Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23466 del 18/11/2016


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Cassazione civile sez. un., 18/11/2016, (ud. 08/11/2016, dep. 18/11/2016), n.23466

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente di Sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16460/2015 proposto da:

ENEL GREEN POWER S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E.Q. VISCONTI 99,

presso lo studio degli Avvocati ILARIA CONTE ed ERNESTO CONTE, che

la rappresentano e difendono, per delega a margine del ricorso;

nonchè sul ricorso successivo proposto da:

E. ON PRODUZIONE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E. Q. VISCONTI 99,

presso lo studio degli Avvocati ILARIA CONTE ed ERNESTO CONTE, che

la rappresentano e difendono, per delega a margine del ricorso

successivo;

– ricorrenti –

contro

CONSORZIO ACQUEDOTTISTICO MARSICANO S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

FERRUCCIO 30, presso lo studio dell’Avvocato FRANCA SUCAPANE,

rappresentato e difeso dall’Avvocato GIORGIO SUCAPANE, per delega in

calce al controricorso;

e contro

REGIONE ABRUZZO, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrenti –

e contro

COMUNE DI VIVARO ROMANO e REGIONE LAZIO;

– intimati –

e con l’intervento di:

ERG HYDRO S.R.L. a socio unico, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E. Q. VISCONTI

99, presso lo studio degli Avvocati ILARIA CONTE ed ERNESTO CONTE,

che la rappresentano e difendono, per delega in calce all’atto di

intervento;

– interveniente –

avverso la sentenza n. 13/2015 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE

PUBBLICHE, depositata il 21/01/2015.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza

dell’08/11/2016 dal Consigliere Dott. ALBERTO GIUSTI;

uditi gli Avvocati ERNESTO CONTE, FEDERICO DI MATTEO per l’Avvocatura

Generale dello Stato e GIORGIO SUCAPANE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SALVATO Luigi, che ha concluso per il rigetto dei primi due motivi

del ricorso, inammissibilità del terzo.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Intorno agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso, la Cassa per il Mezzogiorno (poi divenuta Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno) iniziava a prelevare acqua per uso potabile da numerose sorgenti tributarie del bacino del Tevere, lungo il quale l’Enel aveva in precedenza installato alcuni impianti per la produzione di energia elettrica.

Trattandosi di derivazione senza titolo concessorio, che diminuiva l’acqua a disposizione degli stabilimenti, l’Enel conveniva l’Agenzia per il Mezzogiorno davanti al Tribunale regionale delle acque pubbliche di Roma, che in parziale accoglimento della domanda condannava la convenuta al risarcimento dei danni cagionati fino al 31 dicembre 1988.

Nessuna delle parti interponeva appello, ma dopo circa sette anni l’Enel si rivolgeva nuovamente al Tribunale regionale di Roma per ottenere il risarcimento degli ulteriori danni subiti a partire dal 1 gennaio 1989.

L’azione veniva proposta contro il Ministero dei lavori pubblici (nel frattempo subentrato all’Agenzia per il Mezzogiorno) e gli altri enti che gestivano le opere di derivazione e, cioè, la Regione Abruzzo, la Regione Lazio, il Consorzio comprensoriale della Marsica e il Comune di Cantalice.

Costituitisi i primi quattro convenuti e chiamato successivamente in causa dall’Enel anche il Comune di Vivaro Romano, veniva disposta ed espletata consulenza tecnica, poi arricchita di chiarimenti, all’esito dei quali il Tribunale regionale rigettava la domanda. Premesso che il precedente giudicato non spiegava nessun effetto vincolante sulla controversia in corso e che alla luce della vigente normativa sussistevano seri dubbi sulla possibilità di considerare illecita la derivazione di acqua effettuata da soggetti pubblici per uso potabile, mancava in ogni caso la prova che nella specie la captazione a monte avesse realmente provocato una diminuzione della produzione dell’Enel che, in ogni caso, aveva avuto la possibilità di scaricarli sui consumatori finali attraverso un semplice aumento delle tariffe.

2. – Le s.p.a. Endesa Italia ed Enel Produzione, succedute nelle more all’Enel, proponevano appello al Tribunale superiore delle acque pubbliche, che, con sentenza n. 814 del 2010, riaffermava innanzitutto il principio secondo il quale la derivazione non autorizzata concretava senz’altro un fatto illecito al quale, però, non poteva attribuirsi natura permanente, ma istantanea con effetti continuati.

