Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23471 del 10/11/2011

Cassazione civile sez. I, 10/11/2011, (ud. 05/07/2011, dep. 10/11/2011), n.23471

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Grazia – Presidente –

Dott. FIORETTI Francesco Maria – Consigliere –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

F.D., elettivamente domiciliata in Roma, alla via Emilia n.

88, presso l’avv. POLLARI MAGLIETTA FABRIZIO, dal quale, unitamente

all’avv. TIZIANA DA ROS, è rappresentata e difesa in virtù di

procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.F., elettivamente domiciliato in Roma, alla via Massarosa

n. 3, presso l’avv. AMICI GIANCARLO, dal quale, unitamente all’avv.

ADRIANA TEGHIL del foro di Treviso, è rappresentato e difeso in

virtù di procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza del Tribunale di Treviso n. 2250/06, pubblicata

il 2 novembre 2006.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 5

luglio 2011 dal Consigliere dott. Guido Mercolino;

uditi i difensori delle parti;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale dott. FUCCI Costantino, il quale ha concluso per il rigetto

del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Con sentenza del 2 novembre 2006, il Tribunale di Treviso ha accolto l’opposizione proposta da M.F. avverso il precetto intimatogli il 12 settembre 2005 da F.D. per il pagamento della somma di Euro 2.480,82, dovuta all’intimante, già moglie dell’opponente, a titolo di contributo per il mantenimento della figlia minore, posto a carico del M. con la sentenza di divorzio e rideterminato dal medesimo Tribunale con ordinanza del 25 febbraio 2005.

Premesso che la sottoscrizione dell’ordinanza da parte del solo presidente del Collegio, dedotta dall’opponente quale motivo di nullità del provvedimento posto a fondamento del precetto, avrebbe dovuto essere fatta valere mediante reclamo alla corte d’appello, trovando applicazione l’art. 739 cod. proc. civ., richiamato dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9 il Tribunale ha rilevato che, nel calcolo della somma dovuta, l’intimante aveva fatto decorrere il nuovo importo dell’assegno dalla domanda, laddove, avendo l’ordinanza ad oggetto la revisione delle condizioni previste dalla sentenza di divorzio, queste ultime dovevano considerarsi efficaci fino al momento in cui era intervenuta la pronuncia modificativa.

2. – Avverso la predetta sentenza la F. propone ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Il M. resiste con controricorso, illustrato anche con memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 161 cod. proc. civ., sostenendo che erroneamente il Tribunale ha dichiarato inammissibile la denuncia di nullità dell’ordinanza posta a fondamento del precetto, in quanto il difetto di sottoscrizione del provvedimento da parte del giudice, traducendosi in un vizio insanabile, non è soggetto al principio di conversione delle nullità in motivi d’impugnazione, e può quindi essere fatto valere in ogni tempo, con un’autonoma azione di accertamento ed anche in via d’eccezione o in sede di opposizione all’esecuzione.

Tanto premesso, contesta la necessità della sottoscrizione dell’estensore, affermando che il procedimento di revisione delle condizioni di divorzio, in quanto soggetto al rito camerale, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9 si conclude con un decreto motivato, che, essendo sprovvisto di contenuto decisorio e carattere definitivo, dev’essere sottoscritto dal solo presidente del collegio, ai sensi dell’art. 135 cod. proc. civ.. Precisa comunque che la possibilità di far valere il vizio lamentato era preclusa dal versamento spontaneo del nuovo importo dell’assegno, effettuato dal debitore successivamente alla notificazione del precetto.

1.1. – La censura è inammissibile, per carenza d’interesse.

Com’è noto, infatti, l’interesse all’impugnazione, quale manifestazione dell’interesse ad agire (richiesto, ai fini della proposizione della domanda e della resistenza alla stessa, dall’art. 100 cod. proc. civ.), dev’essere apprezzato in relazione all’utilità concreta che la parte può trarre dall’accoglimento del gravame, e si collega pertanto alla soccombenza, anche parziale, nella precedente fase del giudizio. Tale soccombenza, da intendersi in senso sostanziale e non formale, non può ritenersi sussistente in riferimento al capo della sentenza impugnata con cui è stato dichiarato inammissibile il motivo d’impugnazione riflettente il difetto di sottoscrizione del provvedimento posto a fondamento del precetto, dovendo considerarsi la ricorrente integralmente vittoriosa rispetto a tale pronuncia, e non potendo ravvisarsi l’interesse all’impugnazione nella mera finalità di ottenere una soluzione giuridicamente corretta della questione, salvo il caso, non ricorrente nella specie, che dalla motivazione possano desumersi statuizioni contrarie all’interesse della parte che, quali presupposti logici necessari della decisione, siano suscettibili di passare in giudicato (cfr. ex plurimis, Cass,, Sez. lav., 10 novembre 2008, n. 26921; Cass., Sez. 3, 28 novembre 2002, n. 16865; 27 ottobre 2004, n. 20813).

