante cose dello stesso genere.

Questa stessa regola non può non valere – va qui precisato pure per il conto corrente postale, se non altro in via di applicazione estensiva delle disposizioni appena citate.

In effetti, non appare ravvisabile alcuna differenza significativa – sotto il profilo della operatività specificamente in questione tra l’agire della posta (sub specie “bancoposta”) e quello praticato dalle banche. Come del resto assicura, per altro verso, pure l'”equiparazione” di Poste Italiane alle “banche italiane anche ai fini dell’applicazione delle norme del testo unico bancario”, che è stata espressamente disposta dal D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, art. 2 comma 5.

18.- I rilievi appena svolti si manifestano, in sè stessi, assorbenti (v. così, in relazione a una fattispecie per più versi prossima, sotto il profilo della struttura operativa a quella qui in esame, la citata pronuncia di Cass. n. 28097/2018).

La sussistenza della proprietà della banca o della posta sulle somme via via affluite sui rispettivi conti esclude in radice, all’evidenza, che proprietaria delle somme medesime possa in qualche modo essere ritenuta la GE.S.A., quale società titolare del potere impositivo dei tributi; esclude, quindi, l’ammissibilità che questa possa utilmente svolgere un’azione di restituzione ex art. 103 L. Fall. nei confronti della società concessionaria (come anche, per la verità, nei confronti di qualunque altro soggetto).

L’intera vicenda proposta dalla fattispecie concreta, che è qui in esame, si svolge in realtà sul piano del diritto di credito: di AIPA, quale soggetto intestatario dei conti, nei confronti della banca e della posta depositarie; di GE.S.A. nei confronti di AIPA, per l’ottenimento delle somme da quest’ultima riscosse come pagamento dei tributi interessati.

19.- Ciò posto, è appena il caso di aggiungere che il complesso delle osservazioni sin qui effettuate elimina – a monte, per così dire, di qualunque altro rilievo in proposito – l’ipotetica rilevanza dei patti che il ricorrente assume intercorsi tra la società e titolare del potere impositivo e la società concessionaria in punto di funzione concreta degli istituendi conti correnti (sopra, nel n. 14). E’ pacifico in causa, infatti, che la stipula dei patti in questione non ha previsto alcun tipo di coinvolgimento della banca ovvero della posta, pur proprietarie delle somme che sarebbe affluite sui conti per l’appunto considerati dai patti.

Non diversamente è a dirsi, poi, quanto alla materia dell’assunzione delle prove, di cui ai motivi quarto e quinto del ricorso. Tali prove, in quanto inerenti ai patti intercorsi tra l’ente impositore e la società concessionaria, e alla loro esecuzione, si manifestano ex se non rilevanti.

20.- In conclusione, il ricorso dev’essere respinto.

Le spese del giudizio – che seguono la regola della soccombenza – vengono liquidate in sede di dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida nella somma di Euro 9.100,00 (di cui Euro 100,00 per esborsi), oltre a spese forfettarie nella misura del 15% e accessori di legge.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, secondo quanto stabilito dalla norma dell’art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile – 1, il 22 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2020

 

 

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