Riconosciuta, perciò, la fondatezza dell’eccezione di prescrizione per tutto quanto atteneva al periodo precedente il quinquennio anteriore alla domanda, il giudice a quo aggiungeva poi, a proposito di quello successivo, che la richiesta formulata nei confronti del Ministero risultava “sicuramente infondata”, essendo incontroverso in causa che l’Agenzia per il Mezzogiorno non aveva più la disponibilità degli acquedotti con cui si captava l’acqua dalle sorgenti perchè già trasferiti fin da prima ad altri enti.

Quanto ai restanti appellati, il Tribunale superiore rilevava che la sentenza impugnata aveva fondato il rigetto della richiesta di risarcimento sulla mancanza di prova in ordine all’asserita riduzione della produzione e alla sua riconducibilità al comportamento dei convenuti. Le appellanti avevano, per la verità, sostenuto l’infondatezza delle affermazioni dei primi giudici, ma non avevano chiarito in cosa era consistito il loro errore, “pretendendo una diversa regolazione dell’onere della prova” che, giustamente, il TRAP aveva posto a loro carico, “trattandosi di responsabilità da illecito extracontrattuale”, che richiedeva dal danneggiato “non solo la prova del fatto illecito, ma anche del danno e del nesso eziologico tra la condotta e l’evento”. Tale articolata prova non era stata invece fornita dalle società onerate, atteso che il danno non era stato dimostrato “se non in via astratta ed ipotetica, cioè in ordine alla produttività degli impianti e non alla loro concreta produzione” e che la sussistenza del nesso eziologico non appariva sicura a causa “della inattività della centrale (…) in più fasi decisa dalla stessa Enel e della dispersione dell’energia” ottenuta, che non aveva potuto essere immessa negli elettrodotti perchè la capienza degli stessi era già stata “più volte esaurita dall’energia ottenuta termicamente o altrove”.

Tenuto conto di quanto sopra e considerato che l’obiezione delle appellanti, secondo le quali l’esistenza di prezzi imposti non permetteva di riversare sull’utente finale i maggiori costi affrontati per sopperire al calo della produzione idrica, non valeva ad escludere la possibilità di un siffatto spostamento, essendo “certo e logico che gli organi” deputati a tale determinazione avessero soppesato anche l’eventualità di una captazione illecita dell’acqua, il TSAP ribadiva che nel caso di specie difettavano le condizioni per imputare con sicurezza alle parti appellate la causazione di un danno che, oltretutto, risultava sostanzialmente impossibile da liquidare.

3. – La s.p.a. E.On Produzione (già Endesa) e la s.p.a. Enel Green Power (cui l’Enel Produzione aveva conferito le centrali in discussione) proponevano quindi ricorso per cassazione.

La Regione Abruzzo e la Regione Lazio resistevano, eccependo l’inammissibilità delle censure concernenti la motivazione e l’infondatezza di quelle relative a pretese violazioni di legge che il TSAP non aveva, in realtà, mai commesso. Anche il Consorzio Acquedottistico Marsicano depositava controricorso, con il quale richiedeva alla Corte di voler confermare la statuizione finale del Tribunale superiore, correggendone però la motivazione nella parte in cui aveva affermato l’illegittimità della derivazione, che in quanto compiuta da soggetti pubblici per approvvigionare di acqua potabile la popolazione doveva, invece, ritenersi pienamente lecita pure in difetto di apposito titolo concessorio.

4. – Con sentenza 17 novembre 2011, n. 24079, le Sezioni Unite rilevavano che l’accoglimento della domanda di risarcimento presupponeva innanzitutto l’accertamento di un comportamento illecito dei convenuti, la cui esistenza era stata affermata dal Tribunale superiore anche sulla base di un precedente delle medesime Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite ritenevano che la sottrazione di acqua a monte di una centrale idroelettrica, comportando ovviamente una diminuzione di quella che arriva a valle per l’alimentazione degli impianti, era per ciò solo potenzialmente idonea a provocare una riduzione dell’energia producibile, ed integrava quindi una presunzione semplice di danno che, se da un lato non assurgeva a circostanza che il gestore poteva limitarsi a far valere in giudizio per ottenere in automatico una sorta di rendita di posizione, dall’altro impediva che i responsabili della captazione potessero sottrarsi alla loro responsabilità senza una prova contraria sufficientemente specifica e rigorosa.