2. – E’ parimenti inammissibile il secondo motivo, con cui la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, artt. 6 e 9 e degli artt. 147 e 148 cod. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ricollegato la decorrenza del nuovo importo dell’assegno alla data del provvedimento posto a fondamento del precetto, anzichè a quella della domanda, senza considerare che la regola secondo cui l’assegno decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, in quanto giustificata dalla natura costitutiva di tale pronuncia, non si estende alla controversia riguardante esclusivamente l’entità dell’assegno, applicandosi in tal caso il principio secondo cui il diritto azionato non dev’essere pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio, a maggior ragione ove si tratti del contributo dovuto per il mantenimento dei figli, in quanto il fondamento della relativa obbligazione è costituito dal fatto stesso della procreazione.

2.1. – La questione sollevata dal ricorrente, fedelmente puntualizzata nel quesito formulato a conclusione del motivo d’impugnazione, ha infatti ad oggetto la violazione di norme di legge, la L. n. 898 del 1970, artt. 6 e 9 che non possono costituire oggetto di applicazione diretta in sede di opposizione all’esecuzione promossa o preannunciata sulla base del provvedimento con cui, all’esito del procedimento di revisione delle condizioni stabilite con la sentenza di divorzio, si sia provveduto alla rideterminazione dell’assegno di mantenimento. Nel giudizio di opposizione all’esecuzione il giudice non è chiamato a decidere in ordine alla decorrenza dell’obbligo di corrispondere l’importo dell’assegno, così come rideterminato nel procedimento camerale di cui all’art. 9 cit., ma esclusivamente ad interpretare il titolo posto a fondamento dell’azione esecutiva, ovverosia il provvedimento emesso all’esito del predetto procedimento, per accertare quale sia la decorrenza dallo stesso prevista.

E’ pur vero che, nello svolgimento di tale attività interpretativa, il giudice dell’opposizione dev’essere guidato dalla disciplina sostanziale del credito accertato nel titolo esecutivo, nonchè da quella processuale che individua l’efficacia del provvedimento posto a fondamento dell’azione esecutiva, in quanto le relative disposizioni, componendo il quadro normativo tenuto presente dalle parti nella formulazione delle domande avanzate nel procedimento di cognizione e dal giudice ai fini della decisione, rappresentano un riferimento imprescindibile per la corretta ricostruzione del comando impartito con il provvedimento, soprattutto per gli aspetti in ordine ai quali, come nella specie, lo stesso non contenga specifiche indicazioni. Nell’interpretazione di tale comando, tuttavia, il giudice dell’opposizione incontra pur sempre un vincolo nella decisione adottata dal giudice della cognizione, la quale costituisce la regula juris del caso concreto, che, ancorchè viziata da un’errata applicazione di norme di legge, non può essere rimessa in discussione in sede di esecuzione forzata, essendo censurabile soltanto nell’ambito del procedimento in cui è stata enunciata, mediante l’impugnazione del relativo provvedimento, se ancora possibile, ed in caso contrario restando coperta dalla definitività dello stesso.

In quanto avente ad oggetto la regola del caso concreto, l’interpretazione del titolo esecutivo fornita dal giudice dell’opposizione all’esecuzione si risolve, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in un un’indagine di fatto, cen- surabile in sede di legittimità soltanto se il procedimento interpretativo seguito sia affetto da vizi logici o errori di diritto (rilevanti, questi ultimi, esclusivamente nei limiti sopra indicati), ovvero nel caso in cui siano violati i criteri giuridici che regolano l’estensione e i limiti della cosa giudicata (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. 3, 6 luglio 2010, n. 15852; 9 agosto 2007, n. 17482; 23 maggio 2006, n. 12117). Non possono pertanto trovare spazio, in questa sede, censure di violazione di legge come quelle proposte dalla ricorrente, riflettenti non già l’opzione del giudice dell’opposizione per un’interpretazione del titolo esecutivo contrastante con il giudicato formatosi nel processo di cognizione, bensì l’errata interpretazione di norme la cui applicazione, dovendo aver luogo in quest’ultimo processo, risulta ormai coperta dalla definitività del provvedimento posto a fondamento dell’azione esecutiva.

3. – Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

L’oggettiva discutibilità della questione esaminata nella sentenza impugnata induce peraltro a dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso, ed interamente compensate tra le parti le spese processuali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 22 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2011

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