Nel caso di specie, osservavano le Sezioni Unite, non era sorto problema sul fatto oggettivo della captazione, ma nonostante ciò e, forse, anche perchè condizionato dal comportamento anteprocessuale dell’Enel, che lasciando passare circa sette anni prima di rivolgersi nuovamente al TRAP, aveva mantenuto un atteggiamento scarsamente compatibile con l’effettiva sopportazione di un grave pregiudizio, il TSAP aveva rigettato il gravame perchè, avuto riguardo alle ripetute dispersioni di energia ed alle volontarie interruzioni del ciclo produttivo, di cui gli organi preposti alla fissazione dei prezzi al consumo avevano senz’altro tenuto conto, non era affatto “certo che la condotta degli appellati a(vesse) provocato essa i danni pretesi e che quest’ultimi (fossero) liquidabili in una misura certa e sicura”.

Le Sezioni Unite ritenevano che, cosi statuendo, il Tribunale superiore avesse però finito con legittimare sostanzialmente l’azione illecita dei responsabili della captazione, mandandoli assolti con una sentenza che oltre a porsi in contrasto con il chiaro disposto dell’art. 1226 c.c., secondo il quale la difficoltà di liquidazione del danno non può influire sull’an, ma unicamente sul quantum del risarcimento, non spiegava in modo adeguato le ragioni per le quali il giudice a quo aveva ritenuto di superare l’anzidetta presunzione.

Secondo le Sezioni Unite, la sentenza impugnata si risolveva in considerazioni di carattere generale prive di reale capacità dimostrativa perchè sganciate da concreti riferimenti a dati che, invece, sarebbero stati basilari, quali, per esempio, la capacità produttiva massima degli impianti, il volume dell’acqua captata, la quantità di energia da essa ritraibile, il numero dei giorni di chiusura delle centrali, l’entità del conseguente calo produttivo e le ragioni per cui il medesimo poteva ricondursi ad una libera scelta del gestore, la energia complessivamente dispersa ed i motivi che consentivano di ritenere la perdita già preventivamente calcolata ed assorbita nei prezzi di somministrazione.

Le Sezioni Unite cassavano quindi la sentenza del Tribunale n. 184 del 2010, con rinvio.

5. – E.On Produzione s.p.a. e Enel Green Power s.p.a. riassumevano il giudizio con ricorso avviato alla notifica in data 16 aprile 2012, chiedendo la condanna della Regione Lazio, della Regione Abruzzo, del Consorzio Acquedottistico Marsicano S.p.a. e del Comune di Vivaro Romano, in solido od in via alternativa tra loro, al pagamento degli importi indicati dal secondo c.t.u. nella relazione depositata il 7 luglio 2005 innanzi al Tribunale regionale delle acque pubbliche di Roma, oltre a quelli maturati per il medesimo titolo dal 7 luglio 2005 alla data della emananda sentenza.Si costituiva in giudizio la s.p.a. Consorzio Acquedottistico Marsicano chiedendo il rigetto della domanda, sulla base del rilievo della mancanza di prova del danno e della inutilizzabilità, allo stato degli atti, del criterio della valutazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c..

Si costituivano, altresì, la Regione Abruzzo e la Regione Lazio, eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva e chiedendo il rigetto della domanda nel merito, e il Comune di Vivaro Romano, chiedendo il rigetto della domanda.

6. – Con sentenza n. 13/15 depositata in data 21 gennaio 2015 il TSAP ha rigettato il ricorso e compensato tra le parti le spese dell’intero giudizio.

6.1. – Il Tribunale superiore ha premesso che la questione della sussistenza della illiceità della captazione non è più discutibile e ha ritenuto acquisito che, nel caso di specie, la captazione di acqua a monte delle centrali gestite dalla società appellante in assenza di concessione costituisce attività che in via presuntiva è idonea a produrre danno alla società stessa.

Il Tribunale superiore ha quindi rilevato: (a) che la presunzione di danno è dalla sentenza della Corte di cassazione connessa al mero fatto della captazione di acqua a monte di una derivazione regolarmente assentita, da parte di un soggetto che non possa vantare un titolo concessorio che lo abiliti al prelievo; (b) che nella specie, tuttavia, dalla stessa consulenza tecnica d’ufficio espletata nel corso del giudizio di primo grado e dai chiarimenti offerti dal c.t.u. ing. C. emerge che le centrali idroelettriche rispetto alle quali sarebbe intervenuta la captazione abusiva si trovano a valle di laghi o bacini regolati; (c) che il c.t.u. ha infatti riferito che “gli otto impianti dell’ENEL interessati dalla vertenza costituiscono un importante complesso, favorevolmente ubicato al centro della penisola, a breve distanza da grossi centri di consumo, quali le industrie di (OMISSIS) e la città di Roma. (…) Gli impianti sono dominati a monte (v. alleg. E) dai due serbatoi artificiali dell’ENEL, a regolazione stagionale, del Salto e del Turano, realizzati lungo i fiumi omonimi, affluenti del Velino. Tali serbatoi comunicano tra di essi e costituiscono così un unico invaso della capacità di 420 milioni di mc. e con quota di ritenuta a 540 m.s.m.”; (d) che deve escludersi che il prelievo di acqua a monte dei due serbatoi, ancorchè illecito, in quanto non assistito da apposito provvedimento concessorio (ma per quanto riguarda il Comune di Vivaro Romano il c.t.u. ha confermato l’assunto del Comune della esistenza di concessione, risalente all’ottobre 1979, con cui la Giunta regionale autorizzava il prelievo di l/sec. 20 dalla sorgente (OMISSIS)), possa essere di per sè idonea ad apportare alcun danno, stante la possibilità di regolare il flusso di acqua destinato ad alimentare gli impianti di produzione di energia idroelettrica.

Il TSAP ha poi sottolineato che la destinazione dell’acqua prelevata al consumo idropotabile, se non vale ad escludere la illiceità della captazione ove sia effettuata in assenza di concessione, assume comunque rilievo sotto il profilo che il prelievo non determina la sottrazione definitiva dell’acqua dal bacino, atteso che l’acqua potabile consumata da qualsiasi Comune, e quindi anche da quelli consorziati, torna nel corso d’acqua a valle, dopo essere stata depurata o no, e quindi le relative portate non sono affatto sottratte al bacino, o quanto meno non lo sono nella misura corrispondente, come preteso dall’appellante, al quantitativo di acqua prelevata.

Il Tribunale superiore ha quindi ritenuto la presunzione di danno derivante dalla illiceità della captazione sterilizzata, in quanto, da un lato, vi è la possibilità che l’afflusso delle acque agli impianti a valle sia regolato, compensandosi nel tempo il deficit derivante dal prelievo illecito, e, dall’altro, per la destinazione del prelievo alle esigenze idropotabili delle comunità interessate, la sottrazione che avviene a monte non è definitiva, venendo l’acqua restituita al corso d’acqua dal quale è prelevata; e ciò dopo avere sottolineato che la restituzione avviene a monte delle centrali idroelettriche gestite dall’appellante.

Il Tribunale ha precisato che dette circostanze ben possono, in sede di rinvio, essere apprezzate perchè non precluse nè dal giudicato in ordine alla illiceità del prelievo, nè dalle indicazioni offerte dalla sentenza della Corte di cassazione in ordine agli indici in base ai quali avrebbero dovuto essere valutati i danni prodotti dalla illecita captazione.

Venuta meno la presunzione di danno derivante dalla illecita captazione di acqua, il Tribunale superiore ha affermato che trovano nuovamente applicazione i principi ordinari in materia di onere della prova; sicchè incombeva alle appellanti (quali soggetti subentrati alla originaria attrice) fornire la prova del danno causato dall’illecito prelievo, prova non raggiunta nel presente giudizio, non essendo le consulenze tecniche d’ufficio espletate nel corso del giudizio di primo grado idonee ad indicare in concreto il pregiudizio subito dalle medesime appellanti.

Il Tribunale superiore ha infine osservato che, a prescindere dalla incidenza, nella presente controversia, della mancata considerazione, da parte dei consulenti tecnici d’ufficio e delle appellanti, dei profili inerenti alla restituzione dell’acqua prelevata a monte degli impianti di produzione idroelettrica e alla ubicazione degli impianti stessi a valle dei due serbatoi, appare in realtà difficile configurare un pregiudizio ai danni del concessionario. Invero, la mancata produzione di energia da fonti rinnovabili, nella specie l’acqua, come esplicitato dai consulenti tecnici e come sostenuto dalla stessa appellante, è compensata dalla necessità o di produrre energia con altre fonti, ovvero di acquistarla all’estero; nell’uno e nell’altro caso, peraltro, non si può ipotizzare che tale evenienza costituisca, di per sè, come preteso dall’appellante, un danno per il produttore, atteso che l’energia prodotta altrimenti o acquistata all’estero viene comunque immessa nella rete nazionale e rivenduta agli utilizzatori secondo le tariffe vigenti applicabili; con la conseguenza che, se del caso, danneggiati sarebbero gli utilizzatori finali, costretti a sostenere un costo superiore per l’energia elettrica utilizzata, ma non certo il produttore.

Il giudice a quo ha poi escluso che alle carenze probatorie in ordine alla quantificazione del danno sia possibile sopperire mediante il ricorso alla liquidazione equitativa.

7. – Per la cassazione della sentenza del Tribunale superiore hanno proposto ricorso Enel Green Power, con atto notificato il 6 luglio 2015, sulla base di tre motivi, nonchè E.On Produzione, con atto notificato il 10 luglio 2015, sulla base, anch’esso, di tre motivi.

Hanno resistito, con separati atti di controricorso, la Regione Abruzzo e il Consorzio Acquedottistico Marsicano.

La Regione Lazio e il Comune di Vivaro Romano non hanno svolto attività difensiva.

Con atto notificato il 22 giugno 2016 è intervenuta in giudizio, ai sensi dell’art. 111 c.p.c., comma 3, ERG Hydro s.r.l., dichiarando di far propria ogni domanda proposta da E.On Produzione ed affermando di essere divenuta titolare, a seguito di atto di scissione, delle centrali idroelettriche già appartenute a E.On Produzione, concernenti la presente controversia, e di essere subentrata a tutti gli effetti a quest’ultima società nell’azione risarcitoria formante oggetto del ricorso per cassazione.

In prossimità dell’udienza Enel Green Power e ERG Hydro hanno depositato una memoria illustrativa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Preliminarmente, deve essere dichiarato inammissibile l’intervento in giudizio di ERG Hydro s.r.l., giacchè, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. 3, 11 maggio 2010, n. 11375; Cass., Sez. 1, 23 marzo 2016, n. 5759), il successore a titolo particolare nel diritto controverso può tempestivamente impugnare per cassazione la sentenza di merito, ma non anche intervenire nel giudizio di legittimità, mancando una espressa previsione normativa, riguardante la disciplina di quell’autonoma fase processuale, che consenta al terzo la partecipazione a quel giudizio con facoltà di esplicare difese, assumendo una veste atipica rispetto alle parti necessarie, che sono quelle che hanno partecipato al giudizio di merito.

2. – Con il primo motivo entrambe le ricorrenti denunciano error in procedendo per violazione: (a) dei limiti del giudizio di rinvio, indicati dall’art. 394 c.p.c. e (b) dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c.. Si sostiene che il Tribunale superiore avrebbe preso in considerazione due circostanze di fatto – la presenza di serbatoi a monte delle centrali idroelettriche e l’utilizzazione per consumo umano delle portate abusivamente prelevate – che non erano mai state utilizzate da alcuna delle precedenti pronunce intervenute nel giudizio. Il TSAP si sarebbe così avvalso di emergenze di fatto che non potevano più essere dedotte nè rilevate, perchè ormai precluse dal giudicato, il quale copre il dedotto ed il deducibile. Inoltre il TSAP, affermando che la presenza di serbatoi a monte delle centrali idroelettriche e l’utilizzazione per consumo umano delle portate abusivamente prelevate avevano sortito l’effetto di rendere automaticamente innocua la sottrazione di acqua al legittimo utente (produttore di energia elettrica), si sarebbe avvalso di argomentazioni che, non essendo fondate su nozioni di comune esperienza, avrebbero dovuto essere suffragate da prove.

Il secondo mezzo dell’uno e dell’altro ricorso denuncia error in procedendo per violazione del giudicato interno, costituito dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 24079 del 2011 che aveva disposto il giudizio di rinvio. Secondo le ricorrenti, dal giudicato discendente dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite si deduce che la presunzione dell’esistenza del danno avrebbe potuto essere vinta qualora gli autori dell’illecito avessero provato a tal fine dei fatti basilari, tra i quali non figura la presenza di serbatoi a monte delle centrali idroelettriche e l’avvenuta utilizzazione per consumo umano delle portate abusivamente prelevate. Vi sarebbe pertanto violazione del giudicato interno sulla presunzione del danno scaturente dal fatto illecito. Sarebbe stata implicitamente negata la presunzione di danno, che le Sezioni Unite avevano invece affermato, ed i responsabili della illecita captazione (i quali non avrebbero potuto sottrarsi alla loro responsabilità senza una prova contraria “sufficientemente specifica e rigorosa”) sono stati invece mandati assolti senza nulla aver provato. Contrasterebbe con il giudicato interno anche la ritenuta impossibilità del ricorso alla liquidazione equitativa.

3. – I motivi – da esaminare congiuntamente, stante la stretta connessione – sono infondati.

Dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 24079 del 2011 non discende un vincolo in ordine all’accertamento dell’esistenza del danno derivante dalla illecita sottrazione di acqua a monte della centrale idroelettrica. La sentenza rescindente di questa Corte, in altri termini, non ha affatto affermato l’esistenza del danno, nè una presunzione assoluta della sua sussistenza, ma ha sollecitato il riesame della vicenda con riguardo agli indici sintomatici del danno.

Nel cassare la prima pronuncia del TSAP, infatti, questa Corte – se da un lato ha sottolineato che l’illecita captazione, essendo per ciò solo potenzialmente idonea a provocare una riduzione dell’energia producibile, integra una presunzione semplice di danno – dall’altra ha anche affermato che il gestore non poteva limitarsi a far valere in giudizio tale circostanza per ottenere in automatico una sorta di rendita di posizione e che la presunzione semplice di danno poteva essere vinta dalla prova contraria, sufficientemente specifica e rigorosa, fornita dai resistenti. L’errore del giudice a quo era stato, in particolare, quello di non spiegare in modo adeguato le ragioni per le quali aveva ritenuto di poter escludere ogni danno, essendo la motivazione della prima pronuncia affidata a considerazioni di carattere generale prive di reale capacità dimostrativa perchè sganciate da concreti riferimenti a dati basilari.

E’ bensì esatto che le Sezioni Unite, con la citata sentenza rescindente, nel rinviare la causa per un nuovo esame al Tribunale superiore, hanno anche proceduto ad identificare possibili indici sintomatici dell’inesistenza del danno: ma ciò è avvenuto a titolo esemplificativo e non tassativo, come è reso palese dal fatto che l’enunciazione dei dati basilari da considerare ai fini dell’esclusione del danno (“la capacità produttiva massima degli impianti, il volume dell’acqua captata, la quantità di energia da essa ritraibile, il numero dei giorni di chiusura delle centrali, l’entità del conseguente calo produttivo e le ragioni per cui il medesimo poteva ricondursi ad una libera scelta del gestore, la energia complessivamente dispersa ed i motivi che consentivano di ritenere la perdita già preventivamente calcolata ed assorbita nei prezzi di somministrazione”) è significativamente preceduta dalla puntualizzazione “quali, per esempio”.

Ne consegue che, nei limiti delle deduzioni e delle prove già svolte ed acquisite al processo, il Tribunale superiore, in sede di rinvio, ben poteva valorizzare, per escludere la sussistenza del danno, altri indici, ulteriori e diversi da quelli in via meramente esemplificativa indicati dalla Corte di cassazione nella sentenza di annullamento.

Ed è appunto ciò che è avvenuto nel caso di specie, nel quale il giudice del rinvio, al fine di ritenere superata la presunzione semplice di danno derivante dalla illecita captazione, ha tenuto conto della presenza di serbatoi a monte delle centrali idroelettriche e della circostanza di fatto che il prelievo per finalità idropotabili non ha determinato la sottrazione definitiva dell’acqua prelevata dal bacino, perchè l’acqua captata è tornata – depurata o meno – nel corso d’acqua a valle, ed essendo la restituzione avvenuta a monte delle centrali idroelettriche gestite dall’appellante.

Questo esito decisorio non era precluso dalle affermazioni contenute nella sentenza rescindente sulla portata dell’art. 1226 c.c., secondo il quale la difficoltà di liquidazione del danno non può influire sull’an, ma unicamente sul quantum del risarcimento: posto che il TSAP, muovendosi entro il perimetro decisorio fissato dalla precedente sentenza delle Sezioni Unite, ha ritenuto vinta la prova della sussistenza del danno, con ciò escludendo il presupposto della stessa liquidazione equitativa.

E si tratta di conclusione alla quale il Tribunale superiore è correttamente pervenuto – grazie anche al contributo dell’esperto, componente tecnico del Collegio – all’esito dell’esame dei dati di fatto emersi dalla stessa consulenza tecnica d’ufficio espletata nel corso del giudizio di primo grado e dai chiarimenti offerti dal c.t.u. ing. C., come si ricava dalle pagg. 13 e 14 della sentenza impugnata.

La statuizione sul punto del Tribunale superiore si sottrae alle censure articolate dalla ricorrente.

Non vi è stata alcuna violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. o dell’art. 115 c.p.c.: posto che il giudice a quo non ha invertito la regola di riparto dell’onere della prova, ma ha ritenuto dimostrata in base alla valutazione delle risultanze processuali l’assenza di danno, avendo desunto la restituzione, dopo l’uso, dell’acqua destinata al consumo umano ai serbatoi posti a monte delle centrali dalle indicazioni contenute nella relazione del c.t.u..

Nè rileva il mancato accertamento, da parte del consulente tecnico, dell’entità della restituzione dell’acqua. Come ha esattamente sottolineato il pubblico ministero nella sua requisitoria, è piuttosto determinante l’accertamento in sè della restituzione, costituendo poi frutto di un apprezzamento di fatto logicamente incensurabile la conclusione che, una volta provata la restituzione dell’acqua, doveva in sè escludersi l’esistenza del danno.

4. – Il terzo motivo di entrambi i ricorsi lamenta violazione della L. 14 novembre 1995, n. 481, art. 3 e del D.Lgs. 16 marzo 1999, n. 79, artt. 1, 2, 4, 5 e 6. Con esso ci si duole che il TSAP abbia affermato che i costi affrontati con impianti termici o per acquistare all’estero quella energia, che il fatto illecito aveva impedito di produrre (mediante gli esistenti impianti idroelettrici), non debbano essere considerati un danno risarcibile, in quanto sono stati sopportati dagli utilizzatori finali, costretti a sostenere un costo superiore per l’energia elettrica utilizzata. Al riguardo, si osserva che, ai sensi della L. n. 481 del 1995, art. 3, qualunque fosse la fonte dell’energia immessa sul mercato, il produttore non ha potuto ricavare un prezzo diverso da quello unitario stabilito dall’Autorità per l’energia elettrica con riferimento all’intero territorio nazionale. Sicchè, almeno a partire da tale legge, i maggiori costi sostenuti dal produttore in conseguenza del fatto illecito non hanno potuto gravare sugli utenti finali, ma unicamente sul produttore medesimo. Inoltre, il D.Lgs. n. 79 del 1999, impedirebbe che i costi di produzione dell’energia possano, anche in minima misura, influenzare il prezzo della relativa vendita, prezzo il quale è determinato unicamente dal libero gioco del mercato.

5. – Il motivo è inammissibile, perchè la censura con esso veicolata si rivolge contro un’argomentazione avente carattere concorrente e rafforzativo della prima ratio decidendi, da sola ritenuta sufficiente a fondare la conclusione di rigetto della domanda.

6. – I ricorsi sono rigettati.

Sussistono giustificati motivi, data la complessità delle questioni trattate in relazione all’andamento del processo, per l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

6. – Poichè entrambi i ricorsi sono stati proposti successivamente al 30 gennaio 2013 e sono respinti, sussistono le condizioni per dare atto ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del T.U. di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte così provvede:

dichiara inammissibile l’intervento di ERG Hydro s.r.l.;

rigetta i ricorsi e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2016

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